(Introduzione a una Piccola controbiografia di Giancarlo Caselli)
Perché incensare Caselli? Beh, si dirà, anzitutto per il suo coraggio nella lotta alla mafia; ma se chiediamo ai suoi ammiratori di raccontarci l’esatta storia di Caselli in Sicilia, non saranno in grado di rispondere, o quantomeno si mostreranno sorpresi nello scoprire i rapporti del magistrato con i vertici dei Ros mentre questi trattavano con Provenzano, l’ordine di non perquisire la villa di Riina, l’istruttiva vicenda del depistaggio su via d’Amelio durante il quale Caselli difese pubblicamente, e a più riprese, l’uomo che torturò per mesi un innocente ragazzo palermitano (Vincenzo Scarantino) per fargli confessare ciò che non aveva fatto e accusare altre sei persone innocenti, al fine di tutelare i veri esecutori, che a quanto pare agirono anche per conto dello Stato. Quel torturatore, Arnaldo La Barbera, amico di Caselli, ce lo ritroveremo davanti alla scuola Diaz, a Genova, il 21 luglio 2001, a dare il via insieme a Mortola e a Canterini al bel pestaggio di massa e alle sevizie, successive, alla caserma di Bolzaneto. Ma per Caselli, come disse a Palermo mentre la gente scendeva in strada nei quartieri, contro quelle (meno conosciute) torture, La Barbera era “un uomo la cui eccellente professionalità non può essere messa in discussione”. E ci mancherebbe.
Non mettiamo in evidenza queste cose per “gettare fango” sul nostro avversario di questi anni: il fango, se c’è, prima o poi si vede e noi, se proprio dobbiamo – Caselli lo sa: e questo è il nostro saluto – preferiamo gettare altre cose. Né siamo interessati a leggere la storia siciliana degli anni di Caselli nel segno di una retorica dello stupore riguardo ai “rapporti”, ai “misteri”, alle “trattative”, del tutto normali in un paese a economia capitalista – dove chi possiede capitali, legali o illegali, fa affari con tutti gli altri. Lo stato è garante di questo scambio, nonostante gli incidenti di percorso, dove può capitare che un imprenditore di origini troppo “popolari” faccia saltare in aria dei giudici o uccida i politici suoi servitori quando non rispettano più i patti; e il cinico, si badi, non è chi di questa verità lampante prende atto, contrapponendosi tanto a quel capitale quanto alle sue istituzioni, senza farsi distrarre dal velo di Maya delle decorazioni giuridiche, ma chi finge di ignorarla, sperando magari che prosperi ancora mille anni. (E noi non siamo, inoltre, neanche lontanamente vicini alla lettura legalitaria della situazione siciliana, e più in generale meridionale o italiana: la contrapposizione, per noi, non sarà mai tra cittadini e delinquenti, ma tra chi è sfruttato e chi non lo è; ad ogni latitudine e in qualsiasi impresa, più o meno “di stato”, più o meno “privata”, più o meno “mafiosa”).
Torture, depistaggi, insabbiamenti, sparizione di prove e uomini d’affari e di governo che stringono accordi per il futuro. Caselli, intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa nel febbraio del 2012, dopo aver concluso la sua abituale filippica contro i No Tav, di fronte alla domanda sulla “trattativa”, cambia discorso con una nonchalance che lascia di sasso persino il non proprio vivace intervistatore (guardare su youtube per credere). Nel suo ultimo libro, scritto con Ingroia, afferma di non aver mai saputo, né compreso, mentre era a Palermo, che tanto chi stava sotto di lui (i vertici di polizia e carabinieri) tanto chi stava sopra (il ministro dell’Interno, il ministro della Giustizia, il presidente della repubblica) aveva messo in piedi questa “disgustosa trattativa”. Vogliamo essere magnanimi, gli diamo il beneficio del dubbio: è stato un idiotés, uno che si è isolato per sottrarsi al difficile sforzo di pensare il politico – secondo l’etimo greco; una tigre di carta utile per la TV, in una “battaglia” che, pur con morti ed ergastoli, nella vera sostanza non è mai esistita.
L’errore di Caselli, insomma, è stata l’ingenuità: credere che quegli uomini, che l’avevano servito con tale abnegazione quando si trattava di arrestare o uccidere i sovversivi degli anni Settanta (come il generale dei carabinieri Mario Mori, protagonista dei famosi colloqui con Vito Ciancimino nei rari momenti in cui, tra fine 1992 e inizio 1993, non era a pranzo o a cena con Caselli), avrebbero messo lo stesso impegno nel debellare ciò che ancora il procuratore pensava essere una folkloristica società occulta siciliana. Oppure l’errore fu credere che l’autorità giudiziaria, che lui credeva il faro dell’Italia perché aveva distribuito un po’ di galera contro chi aveva contestato tutto quel sistema corrotto pochi anni prima, avrebbe spedito in carcere colui contro il quale i contestatori avevano gridato e tentato di sovvertire, ossia il Divo Andreotti.
No, procuratore: come ha visto durante l’arco della sua carriera, non funziona così. Oggi ancora pochissimi hanno un’immagine corretta di ciò che la parabola professionale di questo magistrato ha significato – assieme a quelle di molti suoi colleghi – per l’Italia. L’azione della magistratura italiana negli anni Settanta è ancora un tabù. Affermare che le informazioni ottenute al fine di sgominare, ad esempio, le organizzazioni armate di sinistra, furono ottenute grazie all’uso non estemporaneo o casuale, ma sistematico e scientifico della tortura – dal water boarding allo stupro delle accusate con bottiglie di vetro – è oggi ancora dire qualcosa di sconvolgente, nonostante da pochi mesi anche una sentenza della cassazione lo abbia confermato (senza che per noi la parola di un giudice valga più di quelle, gridate nel silenzio assordante da quarant’anni, dei reduci; anzi!). Certo, si dirà, chi dichiara guerra allo stato riceve guerra in cambio; ma se da un lato sono possibili criteri di comportamento anche in guerra (e va detto che chi attaccò lo stato uccise, e anche molto, ma non torturò), va sottolineato che Caselli non ha mai smesso di propinare la favola secondo cui il “terrorismo” sarebbe stato sconfitto “nelle aule dei tribunali”, ossia nell’alveo della costituzione. Balle.
Come una balla è che la magistratura e la sua polizia giudiziaria, in quegli anni, abbiano operato soltanto contro la lotta armata, quando in realtà attaccarono soprattutto l’iceberg dei movimenti sociali e delle loro avanguardie, anche disarmate, per far affondare in ultima battuta la punta dei gruppi militarizzati (e anche loro, i servitori dello stato, uccisero, e molto, per raggiungere questi obiettivi – ma non lo dicono). La chiusura delle Radio Libere, gli arresti di massa, l’uso arbitrario (per anni, e non per mesi, come avviene oggi) della detenzione preventiva in carcere, senza processo; gli omicidi di manifestanti, i pestaggi sistematici, i ricatti allucinanti di cui nessuno sa, e che soltanto i ricattati raccontano, e ancora adesso hanno paura, se sono ancora vivi. Soprattutto il grande piano, la grande alleanza che purtroppo funzionò, tra magistratura “democratica”, da un lato (Caselli, Laudi, Violante) e alti ambienti militari, non “democratici” che avevano stabilivano in segreto il piano Solo, il piano Borghese, piazza Fontana, e ora stabilivano piazza della Loggia e la stazione di Bologna, Gladio, la P2 e la Rosa dei Venti. Lo stato “deviato”: balle. Quegli apparati non sono mai stati “deviati”: erano, semplicemente, gli apparati dello stato, del nostro stato, la repubblica italiana.
Nel suo ultimo libro, Marco Travaglio evidenzia che in un discorso di qualche anno fa Giorgio Napolitano criticò “certa storiografia che ha sdoganato o teorizzato la teoria del doppio stato”. Travaglio fa notare che, dalle bombe degli anni Settanta a quelle del 1993, il doppio stato è una di quelle evidenze che è un dovere civico ammettere e smascherare, proprio contro chi, come Napolitano, pretende ancora di celarle dietro l’immagine eterea di uno stato “unico”, democratico e innocente. Secondo noi il discorso va capovolto. Gli stati possono essere due, anche tre o quattro (e in effetti, studiando la storia, ci si accorge che lo stato è nei fatti, in modi diversi nei tempi e nei luoghi, uno spazio attraversato anche da forze contraddittorie), ma in fin dei conti lo stato è sempre uno, è lo stato: ed è colpevole per conto di tutti gli stati bis, tris, quater che porta in seno, se è vero che in ultima analisi i morti delle stragi, da Milano a Lampedusa, o i torturati dai collaboratori di Caselli (non da lui in persona, per carità: lui è una persona pulita) preferirebbero, almeno su questo, non essere presi per il culo – né con la storia dello stato innocente, né con la storia del “doppio”, “triplo” o “quadruplo” stato.
Proprio così, cari studenti di giurisprudenza che volete fare i magistrati: chi sceglie di operare per conto delle istituzioni porta su di sé, direttamente, tutte le loro colpe e le loro responsabilità di fronte alla storia; si prende, se i giuramenti hanno un senso, tutto il pacchetto. Non vediamo oggi forse quanto sia diffusa l’incredibile abitudine di presentarsi in TV dopo aver commesso qualche misfatto (appoggiato riforme del mercato del lavoro, promulgato leggi elettorali, avvelenato popolazioni, istituito lager per migranti) e parlare come se niente fosse, con impressionante disinvoltura, di fronte a giornalisti compiacenti, lavandosi delle proprie responsabilità precise e oggettive davanti all’opinione pubblica, con un semplice, strabiliante, ripetere che “è proprio un dramma”, che “da adesso non possiamo più fallire” e che “bisogna proprio fare qualcosa”? È questo sdoganamento politico e culturale del rifiutarsi di prendere e dare le responsabilità, per il presente e per la storia, che permette che Caselli sia un esempio e il suo amico La Barbera, quando è morto, sia stato compianto dai giornali; e a furia di disperdere il senso delle cause, dei nomi e delle istituzioni sugli anni Duemila, sugli anni Novanta o sugli anni Settanta, perderemo tutto, se è vero che è divenuto normale anche tornare ad attribuire la responsabilità delle colpe fasciste “all’Italia”, “agli italiani”, o magari a qualche generica “malattia morale” di crociana memoria.
Quindi no, non fa eccezione Caselli, e ci mancherebbe: per i suoi arresti, le sue caccie alle streghe, le sue menzogne di oggi e di ieri, la sua disonestà intellettuale, le sofferenze che ha spalmato su chi si è ribellato in una vallata del nord o sulle popolazioni di quartieri palermitani vittima delle manovre dei piani alti dello stato. Sofferenze e manovre di cui lui era complice in quanto uomo di stato, difensore di questo apparato decrepito e immondo, convinto ideologo dell’imposizione a qualsiasi costo, prima di qualunque altra cosa, di queste regole farlocche, che non soltanto costituiscono ancora e sempre il solito, stantio e spietato, diritto di classe, ma sono regolarmente infrante proprio da chi, come lui, ha sempre piegato le garanzie giuridiche alle esigenze dell’accusa, e da chi, attorno a lui, le ha infrante a qualsiasi prezzo per difendere lo scranno e la bandiera dietro alle quali lui ha potuto proludere alle sue requisitorie. E già si ode arrivare il mesto ronzio: ma se criticate anche Caselli, anche un uomo come lui, buono e pulito, dovete essere delle cattive persone; dovete avere soltanto odio dentro. Invece no; chi ci arresta e ci indaga in nome della legge sarà sempre anche sotto indagine da parte nostra, con l’unico potere che ha chi non ha potere: il sapere.
La notte del procuratore. Piccola controbiografia di Giancarlo Caselli vedrà la luce su queste pagine nei prossimi giorni, in 3 puntate: 1- Gli anni Settanta; 2 – Sicilia; 3- La Val Susa
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