Prolegomeni ad una critica pratica della scuola e dell’univesità (2008)
Va innanzitutto chiarito che queste note non hanno alcuna pretesa di esaustività. Scritte in forma sintetica e apodittica, esse non sono che un canovaccio, un programma di lavoro che dovrà essere necessariamente sviluppato, approfondito e sottoposto a verifica.
Il punto di partenza del nostro discorso è la banale constatazione che la scuola – al pari del lavoro, della famiglia, dei centri di distribuzione e consumo, delle prigioni, degli ospedali etc., così come di ciascuna delle ideologie che ne giustificano l’esistenza – è elemento integrante di quell’immenso carcere a cielo aperto che va sotto il nome di società. Per “società” intendiamo una totalità complessa di attività e di relazioni inter-umane, che, in quanto separate dagli individui – dai loro desideri e aspirazioni – si erge innanzi ad essi come un potere estraneo, vieppiù incomprensibile e incontrollabile. (Fatto, questo, che ha come conseguenza non secondaria e certo non meno nefasta di altre, il proliferare di esperti di ogni tipo – politici, preti, sindacalisti, medici, sbirri, scienziati, giornalisti etc. – che millantano questa comprensione e capacità di controllo, e ai quali veniamo invitatati a rivolgerci, per risolvere i nostri problemi e placare le nostre inquietudini).
Le istituzioni preposte alla formazione sono dunque, innanzitutto, luoghi di disciplinamento e di definizione dei ruoli e delle gerarchie sociali.
Nelle scuole e nelle università, esseri umani in giovanissima età, prima obbligati dalla famiglia e dallo Stato, poi eventualmente per “scelta” – sempre e comunque previa la rinuncia a vivere e godere qui ed ora, in nome di un futuro che riserverà loro soltanto alienazione e sfruttamento – sono sottoposti ad un’attività insensata e coatta, all’autoritarismo degli insegnanti (che, volenti o nolenti, si devono adeguare ai crismi connaturati al loro ruolo), all’umiliazione di prove, esami, voti etc. Sono, in altre parole, privati di ogni residua vitalità e autonomia individuale.
Là dove non arriva la famiglia, arriva la scuola…
La stessa noia, coazione, e senso di umiliazione, d’altronde, li si può ritrovare negli insegnanti, sebbene le ragioni reali della loro insoddisfazione – la non-vita scolastica e sociale – vengano per lo più rivestite di una serie di lagnanze e razionalizzazioni ormai consunte dal troppo uso: “i ragazzi non si impegnano”, “la scuola non funziona”, “le famiglie non collaborano”, “le nuove generazioni sono inebetite dalla televisione”, etc. Tutte affermazioni che capita spesso di sentir pronunciare, ma che nella loro superficialità non si avvicinano nemmeno al nocciolo della questione.
Questo orrore, del resto, non è fine a sé stesso. Esso deve educare i bambini e i giovani al lavoro, all’obbedienza e alla rassegnazione, trasformarli in produttori-consumatori efficienti e competitivi. In altri termini, deve produrre in serie degli automi perfettamente asserviti, dei cittadini.
Quando il dominio del capitale, per bocca dei suoi lacchè, afferma la necessità di una modernizzazione della scuola, parla essenzialmente di questo: affinare i mezzi per la realizzazione di tale disegno totalitario – l’utopia capitalista – in quanto il suo inveramento si rivela, alla prova dei fatti, problematico e contraddittorio. Basti pensare alle crescenti difficoltà che il sistema incontra nel mantenere l’ordine nei ranghi; difficoltà che pure, almeno per il momento, non si traducono in una critica effettiva dell’esistente, ma si manifestano soltanto in forme irrazionalmente distruttive e autodistruttive e, in quanto tali, facilmente recuperabili e detournabili in una legittimazione dei processi di ristrutturazione in atto. Questa constatazione, che è generalizzabile all’intera società, trova nell’ambito specifico della formazione un’esemplificazione nel cosiddetto bullismo, negli atti vandalici, nelle esplosioni di violenza apparentemente ingiustificate e in altri fenomeni meno visibili, che testimoniano di un’indisciplina diffusa. Che del resto si può evincere, in negativo, dall’introduzione nelle scuole di tecniche di controllo sempre più sofisticate (ad esempio la possibilità, per i genitori, di accedere a registri elettronici pubblicati su web, che forniscono un quadro delle assenze e del rendimento scolastico dei figli).
Ma la formazione dei futuri cittadini – e questo punto è di una certa rilevanza – non avviene soltanto inculcando nelle teste degli studenti ideologia in quantità industriali, cosa del resto piuttosto ovvia; ma verificando quotidianamente, nella prassi – cioè in una sorta di continua simulazione dei ruoli sociali che, potenzialmente, ciascuno andrà in seguito a ricoprire – il grado raggiunto di irreggimentazione dei corpi e dei cervelli. E’ su questa base (oltre che naturalmente su quella del reddito, che garantisce l’accesso a scuole più o meno d’élite) che si determinano quelle stratificazioni, legate alla carriera scolastica di ciascuno, che andranno poi a riflettersi nelle – e a legittimare le – gerarchie in cui si articola la struttura sociale capitalista (si pensi, ad esempio, al mercato del lavoro).
L’introduzione nelle università, già alcuni anni or sono, del sistema dei crediti formativi (tutto incentrato sul concetto quantitativo dell’ammontare del tempo dedicato allo studio e alle attività ad esso correlate), testimonia chiaramente, al di là dei suoi limiti intrinseci, di come questa specifica funzione delle istituzioni formative sia diventata preponderante (1).
Se è vero, quindi, che oggi la scuola e l’università più che sapere producono ignoranza – anche dal punto di vista di un’ideologia borghese ormai in fase di avanzata decomposizione – ciò non è dovuto ad una qualche arretratezza, a un deficit di efficienza o all’inadeguatezza del corpo insegnante, ma risponde a una precisa esigenza del sistema. Nella misura in cui nella società capitalista neomoderna ogni funzione, sia a livello della produzione che sul piano sociale complessivo, risulta tendenzialmente svuotata di ogni contenuto e competenza reale e diviene intercambiabile (2), la quantità di nozioni con cui gli studenti vengono quotidianamente bombardati, è sempre meno qualcosa che sia spendibile e utilizzabile al di fuori della scuola stessa, e sempre più fine al solo processo di disciplinamento degli individui. Il loro contenuto, da questo punto di vista, diventa allora tendenzialmente indifferente. La maggior parte degli impieghi, per rimanere all’esempio del mondo del lavoro, richiedono oggi soltanto competenze di base minime (saper leggere, scrivere, far di conto e poco più), mentre le poche abilità necessarie alla concreta attività produttiva sono in gran parte acquisite in un processo formativo, interno al luogo di lavoro, che viene a sovrapporsi e a confondersi con l’attività produttiva stessa.
Risulta quindi a dir poco risibile la litania – che a forza di essere ripetuta, nel corso degli ultimi quarant’anni, ha perduto ogni significato all’orecchio stesso di coloro che continuano imperterriti a borbottarla – della difesa del “sapere” da una sua presunta “mercificazione”. Al di là delle considerazioni già sviluppate, e sorvolando sul fatto che simili affermazioni postulano l’esistenza di un sapere “neutrale”- cosa di per sé palesemente falsa – che il capitale cercherebbe di piegare a proprio vantaggio, si deve notare come questo “sapere”, nella misura in cui è coinvolto nel processo di formazione della merce forza-lavoro e viene in essa incorporato, è già per definizione “mercificato”. E questo è vero oggi, laddove il suo ruolo è da considerarsi affatto residuale, come era vero all’epoca in cui il suo valore d’uso (per il capitale) aveva ancora un peso determinante.
Lo stesso discorso può essere applicato al concetto marxiano di General Intellect. Quest’ultimo, come è noto, non si riferisce ad altro se non a quell’intelligenza collettiva, quell’insieme di saperi e abilità creative, diffusi e per lo più informali – accumulati nelle comunità precapitalistiche come conoscenze e pratiche tradizionali o sviluppati dai proletari all’interno del processo di produzione – che il capitale si appropria, gratuitamente, insieme alla forza-lavoro. Ma tale movimento di appropriazione e di mercificazione è in realtà contraddittorio, in quanto, se da una parte questa intelligenza collettiva viene sottomessa alla potenza normativa della produzione capitalista, dall’altra essa costituisce lo strumento e la leva di movimenti di sottrazione, resistenza o conflitto aperto, talvolta anche molto radicali. La conoscenza del processo produttivo e dei suoi segreti, ad esempio, consente al lavoratore di colpire nel modo più efficace gli interessi materiali della controparte, limitando al minimo le perdite (sabotaggio, blocco della produzione, forme di sciopero non istituzionalizzate etc.). Un’insieme di “saper fare”, che permetta di non essere totalmente asserviti al mercato rispetto alla soddisfazione dei propri bisogni, permette inoltre, a chi ne sia in possesso, di sottrarsi quantomeno ai ricatti più odiosi del capitale riguardo alle condizioni di lavoro e di “vita”. Per questo il capitale cerca di appropriarsi realmente, incorporandoli nel proprio apparato macchinico e nella propria organizzazione produttiva, questi saperi. In effetti, il capitale non crea nulla: si limita a riciclare e sottomettere alle proprie esigenze di valorizzazione – cambiandolo di segno – tutto ciò che gli pre-esiste (3).
Oggi, questo processo di sussunzione si è ormai spinto talmente avanti, che è rimasto ben poco da incorporare. Ogni seppur minimo residuo delle conoscenze tradizionali, almeno nei paesi a capitalismo avanzato, è scomparso dall’orizzonte sociale (salvo essere riesumato, alla bisogna, in forma svuotata e spettacolare, onde creare nuove illusioni e occasioni di profitto). La megamacchina produttiva e sociale costituisce sempre più, per il singolo individuo atomizzato e isolato, un arcano impenetrabile. Pertanto, se è vero che in altra epoca «riappropriarsi di questa intelligenza collettiva poteva significare un ribaltamento dei rapporti sociali», ai giorni nostri risulta «ridicola la pretesa di ridurre quello che viene definito General Intellect alle capacità “scientifiche” o tecnologiche di singoli o gruppi (…) e di attendersi da lì una specie di “nuova avanguardia”: queste intelligenze sono ormai asservite alla macchina (…) e i suoi portatori ridotti a riproduttori, magari ad alto livello, dell’esistente»(4).
Non vi è dunque alcun sapere che vada difeso dal parassitismo del capitale, per il semplice fatto che le condizioni storiche di tale parassitismo sono venute meno.
La società capitalista, nella sua forma neo-moderna e iper-spettacolare, ha ormai perduto qualsivoglia capacità di innovare e progredire, sia sul piano della produzione sia su quello della conoscenza (beninteso, il suo è sempre stato un progresso nell’alienazione), determinando in tal modo una sorta di glaciazione sociale, che esclude per ora solamente quei settori che si occupano direttamente del controllo e dell’amministrazione dei corpi (biotecnologie, medicina, informatica etc.). Quanto agli altri settori, si possono ormai riscontrare soltanto variazioni di dettaglio, applicate a merci sempre più insapori, inutili e nocive (5).
Va infine notato come quello che oggi viene prodotto nelle università e spacciato per “sapere” (definizione che presuppone un non essere fine a sé stesso, un utilità pratica, se non immediata quantomeno in prospettiva futura), si riduca per lo più ad una pletora di merci culturali, che una massa di consumatori “intellettualizzati” trangugia senza il minimo senso critico, così come la gran parte dei nostri contemporanei si appropria con famelica bramosia di qualunque rappresentazione spettacolare – e della relativa merce – sia proposta loro a simulazione di una vita assente e compensazione del nulla a cui ci si vorrebbe condannare.
Tali merci culturali sono, in buona parte, il frutto dell’attività di una forza-lavoro intellettuale precarizzata e sottopagata (dottorandi, borsisti, ricercatori etc.) o non pagata affatto (molti studenti, di fatto, lavorano gratuitamente per i rispettivi professori), che evidentemente non è stata risparmiata dal processo di impoverimento, parcellizzazione e standardizzazione del lavoro, che l’organizzazione sociale capitalista inesorabilmente impone. Il successo delle ideologie – cui già si è accennato in relazione alla questione del General Intellect – che negli ultimi quindici anni non hanno smesso di ammorbare l’aria di certi ambienti intellettuali e “antagonisti”, soprattutto entro gli italici confini, e che pur cambiando forma e linguaggio non hanno mutato la loro sostanza (lavoro immateriale, moltitudini, cognitariato e così via) è spiegabile, molto banalmente, con il tentativo delle suddette figure sociali di esorcizzare, attraverso queste fantasmagorie, il processo di proletarizzazione e dequalificazione a cui sono sottoposte.
Dunque, che fare?
Appare evidente che, chiunque voglia davvero rimettere in discussione l’attuale assetto societario, non possa attestarsi su rivendicazioni riformistiche e sostanzialmente solidali con la dinamica capitalista, quali la difesa dell'”università di massa” (ormai morta e sepolta), della scuola pubblica (che non si vede bene in che cosa si distingua, dal punto di vista della critica rivoluzionaria, da quella privata) o di un qualche “diritto allo studio”.
Rifiutarsi di rivendicare la propria stessa schiavitù e alienazione sarebbe già un primo passo avanti. Certo, nel caso del “diritto al lavoro” una simile rivendicazione, sia pure sul piano strettamente pratico della necessità di portare a casa la pagnotta, è ancora comprensibile; così come era comprensibile, fino a quando questa possibilità non è stata completamente soppressa, che lo studente si servisse della cosiddetta “università di massa” per rimanere il più a lungo possibile lontano dalla maledizione del lavoro – ma a prezzo di quale miseria materiale ed emotiva! (6). Assai meno accettabile è la trasposizione di queste “rivendicazioni di diritti” sul piano ideologico. Insomma, rimane un punto fermo il fatto che, per i proletari, il lavoro rappresenta nient’altro che un mezzo per avere accesso ad un salario, e nulla più!
Nemmeno ci si può accontentare di una critica parziale, incentrata su questa o quella singola problematica (autoritarismo, contenuti della didattica, etc.) o sulla loro mera giustapposizione. Come già si è visto, ogni singolo aspetto che meriti di essere criticato, si inscrive nella funzione complessiva che la scuola e l’università rivestono all’interno della società del capitale. Ciò che è urgente sviluppare, dunque, è una critica globale di queste istituzioni, in quanto è dal loro carattere di sfera separata e di elemento saldamente incastonato nel panorama dell’alienazione universale, che discendono a cascata tutte le nocività specifiche di cui sono crogiuolo.
Su di un piano più strettamente pragmatico, si tratta di incoraggiare, ovunque sia possibile, il rifiuto, il sabotaggio e l’insubordinazione – nella scuola come in ogni altro ambito della vita sociale. Offrire loro una sponda teorica e una prospettiva, affinché non rimangano confinati all’episodio isolato e non degenerino in forme di ribellismo cieco. Organizzare forme di sperimentazione, in cui l’apprendimento non sia più separato dall’esperienza (comune) e dai desideri degli individui. Sempre mantenendo ben salda la consapevolezza che il superamento dell’orrore scolastico rimane in ogni caso inscindibile dal superamento dell’orrore capitalistico.
Sogniamo un mondo, che vogliamo ancora chiamare comunismo, dove le persone possano imparare le une dalle altre, nella condivisione ed elaborazione collettiva delle esperienze o nel confronto individuale con la realtà, in ogni caso al di fuori di qualsivoglia relazione gerarchica e autoritaria.
Sogniamo un mondo dove la conoscenza sia innanzitutto uno strumento della gioia di vivere e del libero gioco delle passioni.
Sogniamo un mondo libero da tutte le galere, siano esse con o senza sbarre.
MORTE ALLA SCUOLA, ALLO STATO E AL CAPITALE!
DIFENDERE / DIFFONDERE LA LIBERTA’ OVUNQUE!
Bologna, 3 novembre 2008
Les Mauvais Jours Finiront
Note:
(1) Collettivo Universitario “Vecchia Talpa” (Bologna), Formazione e Mercato del Lavoro. Note per un’Analisi di Classe dei Processi Formativi, in Vis-à-Vis – Quaderni per l’autonomia di classe, n.7, Massari Editore, 1999.
(2) R.D’Este, Qualcosa. Alcune tesi sulla società capitalista neomoderna, (1994), Porfido. Questo breve testo contiene una serie di spunti d’analisi estremamente interessanti e potenzialmente fecondi, anche se a nostro avviso non è condivisibile la tesi, del resto appena abbozzata dall’autore, secondo cui il lavoro avrebbe cessato di essere la fonte primaria della valorizzazione del capitale.
(3) Il capitale fa a pezzi il mondo per ricostruirlo a sua immagine e somiglianza, utilizzando il cemento del valore e della logica astratta del suo indefinito accrescimento. Esso, in altri termini, priva gli individui e le comunità della capacità di soddisfare autonomamente i propri bisogni, e impone il surrogato di questa soddisfazione in forma di merce (e del lavoro necessario a produrla). In questo senso l’accumulazione primitiva non rappresenta soltanto la fase preliminare della nascita del capitalismo industriale, ma è connaturata al movimento stesso del capitale, in ogni sua fase storica. Questo processo di espropriazione è giunto oggi a toccare il cuore stesso del processo vitale, come dimostrano il mostruoso sviluppo dell’industria medica e farmacologica e, in particolare, le cosiddette conquiste della genetica e della bioingegneria. Cfr. J-M.Mandosio, Fine del genere umano?, Acrati, 2008, nonché F.B., Medicina maledetta e assassina, 2008, in Les Mauvais Jours finiront (www.mondosenzagalere.blogspot.com).
(4) R.D’Este, op.cit.. Cfr. il seguente brano di R.Finelli: «In particolare, la macchina informatica richiede una forza-lavoro mentale a sé particolarmente subalterna ed omogenea, essendo la sua caratteristica fondamentale quella di collocare una serie enorme d’informazioni al di fuori del cervello umano e di dar luogo così a una mente artificiale, di cui quella umana diventa solo funzione e appendice.
«Almeno appare esser tale nel lavoro salariato o nel lavoro autonomo appaltato al capitale,laddove è ampliamento di memoria a disposizione di un soggetto elaboratore e creativo solo nel caso di lavori privati e ad alto contenuto di professionalità. Così la macchina dell’informazione, applicata a processi produttivi capitalistici, istituisce un sistema macchina-forza-lavoro che richiede erogazione di lavoro astratto: cioè di lavoro che, privo di coscienza del senso complessivo delle informazioni che organizzano e comandano il processo produttivo, immette risposte ed elaborazioni già predeterminate e precodificate. In tal modo, mentre il lavoro astratto tayloristico-fordistico è conseguenza di una occupazione totale del corpo da parte dell’automatismo macchinico, la quale pure lascia libera nella ripetizione dei movimenti la mente, nel nuovo lavoro astratto è la mente che viene occupata e pervasa da un codice e una semantica che non hanno nulla a che fare con il corpo della forza-lavoro in questione» (R.Finelli, Classi Fantasmi e Postmodernità, in Vis-à-Vis n.8, Massari Editore, 2000, p.300). Sul concetto di forza-lavoro mentale si veda anche R.Sbardella, Astrazione e Capitalismo , in Vis-à-Vis n.6, Massari Editore, 1998.
(5) R.D’Este, op.cit.
(6) Cfr. Alcuni membri dell’Internazionale Situazionista e studenti di Strasburgo, Della miseria dell’ambiente studentesco, (1966), Nautilus.