Ma che storia è questa? – Adreba Solneman

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Definizione della storia
Qui ed ora comincia la storia. Lo spontaneo, l’immediato, il presente sono l’inizio della storia. Il passato è una introduzione che, come tutte le introduzioni, è scritta a cose fatte, nell’avvenire, nella riflessione, nella mediazione. Il presente comincia la storia, e il passato concede tempo a questo inizio.
È questo il movimento che determina la storia: il passato è una proiezione del presente, il passato comincia nel suo avvenire, nel presente, e non l’inverso.

La storia è una progressione verso l’origine. Questa concezione dialettica della storia non è nuova, dal momento che Schiller ed Hegel l’insegnavano correntemente. Ma il positivismo materialista ha da allora imposto un’altra prospettiva della storia e del tempo: l’inizio della storia vi si trova in basso e indietro; il presente è il punto più elevato e più avanzato; e l’avvenire è il seguito, come tra le righe, di questa scala regolare, infinita e immutabile. In questa progressione per gradi si disegna la sintesi vettoriale della visione del tempo veicolata dalle religioni cristiana e musulmana: mentre per i cristiani il passato è dietro e l’avvenire davanti, per i musulmani la progressione del tempo è verticale, il passato è sotto e l’avvenire è sopra. Così, la trionfale scalata del positivismo economico soddisfa contemporaneamente queste due visioni nei momenti senza storia, così come le delude nei momenti in cui, improvvisamente, gli esseri umani la fanno.
L’inizio della storia, il presente, è dunque sempre lo stesso e sempre mutevole. Ogni nuovo inizio della storia corregge in apparenza poiché trasforma in realtà tutto il tempo conosciuto. La notte dei tempi, l’origine del tempo, è da realizzare. Il presente sta cioè per produrre questo inizio al suo termine. In questo avvenire dove il presente, l’inizio della storia, conterrà tutto il passato, esso conterrà tutto l’avvenire. La fine della storia come fine del tempo è logica a condizione che la storia cominci qui ed ora. La storia tuttavia non è, come fa supporre il suo inizio, una successione di inizi ognuno dei quali annulla il precedente. Al contrario, dato che ogni particolare inizio storico, ogni attualità della storia, contraddice la precedente totalità, è anch’esso contraddetto dalla totalità, questa generalità di cui la storia è il movimento delle determinazioni. Nello stesso tempo in cui tale divisione rivela la novità, il nuovo inizio della storia è a tal punto impregnato del passato da sembrarne il risultato. Quando la novità che rivela questa brutale divisione nel tempo trasforma tutto il passato, l’unità del particolare inizio storico con la precedente totalità non si realizza nel loro superamento, come determinazione della totalità derivata dalla sua divisione. Qui ed ora, questo movimento non si realizza mai in questa semplicità astratta e teorica. Giacché, in realtà, qui ed ora è innanzitutto la negazione di un movimento astratto che sarebbe infinito. Tutto nella storia è singolare. La storia può anche essere considerata, da chi intende coglierla nel momento in cui appare, come la singolarità della singolarità.
Quindi, la negazione dell’eternità è la prima negazione che proviene dal presente come inizio e fine della storia. La storia è disputa, qui ed ora, non felicità. I periodi di felicità vi compaiono come pagine bianche, se per felicità s’intende la felicità religiosa, la felicità positivista, la felicità economicistica, la concordia sbarazzata della discordia. La storia è conflitto. È un conflitto sul suo stesso obiettivo e, conseguentemente, nei suoi intervalli, sui mezzi per pervenirvi. Per cui, qui ed ora diventa innanzitutto negazione dei principali presupposti concernenti la storia.
Sarebbe possibile rilasciare qui ed ora una definizione della storia. Ma risulterebbe l’esatto opposto del suo concetto, che è la rivelazione negativa di ciò che se ne dice, di ciò che se ne crede, di ciò che ne è alienato. Una definizione affermativa coabiterebbe tranquillamente fra le altre, quali che siano la sua negatività, la sua giustezza, il suo vigore. La situazione storica oggi impone di unificare l’affermazione della storia nella negazione delle sue affermazioni separate.
La storia è una
Questa esigenza ha come conseguenza immediata una prima affermazione talmente inusitata per la nostra epoca da non poter apparire che estremamente ridicola o esageratamente rigorosa. Si tratta precisamente dell’affermazione dell’unità della storia contro la moltitudine di affermazioni opposte: non c’è che una storia. In genere viene sostenuta sia questa banalità che il suo contrario, ovviamente anche dalle medesime persone. Di fronte alla crescente confusione sui concetti, oggi è primordiale sostenere con la più inflessibile intransigenza l’affermazione della storia in quanto totalità. La storia è unica. Ci sono forse diverse umanità?
Concretamente, ciò significa che c’è già falsificazione nel parlare della storia del XVIII secolo, della storia di Parigi, della storia del corpo umano, della storia del mio vicino, della storia di un tavolo o della storia della libertà. Raccontare una storia è un abuso di linguaggio, una deviazione pauperistica, uno dei cui sensi secondari confessa questa impresa: significa dire una menzogna. Certo, tra una storia e la storia, si tratta più di omonimia che di sinonimia. E se tutti ne fossero consapevoli e distinguessero senza esitare tra una storia separata e la storia, che sopprime la separazione e che contiene tutte le storie separate in quanto separate, non dovrei dilungarmi oltre. Ma gli storici di professione, che è il caso di definire nemici della storia, non contenti di applaudire ogni storia separata, sono giunti a ideologizzare le separazioni nella storia a seconda delle proprie specializzazioni. Essi definiscono pluralità della storia questa giustificazione della loro abdicazione. La pluralità è una scorciatoia per parlare di democrazia con i servitori della democrazia detta occidentale. La pluralità è diventata uno slogan, uno slogan morale, come ad esempio la tolleranza, che contiene un anatema: chi obietta a questa o a quella pluralità è un totalitario, sostenitore di una tirannia, nemico di qualsiasi democrazia. Questi Tersite intellettuali sono così poco contraddetti, sia per disprezzo, sia per apatia, sia per ignoranza, che le loro concezioni contro la storia si sono oggi quasi del tutto insinuate. Ma ciò che meglio sostiene il miserabile commercio di questi liquidatori di pezzi smontati, è che da ogni storia separata — che sia per addormentare i bambini, per istruire gli adolescenti, per fuorviare i loro genitori o per provocare i vecchi — trapela la storia attuale, sia sotto forma di traccia d’un passaggio fugace, sia nell’organizzazione della sua assenza. In effetti, la determinazione più paradossale della storia è che l’assenza di storia è storia. Così, tutto è storia. Ma i nemici della storia sono dunque quelli che alimentano l’amalgama tra l’altero concetto intero e il suo contrario, qualunque sia. Per loro, qualunque cosa è storia. A questo punto, tra assenza di storia e storia non c’è più differenza. In realtà, l’assenza di storia è una semplice determinazione della storia, come la loro unità, che costituisce la loro verità. Ma le determinazioni dell’assenza di storia non sono determinazioni della storia. Ora queste determinazioni dell’assenza di storia, innalzate nella separazione e nell’indifferenza al rango di determinazioni della storia, non solo dai valletti della corporazione degli autonominati storici ma dai valletti di tutte le altre corporazioni autorizzati dall’esempio, finiscono per nascondere l’unicità della storia in questo abbandono, in questa prostituzione.
Il miglior esempio di un conflitto pratico tra gli esseri umani indirettamente storico è la guerra del 1939-1945. Questa guerra, detta mondiale, non è che una conseguenza della disputa storica del 1917- 1921, la lontana repressione del partito sconfitto in quella discussione, che ha avuto tanta più importanza in quanto lontana. Ma è proprio nel 1917-1921 che è avvenuta una discussione sull’umanità, non nel 1939-45, quando c’è stata solo un’esecuzione delle conseguenze, vale a dire una discussione interna al partito che aveva vinto. Da allora questo partito ha cercato di sostituire le proprie dispute alle dispute che ci sono nel mondo, la propria storia particolare alla storia generale dell’umanità. Una falsificazione aggravata nell’esempio del 1939-45 dall’amalgama che consiste nel far credere che l’avvenimento che produce una maggiore impressione sia quello più importante. Dopo la guerra del 1939-45, che è rimasta quindi l’avvenimento più importante del secolo per la schiacciante maggioranza di coloro che stanno per venirne a capo, questa tecnica generalizzata è stata uno dei più potenti separatori della storia nell’intelligenza del partito sconfitto nel 1921 e dissanguato nel 1945.
La storia in quanto totalità viene generalmente percepita come un mito. La piccolezza contemporanea ha praticamente abdicato davanti alla grandezza dell’oggetto, di modo che, così come confonde il proprio inizio e la propria origine, essa ribassa miseramente la storia come unità delle storie separate facendola cominciare… con una s maiuscola. Per di più è un’autentica alienazione della logica ad appiattire questa storia «universale» in storia particolare: oggi è unicamente dal particolare che si astrae il generale e non è affatto dal generale che si determina il particolare; è dall’avvenimento che si deducono la storia e la misura della sua s e non è dalla storia che si deducono le esigenze e gli imperativi che fanno sì che un avvenimento la riveli oppure no. La storia reale è un tutto la cui ricchezza e il significato non stanno nella quantità delle determinazioni, ma nel loro rapporto col tutto, e che per la brevità e straordinarietà delle sue manifestazioni ne esclude quasi tutti gli individui, e gli altri quasi sempre. Essa ha un inizio e una fine e un contenuto in movimento: esiste o non esiste storia nella libertà, in un tavolo, dal mio vicino; esiste o non esiste storia nel corpo umano, a Parigi o nel XVIII secolo.
Tuttavia, l’inizio della storia intesa come totalità, che ci può essere o non essere in ogni momento, è innanzitutto ogni novità, indeterminata, per l’umanità. Ma la novità è ciò che si oppone alla totalità esistente, che la rivoluziona. Ora, di recente, è la deduzione ad essere necessaria per determinare la totalità. È così che dalla totalità recentemente concepita si deduce come determinazione della storia la novità che, nel corso dell’operazione, cessa d’essere tale. Ma non c’è nulla di più ingannevole di una novità che subito scompare! Nulla di più comune dell’ignoranza, che proibisce così spesso di scoprire ciò che è nuovo tanto da consentirle di reputare nuovo ciò che non lo è! Infine, nulla di più limitato in genere della coscienza individuale, che rifiuta quasi sempre di concepire la totalità mutata persino quando ciò che la fonda si mostra rovesciato! Tanto più se la coscienza individuale non interpreta il movimento storico come novità, è il movimento storico a interpretare gli individui, come vecchiume senza coscienza. Giacché ogni momento storico è ora dibattito tra novità e totalità in cui coloro che tacciono e coloro che sono in ritardo sono esposti ad ogni disprezzo, ad ogni severità.
La storia è una attività
Siccome la storia è il dibattito sulla novità, la prima novità che la storia rivela è la novità del dibattito. Ai tempi di Erodoto e di Tacito, l’indagine sugli avvenimenti sembrava essere la base necessaria di questo dibattito. Tra coloro che conducevano tale indagine, definiti perciò storici, e coloro che ne apprendevano lo svolgimento, figuravano coloro che conducevano questo dibattito universale. I loro scritti, che costituivano la memoria degli avvenimenti passati e la legge degli avvenimenti futuri, erano rispettati come lo stesso dibattito, che precede o conclude l’azione. Disgraziatamente l’umanità, sia essa a conoscenza o meno delle indagini del passato, non ne ha mai tenuto conto dato che l’azione supera il verbo nei momenti decisivi di una disputa. In genere questo disprezzo è rivolto alle passioni che suscitano discussioni alquanto furibonde tra gli uomini. La contraddizione tra l’emozione vissuta e l’emozione descritta e giudicata ha escluso gli antichi storici dal dibattito di cui hanno riprodotto il riflesso. Perché già il verbo non è più il predicato del dibattito. Perché già lo spirito regna sulla coscienza e non la coscienza sullo spirito. Perché già diventa palesemente falso affermare che la storia inizia con la scrittura.
Nelle sue Lezioni sulla filosofia della storia, Hegel concede un bizzarro compromesso: la storia sarebbe fatta sia da chi la racconta che da chi la fa. Essendo la storia il movimento dello spirito, coloro che ne trasmettono coscientemente le determinazioni, gli storici, contribuirebbero alla storia tanto quanto i conquistatori e i fondatori, che ne forniscono, in certo qual modo, la sostanza. Ciò che è rimarchevole non è tanto l’imbarazzo di dover giustificare il ruolo determinante di chi racconta la storia quanto la constatazione, già tanto lontana dagli antichi, che la storia, il dibattito spirituale dell’umanità possa essere condotto non solo da chi lo redige. Il mondo di Hegel è già un mondo di dispute, dove la parola, anche quella che utilizza Hegel, è riconosciuta un mero strumento del dibattito.
Oggi, la prima novità del dibattito, le cui conseguenze sono però incalcolabili, conferma il movimento che si trova indicato all’epoca di Hegel: il dibattito è pratico e soltanto pratico. Effettivamente gli uomini non discutono più a parole. L’ancestrale costume di sanzionare una disputa con una parola, di dichiarare una guerra o di stabilire un trattato di pace, è scomparso. Gli uni utilizzano le parole come armi assai particolari, per paralizzare o disorientare; gli altri, la maggioranza, incapaci di servirsi delle parole senza impantanarvisi o inciamparvi, diventano sempre più estranei. Perfino presso i banditi e gli analfabeti, il rispetto per la parola viene meno. Così una nuova espressione, nuove espressioni, già si esprimono. Beninteso, qui la novità non è che la storia sia pratica e soltanto pratica e che il fatto di raccontarla, commentarla, analizzarla non è la storia — bensì una pratica di collegamento, subordinata alle altre così come lo stato-maggiore è subordinato al generalissimo — ma che già ai tempi di Hegel, di Tacito, di Erodoto costituiva la stessa cosa. Fare la storia è il modo migliore di raccontarla.
Contrariamente a ciò che la pratica della storia rivela, i deliri degli storici odierni: per loro, solo gli storici fanno la storia. La storia è diventata una materia. E questa materia è scolastica. La storia è una scienza sociale, vale a dire un certo numero di specialisti salariati che ritagliano dal passato per un certo numero di studenti. Nell’attuale disputa dell’umanità, quelli che si definiscono storici non hanno nemmeno la funzione di stato-maggiore al servizio di uno dei due partiti, bensì quella di un’arma paragonabile sì e no a quella della seppia: schizzano inchiostro per disturbare la visibilità. Ecco qualche opinione di uno dei rinnovatori più ammirati di questa setta d’insetti, Fernand Braudel: «Per me, la storia è la somma di tutte le storie possibili — una collezione di mestieri e di punti di vista, di ieri, di oggi, di domani». Tutto ciò che chiunque definisce storia può aggiungersi alla storia; la storia è un lavoro di specialisti, non è l’attività di tutta l’umanità; qualsiasi collezione di punti di vista vi si incolli, si è persino invitati a dar credito all’avvenire, cosa non certo più rischiosa del dar credito a Braudel: «Siamo contrari all’orgogliosa parola unilaterale di Treitschke: “Gli uomini fanno la storia”. No, al contrario la storia fa gli uomini e forgia il loro destino». Per rispondere alla prima metà di questa inversione retorica per studenti, se non sono gli uomini a fare la storia, di chi si tratta? E per rispondere alla seconda, mi spiace solo che, se è vero che la storia fa gli uomini, nel passare essa abbia disgraziatamente mancato Braudel. Infine, cos’è cambiato tra il 1930 e il 1950 nel Bordello intellettuale a cui la storia è stata in questo caso ridotta? «…l’eccezionale opera di Ernest Labrousse, il più nuovo contributo alla storia degli ultimi vent’anni». Stronzate come la Comune di Barcellona e la doppia insurrezione di Varsavia, per non citare che queste in un periodo brutto quanto Labrousse. Non stupisce che chi fa la storia, chi la pratica, come attività generica degli uomini, non si curi minimamente di appropriarsi del titolo, divenuto ripugnante, di storico! Così, i nemici della storia, che pretendono di congelarla in una specialità “scientica”, adempiono alla propria funzione, di cui non hanno più coscienza, nel dibattito odierno: separare la storia come attività, ed anche per quanto è possibile, dalle coscienze dei suoi protagonisti, persino potenziali.
La storia è una attività attuale
Dopo aver propagato l’iniziale opinione che la storia non è un’attività e non è alla portata di tutti, lo storico di professione ne veicola un’altra: la storia è il passato. Sebbene abbastanza poco radicata in quanto vaga e generale, quest’idea, la più diffusa tra i poveri, contribuisce fortemente ad affogarli nella rassegnazione. Proprio lo storico, nella sua polverosa erudizione o nel suo sapere separato, nelle sue fissazioni libidiche che stupiscono senza attrarre e raccontano senza comprendere, e nel suo recente esibizionismo che esalta la sua ripugnante vecchiaia, si inserisce tra i poveri e la storia come un decadimento temporale: lui stesso raffigura il passato.
È importante parlare qui dello storico un po’ più di quanto non meriti, perché, volenti o nolenti, è diventato l’autorità intellettuale che garantisce la perdita della coscienza storica. Oggi lo storico è spostato dalla storia attuale proporzionalmente al suo spostamento dal terreno del dibattito attuale. In realtà, capita che alcuni storici affrontino «soggetti d’attualità», ma allora è come se fossero tra soggetti appartenenti a un passato che loro hanno raffreddato. Così come contribuiscono a raffreddare l’attualità. Queste sterili comunelle col presente funzionano, secondo un luogo comune, da eccezioni, alquanto rare, che confermano la regola: la storia è il passato.
Lavorando sul passato, gli storici non tentano mai di servirsene per trasformare il presente. Anzi la storia, essendo esclusivamente il passato, conferma il presente. Dato che il primo risultato della storia esclusivamente passata è di non essere presente, viene esclusa dal presente. Dopo aver informato con la propria attività che la storia non è un’attività, gli storici informano col proprio ritardo che la storia è ritardo. Questo risultato è rafforzato da un fatto inespresso: evidentemente ogni povero, incluso ogni storico, sa bene che oggi c’è storia, a prescindere dalla professione; ma questa è la teoria! Nella sua pratica il povero, incluso lo storico, verifica quotidianamente il contrario, e l’afferma pure: non c’è più storia. Senza riuscire ad esprimerla, questo povero ha la vaga sensazione di essere nel contempo al di qua e al di là della storia, nell’infinito. Rinunciando a cambiare il mondo, crede che il mondo non cambi, non cambierà più.
Così, gli è molto difficile identificarsi con i protagonisti della storia passata. Gli storici, a seconda della loro parrocchia, impongono uno dei modelli che ha l’effetto di giustificare il povero nella tetraggine senza progetto della propria sottomissione: che gli vengano mostrati celebri personaggi nel loro quotidiano e nella loro miseria in modo che il nostro spettatore si convinca che i protagonisti della storia sono poveri come lui, la qual cosa lo blandisce, o che sia talmente ricco da non aver nulla da fare, o che, fin dal passato più remoto, fossero già i concetti astratti a far girare il mondo; qualunque cosa facciano gli uomini, è inutile darsi da fare; o magari erano già i poveri, nella loro vita quotidiana e nel loro lavoro, nella loro «sessualità» e nella loro «cultura», a fare, pur senza saperlo, la storia; quindi, è inutile cambiare. In ogni caso, niente di eccitante, niente di grande, niente di bello: niente da prendere, nemmeno in mano. Il passato non è che un tempo imperfetto, in rapporto al presente. Di conseguenza, è meglio esistere oggi che nella storia. Nel passato, trattato com’è, il povero moderno, trattato com’è, scopre soltanto di avere interesse a separare l’oggi e la storia.
In 1984, Orwell critica violentemente la riscrittura permanente del passato. A questa pratica stalinista si contrappone il credo dell’attuale ideologia dominante, il principio di una storia oggettiva, di un passato di cui sarebbe possibile in qualche misura fissare i termini in maniera definitiva. Anzi, il passato non è solo ripensato, ma si scopre, e di conseguenza si modifica alla luce del presente. Il dibattito sull’umanità cambia continuamente argomenti, parola, campo di battaglia, armi, protagonisti e prospettive, ovvero metodi e strumenti per osservare oltre che per esprimere il passato, tutti necessariamente soggettivi. Ciò che differenzia questa riscrittura del passato da quella criticata in 1984 è che quest’ultima è sbirresca. Essa distrugge ed esclude quelle che l’hanno preceduta, cosa che Orwell denuncia per l’appunto come eccesso di menzogna, come un annichilimento della storia; mentre la riscrittura della storia passata, necessaria al partito che fa la storia, è il confronto costante di tutte le contraddizioni della propria operazione, del passato col presente, della conoscenza con l’ignoranza, dell’attualità col suo superamento.
Che sia reazione alla trasformazione della storia in passato, o volontà di riportare il paradiso sulla terra, dopo Marx la teoria più radicale sostiene l’idea secondo cui saremmo ancora nella preistoria. La storia sarebbe l’avvenire, unicamente l’avvenire. Facciamola finita con la preistoria qui ed ora. La preistoria è una invenzione degli storici per mostrare la differenza qualitativa da un’epoca in cui non c’erano ancora storici, spostata da Marx per mostrare la differenza qualitativa tra la società comunista realizzata e la nostra. In entrambi i casi la preistoria è il periodo anteriore al dominio del dibattito dell’umanità sull’umanità. Poiché la nostra epoca rivela che la scrittura non è la condizione indispensabile di questo dibattito, nulla dimostra ancora che sia mai esistita un’epoca senza dibattito sull’umanità; mentre tutto lascia supporre che il momento del dominio di questo dibattito sarà il suo silenzio finale. Per cui il dibattito imperfetto e indistinto che ha luogo qui ed ora è proprio tutta la storia. Trasporla nell’avvenire diffonde la medesima concezione del confinarla nel passato: la fede in un tempo eterno. Nel primo caso non c’è più storia, il presente è eterno, nel secondo non c’è ancora storia, l’avvenire è eterno. In entrambi i casi, il tempo eterno è la felicità, è là che si realizza l’uomo totale. Per parte mia, non sono credente. La storia ha una fine, l’umanità pure, e non ci sarà mai eternità.
La storia è un gioco
La storia è il momento più breve che si possa immaginare, adesso. E la storia è tutto il tempo misurabile dell’umanità. Questa distesa impressionante, che appare infinitamente grande, non esiste che in questo istante che appare infinitamente piccolo. Da queste due dimensioni contraddittorie, la storia trae la propria gravità e l’inesauribile ricchezza del mondo, uno scoppio di risa in mezzo a una sequela di miserie.
La fine della storia, la realizzazione dell’umanità è il fine della storia. La realizzazione della vita individuale non è differente dalla realizzazione della storia: per cui nessuna vita individuale è ancora realizzata. Solo il bisogno di questa realizzazione simultanea dell’individuo e del genere contiene la soddisfazione definitiva chiamata felicità. Ma la felicità è tutt’al più una idea non verificata, uno scopo indeterminato. Pure è questo scopo a rendere identica ogni grandezza alla vita, che attira gli esseri umani come un amante che, per il momento, è ancora al di là della loro vita. Il loro fine è l’unico autentico bisogno che li fa vivere. Si tratta di un bisogno fatto precisamente del contrario del bisogno. Ad ogni modo la realizzazione della storia è nel contempo necessità dell’individuo e dell’umanità. È il bisogno a contenere e fondare tutti gli altri. La gloria è l’impronta con cui la storia segna chi se ne impadronisce. Nella nostra epoca, la scarsa stima per la gloria, la stessa poca gloria, misurano la vastità della rassegnazione dell’umanità a realizzarsi.
Coloro che hanno ambizioni di gloria, che possono o vogliono far la storia, sanno che la storia è un gioco. Per gli altri, che ne sono le pedine, la storia è una successione di catastrofi: la storia è il dibattito di cui essi sono il bavaglio, la disputa di cui sono il tampone, la guerra di cui sono i cadaveri, l’abbraccio di cui sono il divieto. I giocatori che conoscono questo gioco estremo che va al di là della loro vita sanno che proprio loro devono andare al di là di se stessi; e forse questo non sarà sufficiente. Lungi dallo scoraggiare, questa smisurata esigenza attrae. Non enumererò le qualità che occorrono per vincere, perché servono tutte. Voglio soltanto dimostrare che il fine è la vittoria: che la storia sia corta!
I nemici della storia affermano: che la storia sia lunga; e anche: che la storia si fermi! Così, questo gioco assoluto è il gioco per la dominanza della totalità, che appartiene all’umanità intera, ma anche il conflitto dell’umanità divisa. In effetti, ciò che rende assoluto questo gioco è che non ha altre regole oltre a quelle, sempre e tutte effimere, stabilite dai partecipanti. Il sacro è una regola del gioco profano, l’infinito è il labirinto dell’illusione nella storia, l’assoluto stesso non è che la regola implicita di stabilire regole esplicite.
Infine, la storia è rispetto alla vita ciò che il quotidiano è rispetto alla sopravvivenza, la misura del suo tempo. Il gioco è l’attività generica dell’uomo, dove l’intelligenza è l’unità del cuore col cervello. Nel suo bisogno di praticare il gioco, la storia, l’essere umano incontra la necessità come miseria, come incidente, come alienazione della propria intelligenza. La nostra epoca completa il mondo mostrando il lavoro opposto al gioco, la necessità opposta alla vita, il quotidiano opposto alla ricchezza. La ricchezza non è mai necessaria. L’umanità può sopravvivere senza storia. Gli smarrimenti del cuore e dello spirito possono andare fino all’oblio del cuore e dello spirito, fino alla rassegnazione. L’amore e il genio non criticati si sono rarefatti nell’inflazione dei loro surrogati dallo stesso nome. Nel gioco, non ci sono lezioni da ricavare più che leggi rispettabili. La ricchezza pratica, la storia, ha come sola esigenza, limite e principio, la volontà degli esseri umani — che costituisce il loro gusto per il gioco — di farla finita.
In definitiva
La storia è il gioco dell’umanità intera e divisa, qui ed ora. Ha per fine la dominanza e la fine dell’umanità e del tempo.
[Diavolo in corpo, n. 3, novembre 2000]