Stranieri in un mondo alieno

Juliputsch_19341

Wolfi Landstreicher
«… siamo soli ed abbiamo la totalità di un mondo di fronte a noi»
N’Dréa Doria
Sono stato un anarchico per oltre trent’anni. Per me questa non è mai stata un’identità a cui aggrapparsi, un’etichetta per darmi un senso di appartenenza. È stata piuttosto una sfida continua per affrontare la mia vita in maniera particolare, ponendomi costantemente la questione di cosa significhi rifiutare ogni forma di dominio e sfruttamento nella mia vita a livello pratico. Questo non è un interrogativo semplice con risposte facili, ma un problema con cui devo confrontarmi di continuo, perché qui e adesso sto affrontando un mondo in cui il dominio e lo sfruttamento definiscono i rapporti sociali, in cui la maggioranza degli individui sono spossessati di ogni possibilità di determinare la propria vita, alienati dell’energia creativa attraverso cui si potrebbe realizzare un simile progetto. In quanto anarchico, ho preso la decisione di rifiutare e combattere contro questo mondo. Ciò ha fatto di me un disertore, un outsider, di fatto uno straniero in un mondo alieno.
Ovviamente non è stata una scelta facile. Molti anni fa ho scritto: «Non sono un uomo pacifico, un uomo contento e desideroso di accettare la volontà degli dèi. No, sono un uomo in guerra — con il mondo e con l’intera società, di fatto, ma anche contro me stesso e coloro che amo di più». E penso che ciò sia inevitabilmente vero per ogni anarchico sincero nel proprio desiderio di vivere il proprio rifiuto delle imposizioni dell’ordine dominante. Per superare l’isolamento di questo rifiuto è necessario cercare complici insieme ai quali rubare e riprendersi l’energia creativa con cui possiamo costruire le nostre vite insieme, nei nostri termini, e insieme a cui usare tale energia per distruggere il mondo alieno che l’ordine dominante ci impone. Mi confronto costantemente con l’interrogativo di come vivere in questo modo e portare avanti questo progetto con gioia. I pensieri che seguono derivano da questi interrogativi.

Se faccio riferimento soprattutto agli anarchici nel parlare dei progetti che porto avanti, è perché sono un anarchico e per questo scelgo di realizzare i miei progetti in un certo modo. Allo stesso tempo, sono ben consapevole che la complicità non possa limitarsi agli anarchici. Ci sono coloro che odiano le abituali ed irriflessive attività quotidiane, le relazioni ed i ruoli che costruiscono questa società e che sono imposti a tutti noi dalla loro accettazione inconscia pressoché universale, ma che non lo esprimono attraverso idee anarchiche o rivoluzionarie. Ciò nonostante, agiscono contro questa società nel corso della propria vita, ed anch’essi sono potenziali complici. In sostanza, solo essendo aperti a simili rapporti noi anarchici possiamo rompere il ghetto in cui facilmente ci rinchiudiamo. Per questo motivo sto rivolgendo questi pensieri soprattutto agli anarchici, ma anche a chiunque disprezzi le imposizioni servili di questa società.
In questo testo userò anche parole di cui diffido, essendo problematiche e facili all’incomprensione. A volte userò la parola «noi», poiché in alcune circostanze è la metafora migliore e più sbrigativa per esprimere quello che sto cercando di dire. Per quel che sarò capace, eviterò il «noi» generico a favore dell’impersonale, ma laddove ciò crei una lettura impacciata e scomoda ed io mi riferisca ad esseri umani in generale, userò questo termine inaffidabile. Inoltre, è importante tenere presente che la società, lo Stato, l’economia, la religione, ecc., non sono cose in sé, capaci di agire. Sono piuttosto rapporti sociali, attività svolte da individui, di solito in maniera abitudinaria ed irriflessiva. Userò spesso la forma abbreviata di dire «la società fa questo», «lo Stato fa quello», ecc., ma vorrei che il lettore tenesse a mente che questa è solo una scappatoia, che in realtà sono gli individui a fare queste cose portando avanti ruoli e attività, prescritti ed abituali, che creano e mantengono le strutture istituzionali di questa società. Infine, questi pensieri sono esplorazioni, non conclusioni finali. In quanto tali, li considero uno strumento per me stesso e per gli altri da usare per sviluppare ed espandere i nostri progetti di riprenderci le nostre esistenze e distruggere l’ordine sociale che ce le ha sottratte.
Vivere in un  mondo alieno
«Non si tratta che del mondo “divenuto”: la delusione genera l’impotenza generale ed allontana ancor più ogni responsabilità morale. Il risultato della dimissione dell’uomo dal suo mondo si evidenzia ormai con l’aggressione di catastrofi sempre più inevitabili»
N’Dréa Doria
Cosa significa essere vivi in un mondo alieno? Dopo tutto, questa non è la condizione solo degli anarchici e dei rivoluzionari, nemici consapevoli di questo mondo. È la condizione normale di vita all’interno di questa società. L’alienazione definisce ogni rapporto sociale in un mondo di lavoro e denaro, politica ed economia, dove la ricchezza ed il potere sono concentrati in poche mani. In simili circostanze, non c’è nessun rapporto diretto fra i pensieri dell’individuo, i suoi desideri, le sue attività, ed il loro risultato. La «vita» è qualcosa che gli capita, non qualcosa che crea. È un’imposizione aliena sul nulla che è diventato. Se desidera ancora molto con un’energia creativa che esige di essere espressa, tale condizione è intollerabile. Ma per combatterla ha bisogno di capire come funziona.
La sopravvivenza contro la vita
La principale dimostrazione che l’alienazione sta alla base centrale dei rapporti sociali in questo mondo è data dal fatto che le necessità della sopravvivenza non sono semplicemente separate dal desiderio di una vita piena ed appassionata, ma attualmente vi si oppongono. Le attività e i rapporti abituali ed istituzionali che compongono la società del mercato e dello Stato creano una realtà per cui siamo costretti a sacrificare la maggior parte della nostra esistenza al fine di ricavare denaro per soddisfare i nostri bisogni primari, invece di impiegare la nostra vita nel godimento di sé e nell’esplorazione creativa. Per dirla in altri termini, questo mondo ci ricatta a riprodurlo, a sacrificare noi stessi a favore della sua continua esistenza ed espansione.
Per me questo si è mostrato davvero azzeccato non appena ho iniziato a incontrare difficoltà sempre maggiori nel realizzare ciò che desidero nella mia vita ed ho osservato sempre più numerosi amici cadere di recente in difficoltà finanziarie. Ci sono circostanze specifiche che hanno acuito la pressione del ricatto sociale della sopravvivenza, realtà economiche, mutamenti nelle condizioni di produzione e nei rapporti di classe che hanno reso le cose più difficili ovunque. L’economia statunitense è in pessima forma in questo momento, e come sempre a pagare di più sono quelli che si trovano in basso. E non c’è nulla nell’essere un rivoluzionario o un anarchico che renda immune da queste difficoltà.
È triste ma per la maggior parte, nonostante le analisi critiche che noi anarchici possiamo avere in quanto nemici dichiarati di questa società, anche noi tendiamo a cercare soluzioni immediate con mezzi frammentati e atomizzati. Anche se siamo in grado di riconoscere che, in base ai nostri sogni e desideri, un Obama o un Nader non sono meglio di un Bush, non applichiamo la stessa logica alle opzioni che questa società ci offre per sopravvivere. In un certo senso, ciò è inevitabile finché esisterà questa società. Non c’è nulla di appassionante e vigoroso nel morire di fame. Il lavoro, l’elemosina, le borse di studio, le truffe, il furto, e il recupero sono tutti semplici mezzi per sopravvivere all’interno di questa società e nient’altro. Il fatto è che la sopravvivenza all’interno di questa società è comunque frammentata e atomizzata, e questo è il motivo per cui è essenziale lottare affinché la nostra gioia nella vita e i nostri progetti di rivolta contro questa società abbiano il sopravvento sulla sopravvivenza, in modo di trasformare le attività frammentate attraverso cui sopravviviamo in meri strumenti per i nostri progetti e la nostra vita, usandoli contro la società che ce li impone.
Questo è un progetto estremamente difficile. Comporta il guardare oltre quello che siamo, oltre i limiti della nostra attuale esistenza. E comporta l’imparare a riconoscere i complici quando li incontriamo, imparare come intrecciare insieme i nostri sforzi per andare oltre i limiti di questa società e le nostre rivolte contro le imposizioni della sopravvivenza. Simili sforzi esistono ovunque la gente non sia stata spinta ai limiti della disperazione, ovunque anche un poco di piacere riesca ad entrare nella vita delle persone. Ecco perché molti di noi hanno sperimentato questi momenti di vita al di là dei limiti imposti dalla società. Nella sua introduzione a Dancing in the Streets, Franklin Rosemont descrive un’esperienza simile avvenuta a North Beach, San Francisco, durante l’era beat. Egli riporta l’esperienza di persone che hanno deciso di dare alla propria vita, alla propria creatività e alla propria gioia una priorità sulla sopravvivenza trovando dei modi per preoccuparsi di quest’ultima senza ostacolare le precedenti. A suo dire: «Quasi tutti erano poveri, ma nessuno è diventato affamato, e i nuovi venuti non hanno avuto problemi nel trovare un posto in cui stare. A North Beach, nel 1960, ciò che importava di più era la poesia, la libertà, la creatività e il divertimento». È un sogno utopico a confronto delle miserabili realtà di questa esistenza, e quindi creare una pratica utopica nel presente senza cadere nella fuga. Al tempo stesso riconosco che quelli erano tempi differenti, più facili, più prosperi. Dove la prosperità sembra esistere ancora negli Stati Uniti e in Europa occidentale, dipende direttamente dal credito, e per coloro che non possono o non vogliono giocare a questo gioco l’illusione della prosperità sta scomparendo. Quelli che continuano a giocarlo rimangono in un debito perpetuo che li rende sempre più schiavi dell’attività frenetica e del lavora-e-paga, e mentre il sistema creditizio va in pezzi è difficile immaginare per chiunque abbia un minimo di intelligenza che questa illusione possa reggere a lungo. Ma il mondo alieno mantiene la sua morsa vampiresca sulla vita di ciascuno, e solo nella rivolta inesorabile contro di esso è possibile al tempo stesso spezzare questa presa ed afferrare i momenti di vita autentica.
Tempi duri
Gli esseri umani vivono in un mondo alieno da quando l’economia e lo Stato hanno cominciato a dominare la vita, ma l’attuale generazione sta vivendo tempi particolarmente duri. Le assicurazioni di appena pochi decenni fa si sono sbriciolate a tutti i livelli e la «fiducia» espressa da coloro che dominano questo mondo assume toni sempre più stridenti, dato che il loro fallimento fa il paio con le terribili conseguenze del loro successo nel mettere in mostra la natura precaria del mondo che è stato creato per tutti. Invero, è la nostra attività quotidiana (lavoro, consumo, riproduzione della realtà sociale nei ruoli e nei rapporti predeterminati che ciascuno di noi porta avanti ogni giorno) a creare questo mondo. Eppure esso è creato contro di noi, mettendo a rischio il nostro benessere e sempre di più la nostra stessa vita. La precarietà a tutti i livelli è arrivata a determinare l’esistenza umana poiché viviamo in un mondo di disastri che è il prodotto e la necessità della società capitalistica e del suo apparato industriale.
Da quando ha iniziato a svilupparsi, il capitalismo è stato una catastrofe per tutti tranne che per i dominatori e gli amministratori della società. Può sopravvivere solo espandendosi, e la sua espansione ha richiesto l’incessante sradicamento delle persone dai territori e dai rapporti che costituivano la loro vita. Ciò si è reso necessario per i capitalisti al fine di ottenere accesso alle materie prime e imporre alle persone una situazione di dipendenza, costrette a vendere il tempo della loro vita in cambio di un salario che permetta loro di sopravvivere. Ma l’espansione del capitale ha richiesto anche lo sviluppo di un sistema industriale di produzione che ha avviato un processo di devastazione ambientale.
Sebbene i disastri facciano parte della realtà del capitalismo fin dall’inizio, negli ultimi decenni si è verificato un notevole aumento del loro numero e della loro intensità. Ciò non deve sorprendere. Gli effetti ambientali del sistema industriale si sono accumulati, e questo sistema si è diffuso in tutto il pianeta. I sistemi tecnologici sono diventati sempre più complessi e fragili con la conseguenza che sono più inclini al malfunzionamento e al collasso. Tutto ciò è capitato in una situazione in cui i sistemi sono sempre più interconnessi ed utilizzano materiali di cui ignoriamo gli effetti potenziali. Perciò questi collassi possono essere davvero disastrosi.
I disastri industriali come Three Mile island, Chernobyl, Bhopal, Tokaimura (Giappone) e Baia Mare (Romania) si evidenziano per via dell’estensione del danno e della palese causa tecnologica. Ma disastri analoghi su scala minore sono parte del normale funzionamento del sistema industriale. A Baia Mare, per esempio, c’erano state diverse perdite di sostanze nocive nel corso dell’anno precedente quel disastro, un’altra minore nello stesso mese e una serie costante nel corso degli anni. Allo stesso modo, perdite di sostanze chimiche nel fiume Mississippi stavano inquinando lentamente le acque del Golfo lungo la costa a sud degli Stati Uniti molto prima della perdita di petrolio della British Petroleum del 2010. Forse i disastri industriali peggiori sono quelli graduali i cui effetti dannosi diventano visibili solo diversi anni dopo.
Ma anche le cosiddette catastrofi «naturali» sono diventate sempre più frequenti e devastanti. Infatti, non possiamo più parlare davvero di disastri semplicemente naturali. Ogni disastro è sociale. Da un lato, il bisogno capitalista di espansione promuove metodi di produzione e costruzione basati su «costo-efficienza», i quali creano una mediocrità che è destinata ad aumentare drasticamente la devastazione causata dai vari disastri. Basti considerare ad esempio che durante il terremoto in Turchia nel 1999 furono soprattutto le nuove strutture a crollare. Quelle vecchie, costruite prima che il capitalismo edificasse nell’area, restarono in piedi. D’altro canto, i progetti tecnologici dello Stato e del capitale quasi certamente giocano un ruolo nell’intensità e nella frequenza delle catastrofi «naturali». Se il ruolo preciso svolto dai test sotterranei delle armi nucleari nell’aumento dell’intensità e della frequenza dei terremoti è ancora argomento di discussione, il ruolo dell’inquinamento industriale nel mutamento del clima globale che ha di certo intensificato gli uragani, le tempeste, le bufere di neve e altri disastri climatici in anni recenti è quasi ovvio. Viviamo in una società che alimenta il disastro.
Ma il disastro non è semplicemente un effetto spiacevole di questo ordine sociale. Quest’ordine richiede simili catastrofi. Ora che l’ordine sociale del capitalismo si è diffuso attraverso il globo, il disastro continuo è necessario per mantenere la produzione in espansione. Non solo per la necessità di ricostruire le aree devastate, ma anche perché queste situazioni forniscono pretesti per nuovi sviluppi tecnologici, a parole indirizzati a contenere gli effetti nocivi dei disatri, ma di fatto intenzionati ad aumentare i profitti. In aggiunta, la minaccia del disastro gioca una parte necessaria nel giustificare il ruolo degli esperti e della loro autorità. Ritraendo i disastri come eventi per lo più distanti ed isolati, i media ci impediscono di fare collegamenti e giungere ad una comprensione della funzione sociale del disastro, facendolo apparire una fatalità inevitabile. Ciò mantiene la minaccia come fonte di una atmosfera di fondo di paura che serve a chi domina questo mondo. Ma i disastri stanno diventando sempre più frequenti e gravi, e il sistema industriale imposto dal capitale potrà solo peggiorare le cose. Gli esperti e le loro trovate tecnologiche stanno diventando sempre meno convincenti come soluzioni, dato che ogni novità tecnologica porta con sé il proprio carico di disastri.
Come ho sopra menzionato, il capitalismo ha iniziato la sua espansione sradicando un alto numero di persone dalla vita che si erano create. Eppure fino a tempi recenti la maggior parte degli abitanti della terra erano riusciti a vivere facendo i contadini, i giardinieri, i pastori, i foraggieri, con sporadici contatti diretti con la realtà del capitalismo. Nelle nazioni occidentali a capitalismo avanzato, una fetta crescente di persone sradicate sono diventate salariati, e la lotta di classe ha cominciato a manifestarsi all’interno dei settori industriali. Accanto ad una repressione sanguinaria, i dominanti solevano garantire concessioni agli operai attraverso le strutture sindacali. Negli anni 60 c’era qualche salvaguardia per gli operai e un sistema assistenziale per i poveri che sembravano perlomeno garantire la sopravvivenza nella maggior parte dei paesi occidentali. Ma allo stesso tempo il capitalismo era giunto davvero a dominare il pianeta, e gli effetti di questo dominio globale hanno cominciato a manifestarsi.
L’effetto più ovvio dell’espansione del capitale nel pianeta è stato quindi il progressivo e nocivo sradicamento delle persone dall’esistenza che conducevano. Attualmente, più della metà della popolazione mondiale vive nelle città. Poiché non ci sono abbastanza posti sul mercato del lavoro, tutte queste persone si ritrovano nei ghetti e nelle baraccopoli e tirano a campare con i crimini o l’economia sommersa. In aggiunta, i conflitti etnici, nazionalisti e religiosi, i disastri ambientali, le epidemie o la mera povertà stanno portando sempre più persone ad affrontare la strada o il mare aperto nella speranza di trovare qualcosa di meglio. Questi migranti spesso senza documenti vengono facilmente sfruttati in quanto manodopera a basso costo, vivendo nella costante paura dell’arresto e della deportazione. Quelli che cercano di continuare a vivere in piccole comunità tradizionali dove il capitale non è ancora penetrato del tutto, ne avvertono comunque gli effetti sotto forma di diminuzione di spazio, d’invasione di sostanze inquinanti, di aeroplani e trasporti, di individui che cercano di convertirli alle modalità del mondo dominante.
Questa espansione in tutto il globo è andata di pari passo con una ristrutturazione economica e tecnologica che ha permesso al capitale di scalzare le antiche salvaguardie per gli operai e i poveri in occidente. Come l’assistenza viene tagliata, il lavoro sicuro è sempre più difficile da trovare. Sempre più persone si ritrovano a fare lavori temporanei o mestieri di merda che si presume lasceranno o da dove saranno molto presto licenziati. La mancanza di casa è all’apice. Gli stipendi non ce la fanno a reggere agli aumenti di affitti e bollette. Molti non possono affrontare le cure mediche. L’attività illegale e l’economia sommersa sono necessarie alla sopravvivenza di un crescente numero di persone.
In breve, allorché il capitale è riuscito a dominare il mondo ha spinto sempre più gente ai margini della società, trasformando lo sfruttamento e lo spossessamento nella minaccia di esclusione. Ma, così facendo, sta creando una situazione dove sempre più persone sentiranno di non avere nulla da perdere nello sfogare la loro rabbia contro l’ordine dominante.
È alla luce di ciò che possiamo comprendere la crescente diffusione del controllo sociale, dei metodi polizieschi e del carcere in ogni aspetto della vita quotidiana. Lo Stato è consapevole che lo sradicamento necessario all’espansione del capitale sta ora iniziando a decivilizzare gli sradicati, creando un crescente numero di malcontenti con nessuna domanda e di fatto con nulla da dire a chi sta al potere. E quindi sta cercando di mettere in atto un apparato per mantenere questo disordine, apparentemente irrazionale, sporadico e isolato, incomprensibile a se stesso quanto lo è allo Stato. Direttamente nelle strade, ciò significa la militarizzazione del controllo poliziesco. Si tratta di un doppio sviluppo in cui le forze di polizia ricevono un addestramento militare, mentre le forze militari vengono usate sempre di più per operazioni di polizia internazionali e interne. Lo Stato sta anche concentrando una maggiore repressione su coloro che percepisce come potenziali minacce. I mass media tentano di dipingere i nemici dello Stato come demoni al fine di isolarli dal resto degli sfruttati. Perciò, in alcuni luoghi, gli anarchici sono sotto intensa repressione, e dappertutto i ribelli consapevoli vengono presi di mira. Inoltre, le tecnologie di sorveglianza si stanno diffondendo in tutto il paesaggio urbano creando un effetto panoptico decentralizzato — la sensazione di essere costantemente sorvegliati intende farci diventare poliziotti di noi stessi.
Ma queste tecnologie sono fragili, non sempre funzionanti e sempre dipendenti dagli esseri umani che devono usare le informazioni raccolte. Ciò riflette un altro aspetto del bisogno di diffondere il controllo attraverso l’intero corpo sociale. Per realizzarlo, lo Stato deve dipendere da un network tecnologico fragile, capillarmente diffuso, una vasta rete con molti buchi e molti punti deboli. Ecco perché deve convincere la gente a controllarsi da sola. Per convincerla a fare ciò, lo Stato usa la sua arma principale: la paura. L’ordine dominante usa i mass media per mettere in mostra una serie di minacce davanti agli occhi di tutti. Dalla catastrofe al terrorismo, dal crimine all’ultima epidemia, dalla minaccia della disoccupazione e della mancanza di casa alla presunta disposizione genetica al cancro o alla schizofrenia, i media proclamano che chiunque è sotto perenne attacco e che solo lo Stato e gli esperti al suo soldo fanno barriera fra tutti noi e le peggiori catastrofi. Ecco come i dominanti di questo mondo convincono quasi chiunque ad accettare il controllo poliziesco e anche a controllare se stesso. Mentre le autorità costruiscono una prigione a cielo aperto attorno a tutti noi, riescono molto bene ad insegnare alla maggior parte delle persone ad essere grati ai loro carcerieri o, peggio ancora, a diventare i carcerieri di se stessi. Eppure uno sguardo attento a queste minacce mostra come quelle che non sono mere invenzioni per giustificare specifici progressi tecnologici e politici siano di fatto provocate dallo stesso ordine sociale dello Stato e del capitale, dal mondo costruito da questo ordine. Cosa che è sempre più difficile nascondere.
Questa è una breve ed assai incompleta descrizione dei tempi duri che stiamo attualmente vivendo. In quanto anarchico, non ho alcun interesse a lamentarmi. Il meglio che il capitale, lo Stato e tutte le istituzioni di questa civiltà potrebbero offrirmi non mi accontenterebbe comunque. Sono uno straniero e un nemico di questo mondo, non un riformatore. Il mio interesse nell’osservare queste realtà è capire il mondo che mi sta di fronte ora, in modo da poter immaginare come creare la mia vita per me stesso contro questa realtà, trovando i mezzi da usare e i complici con cui agire contro un mondo sociale che ha sottratto la vostra e la mia esistenza.
La vita come tensione
Se tutti gli sfruttati, gli spossessati, gli sradicati sono stranieri in questo mondo alieno, allora non è questa estraneità in quanto tale a distinguermi come anarchico. Né lo è la consapevolezza di questa condizione. È piuttosto il fatto di riconoscere in questa estraneità un furto colossale — il furto della mia vita (e di ogni vita) da parte dell’ordine sociale — e quindi di scegliere d’essere un nemico irriducibile di questo ordine, combattendo per riprendermi la vita qui ed ora, assieme agli altri che combattono per lo stesso motivo quando è possibile.
L’economia e lo Stato hanno esteso la loro morsa ovunque, per cui non c’è davvero nessun posto in cui io possa fuggire per costruire la mia esistenza. Il mio desiderio di possedere una vita a modo mio e la mia ostilità verso l’ordine sociale si scontrano di continuo con questa realtà imposta. Creo la mia vita per me stesso, ma in condizioni che non ho scelto. Allo stesso modo, sono per la distruzione di queste condizioni, e quindi la mia vita esiste come perpetua tensione verso ciò a cui questa società si oppone in assoluto. Non essendo un cristiano (o un sinistro) desideroso di sacrificare la mia vita per un bene superiore, non ho intenzione di aspettare per iniziare i miei esperimenti di riprendermi la mia esistenza fin quando queste condizioni — che sono ora globali — non siano distrutte. Ma questi esperimenti si scontrano di continuo con la realtà sociale. Non ho altra scelta che attaccarla.
Ma cosa significa questo praticamente? Come determino la mia vita nell’attaccare il mondo sociale che mi depreda? Non si può rispondere a queste domande una volta per tutte. Ogni risposta definitiva consisterebbe in un insieme di regole, un insieme di condizioni predeterminate atte a controllare la mia esistenza. Le mie risposte a queste domande devono essere opera mia e devono esse stesse essere messe in discussione giorno per giorno. Questo è ciò che tiene la mia vita in gioco, che la rende meritevole di essere vissuta.
Se la tensione anarchica è l’impulso di riprendermi la vita mentre mi contrappongo alle realtà quotidiane di questa società, allora ho bisogno di sviluppare una idea della mia vita in quanto creazione continua, totale, non in quanto insieme di frammenti sconnessi. Non è possibile portare avanti questo processo creativo nell’isolamento, perché vivo in rapporto con altri. Ma la maggior parte di questi rapporti sono imposti; sono un ruolo sociale collegato ad un altro ruolo sociale come ingranaggi di una macchina, ma ci fanno sentire più come palle da biliardo che cozzano le une con le altre e si allontanano il più in fretta possibile per via del disgusto provato. I situazionisti suggerivano che abbiamo bisogno di imparare a sovvertire questi ruoli, capovolgerli contro la società che ce li impone, ed io penso che ciò sia un progetto sovversivo utile. Ma, cosa più importante, al fine di riprendermi la vita ho bisogno di coltivare rapporti di affinità e complicità con altri, rapporti consapevoli da sviluppare come modi di creare le nostre vite assieme. Non sto parlando di formare collettivi, di modo che un’entità sociale ancora una volta si appropri degli individui che la formano, ma piuttosto di immaginare i modi per intrecciare vite, desideri, lotte, capacità e risorse in modo che la vita di ciascun individuo venga accresciuta e diventi pienamente propria. All’interno di un simile contesto, in cui stiamo creando le nostre esistenze insieme contro questo mondo, la pratica situazionista succitata può diventare uno strumento per sovvertire le situazioni che questa società ci impone ai nostri fini, riprenderci la nostra vita e distruggere questa società.
Ho menzionato che in questa società la sopravvivenza si oppone alla vita piena ed appassionata. Eppure è ovvio che, se si muore di fame o di freddo, non si può avere una simile vita. Quindi ecco un’altra area di tensione. Parlare di occupazioni, di furto o attività analoghe come soluzioni, significa mancare il punto. Penso che chiunque legge sia capace di immaginarsi dei modi per sopravvivere. La questione è: come supero il dominio della sopravvivenza sulla vita? Come trasformo i mezzi con cui mi procuro ciò di cui ho bisogno per sopravvivere in semplici strumenti per creare la mia vita in maniera appassionata ed espansiva? Come posso fare ciò assieme agli altri, miei compagni e complici, che lottano anch’essi per afferrare la loro vita? Ancora, non esistono risposte definitive. Finché non abbiamo una idea di ciò che vogliamo fare con le nostre esistenze, finché non «abbiamo una buona ragione per alzarci al mattino», queste domande sono prive di significato. Verremmo semplicemente trascinati dall’esigenza di sopravvivenza, e le «alternative» come le occupazioni, i furti o gli espedienti saranno solo un’altra forma di lavoro. Occorre un rovesciamento di prospettiva per iniziare a creare la nostra vita come un progetto in corso. È qui che il rifiuto del lavoro dà il via alla distruzione del lavoro in quanto rapporto sociale, perché qualsiasi cosa facciamo per soldi o per sopravvivenza (anche i lavoretti) diventeranno un semplice strumento, un mezzo temporaneo, nel progetto in corso di creare la nostra vita in rivolta contro l’ordine sociale.
Ho parlato di trovare complici nelle mie battaglie contro questa società. Non occorre che siano tutti anarchici. Il desiderio per «qualcosa di assolutamente altro» non appartiene esclusivamente a quelli cui corrisponde tale definizione. Né è necessaria la consapevolezza di questo desiderio a un individuo o ad un conflitto sociale perché si manifesti in azione. Molti di questi conflitti sono provocati da situazioni specifiche. Coloro che ne sono coinvolti stanno rispondendo a qualcosa di specifico che li rende arrabbiati. Ma spesso iniziano ad agire per proprio conto senza mediazioni con organizzazioni rappresentative, rifiutando di negoziare, agendo per se stessi. Anche gli anarchici sono di solito in mezzo agli sfruttati e agli spossessati di questa società e affrontano le stesse realtà immediate. Quindi situazioni simili forniscono un luogo in cui esplorare complicità su larga scala. Per via della natura delle mie aspirazioni anarchiche, tuttavia, la mia partecipazione a questi conflitti sociali esprimerà lo stesso genere di tensione che esiste nella mia vita. Come ogni altro, desidero certamente un sollievo immediato da qualcuno degli aspetti più spiacevoli della mia vita, ma non sacrificherò mai il desiderio di creare la mia vita a queste contingenze immediate. Così porterò questo desiderio dentro ad ogni conflitto come una tensione volontaria verso l’autonomia e la libertà. Il modo in cui s’interviene in tali conflitti dovrebbe riflettere il modo in cui si vuole vivere la propria vita. Perciò insisto su una metodologia priva di gerarchia e avanguardismo. Ciò crea una tensione di lotta per incoraggiare tendenze verso l’auto-organizzazione e l’azione diretta autonoma che già esiste in un conflitto particolare, senza cadere in un ruolo evangelico o direttivo che rovinerebbe il mio desiderio di trovare complici in un rapporto di uguaglianza. Essendo consapevolmente in guerra con l’ordine sociale, la mia partecipazione ad ogni conflitto sociale allargato prenderà la forma di un intervento diretto ad espandere la visione di quel conflitto, spingendolo oltre il punto di non ritorno. Ma, dato che non desidero essere un leader, un insegnante o un evangelista — ruoli che interferiscono con la nostra capacità di essere individui che interagiscano con altri individui — questo intervento sarà sempre un funambolismo fra il vivere la mia battaglia nella vita quotidiana e trovare i modi per collegare questa battaglia con la battaglia di tutti gli sfruttati e spossessati che stanno combattendo contro la loro condizione.
Potrei proseguire ad analizzare tutti gli ambiti in cui questa tensione esiste. Ma il punto è che, in quanto straniero in un mondo alieno che è diventato consapevole di questo estraniamento ed ha scelto di combattere questo mondo, ogni momento della mia vita in quanto anarchico è una tensione, uno sforzo verso qualcosa per cui non ho parole, e contro i limiti della realtà imposta. Questo perché essere un anarchico in questo mondo è una scelta da fare in ogni istante, libera da stampelle morali o programmatiche. In un mondo contrapposto a una vita libera nella sua pienezza, il solo modo per avere la mia vita è viverla come una scommessa da giocare giorno dopo giorno.
[Modern Slavery, n. 1, spring-summer 2012]