Le due tattiche dell’anarchismo: ricostruire o distruggere

machorka84

 Renato Souvarine 1922

 

Dal 1914 al 1922, in questi terribili otto anni di grandiosi e tragici eventi, l’umanità ha vissuto quanto un secolo. Ha conosciuto tutte le tragedie. Ha fatto tutte le esperienze. Ha vissuto la cannibalesca grande guerra. Ha visto aprirsi l’era della rivoluzione mondiale, che si concluderà — dopo una lunga e aspra epoca storica — o nel mutamento dell’ordinamento sociale, o nella caduta della civilizzazione europea nella barbarie.

Il problema peculiare e immanente e urgente dell’umanità è questo, secondo me: o l’umanità si sbarazza delle soprastrutture statali, o lo Stato soffoca e uccide l’umanità.

Per chi bene osservi, la causa della crisi profonda, che travaglia e squassa la civilizzazione dalle fondamenta, è nella crisi del principio di Stato.

O l’umanità, con uno sforzo pertinace, titanico, atterra e abbatte questi “compartimenti stagni” e raggiunge l’unità dell’economia mondiale, o soccomberà, soffocata.

Non quindi nelle dittature borghesi od operaie è la soluzione; ma in un regime economico di produttori gestenti la produzione per soddisfare i bisogni dei produttori stessi, in cui i mezzi di produzione siano a libera disposizione di tutti. Un siffatto ordinamento a economia associata e razionale non può esser coronato che da una soprastruttura politica libertaria; cioè da comuni autonomi e indipendenti, ma associati da contrattazioni liberamente consentite.

È una mia idea fissa, questa: o le società umane spezzeranno e supereranno l’organizzazione di esse per mezzo della violenza statale, o esse periranno, infrangendosi sugli scogli degli Stati accentratori, burocratici e militaristi.

È sintomatico il fatto generale che tutti gli Stati del mondo si irrigidiscono in forme dittatoriali, e soffocano le società umane minacciandole di morte. È sempre più visibile questo fatto patologico: l’ipertrofia dello Stato determinante l’atrofia della società umana.

Di modo che il compito più concreto e reale degli anarchici dorrebbe essere di insistere su questa crisi fondamentale della civilizzazione capitalista: sulla crisi degli Stati e sull’avvento dell’anarchismo come via unica d’uscita.

Ho insistito a bella posta su questa questione perché taluni nostri compagni, presi e preoccupati e travolti dalle soluzioni immediate, vanno affermando che l’anarchismo, date le idee delle attuali popolazioni, è un ideale lontano. Quindi che occorra realizzare, costruire, con una «rivoluzione purchessia», fatta d’accordo cogli elementi affini. Poco importa se dalla padella si cascherà nelle brace; e se, per non fare «il gioco della borghesia», si faccia il gioco dei partiti affini.

Perché oggi chi non rincorra la chimera delle realizzazioni, o soluzioni, o costruzioni immediate, e voglia procedere sulle vie impervie ma diritte della rivoluzione anarchica, fa il gioco della borghesia!

Errico Malatesta così scriveva su Umanità Nova del 14 ottobre 1922: «È stata spesso ripetuta la frase: La rivoluzione sarà anarchica, o non sarà. L’affermazione può sembrare molto “rivoluzionaria”, molto “anarchica”, ma in realtà è una sciocchezza, quando non è un mezzo peggiore dello stesso riformismo per paralizzare le buone volontà ed indurre la gente a star tranquilla, a sopportare in pace il presente, aspettando il paradiso futuro».

E dire che da molti anni gli anarchici hanno sempre creduto di dover lavorare alla costituzione dei nuclei dinamici anarchici per predicare e agire unicamente a determinare una corrente di volontà verso la soluzione anarchica; la sola, secondo me, adeguata a risolvere la tremenda crisi da cui è dilaniata l’umanità.

Solo coll’anarchismo l’umanità potrà aprire un nuovo ciclo vitale. L’anarchismo avanti tutto, dunque. La rivoluzione sino in fondo!

 

— Quale il compito degli anarchici? — Ricostruire o distruggere?

È notorio a tutti gli anarchici intelligenti, a tutti gli spiriti critici che vi sono due tattiche, due concezioni del compito degli anarchici nell’era storica: quella che chiameremo contingentista e ricostruttrice è incarnata da Errico Malatesta; l’altra, quella che definiremo integralista e demolitrice, è rappresentata da Luigi Galleani.

Queste due tattiche fondamentali dell’anarchismo si son trovate faccia a faccia con gli avvenimenti grandiosi nel biennio 19-20, cioè nel periodo rivoluzionario apertosi in Italia subito dopo l’armistizio. Ed esse hanno subito la prova sperimentale del fuoco.

Peccato davvero che, grazie all’esistenza d’un grosso volgo sovversivo, dovuto all’inversione sindacalista, solo pochi abbiano seguito il dialogo tra le due tattiche, avvenuto in modo elevato e impersonale tra Torino e Milano: tra Cronaca Sovversiva e Umanità Nova, tra Galleani e Malatesta.

La tesi di Malatesta era: «Essendo noi pochini, e non potendo da soli determinare un movimento, o iniziarlo, occorreva il fronte unico coi partiti autoritari affini per far insieme la rivoluzione».

Data la situazione rivoluzionaria acutissima, questa tesi aveva il torto capitale di non dare alcuna importanza agli avvenimenti improvvisi, al loro corso, agli scatti delle folle e all’imprevisto, e di illudere e di illudersi sui sentimenti e volontà rivoluzionari dei D’Aragona e dei Serrati, peggio, dei partiti autoritari di governo, antirivoluzionari per natura e definizione.

La tesi di Luigi Galleani era quella «di essere e di operare da anarchici, semplicemente e puramente, sempre: avanti, durante e dopo la rivoluzione». Tesi integralista, che si occupa e si preoccupa, avanti tutto, di procedere diritti, contro corrente, contro le autorità vecchie e nuove, per le vie aspre, ma diritte, dell’anarchismo. Era la tattica della intransigenza pura e semplice, sino all’avvento dell’anarchismo. «Bisogna restare in rivoluzione in permanenza, a traverso tutto il ciclo storico per costruire l’anarchismo, sopratutto col preparare le condizioni obiettive distruggendo».

Luigi Galleani contava, avanti tutto, nella pressione degli avvenimenti, sugli impeti rivoltosi e generosi delle folle, della canaglia, in talune ore decisive della storia; e sull’imprevisto. Era per la rivoluzione sino in fondo! E alle perorazioni pel fronte unico di Malatesta, rispondeva: «Il fronte unico che è giù tra le folle anelito vivo, come è fra le probabilità meno controverse del domani, perde però ogni credito man mano che si sale verso l’Olimpo, e muove come sterile utopia fra le diffidenze, le invidiuzze e le acerbe competizioni dei semidei della rivoluzione». E concludeva: «nei grandi cimenti storici sono tutte con noi le folle anonime e inorganizzabili».

E contestava agli organizzatori il diritto di rappresentarle, di parlare in nome di esse nei loro congressi, cioè la loro autoinvestitura.

Infatti, si può dire che il congresso di Bologna del 1920, oltre che dare un programma e uno statuto all’U.A.I., sia stato il congresso della ricostruzione, alla vigilia della rivoluzione.

Coi sindacati e coi consigli di fabbrica, gli anarchici ricostruttori gettavano i piani di ricostruzione per l’indomani della rivoluzione che, allora, tutti credevano imminente.

L’ossessione della ricostruzione era così grande che… dimenticammo di occuparci della sua pregiudiziale: la distruzione!

Errico Malatesta scriveva: «Noi non avremo vinto se non in quanto riusciremo a ricostruire e solo fino al punto al quale arriverà la nostra capacità ricostruttiva».

Confesso la mia beata ignoranza in codesta questione della ricostruzione.

Dato che il Malatesta asserisce che «né il comunismo, né l’anarchismo si impongono per forza (ciò che è vero); che perché le masse non sono ancora anarchiche, non si potrà realizzare l’anarchismo direttamente e immediatamente all’indomani della rivoluzione», io non riesco a capire che cosa potremo «vincere» e «ricostruire» in un regime statalista!

È vero che allora Errico Malatesta, sia nei suoi comizi trionfali, sia nelle sue conferenze, supponeva e attribuiva ai nostri «affini e alleati», ai socialisti, grandi e nobili sentimenti di libertà…

Io mi sono molto meravigliato più volte nel sentirlo dire, rivolto al socialisti: «voi dite di essere amanti della libertà e di volere la libertà. Noi anarchici pure siamo animati dagli stessi sentimenti. Quindi, nella rivoluzione che faremo insieme, noi siamo certi che voi ci garantirete le libertà spirituali e la libertà di esperimentazione, e nella libera gara si vedrà quale programma sarà il migliore…».

Potrebbe darsi benissimo che questa fosse buona tattica per far trionfare la sua politica della concordia e degli accordi col partiti autoritari affini, ma io non ho mai potuto capacitarmi o convincermi delle aspirazioni di libertà nei partiti autoritari di governo. E non dopo il terribile esperimento russo e tedesco, ma da oltre vent’anni.

Ho sempre pensato che, poiché i partiti autoritari classici, borghesi, dal conservatore al democratico, sono condannati dalla storia, il partito più pericoloso, perturbatore, deviatore e dannoso all’emancipazione integrale delle masse lavoratrici e dell’umanità, sia propriamente costituito da tutte le frazioni, nessuna eccettuata, dei partiti socialisti autoritari.

Io ho la chiara visione che, dopo qualche secolo di inaudite lotte, e dopo la… vittoria e l’avvento del socialismo, che non sarà altro che capitalismo di Stato, o forse, anche un sistema misto di proprietà privata e di proprietà di Stato, gli operai si ritroveranno allo stesso punto di partenza. Dovranno ricominciare la lotta per la distruzione dello Stato e per l’anarchismo, il cui ordinamento politico solo consente l’applicazione del comunismo, cioè dell’eguaglianza economica e sociale.

Per questo non capisco che cosa d’anarchico e in qual modo si possa costruire anarchicamente sotto i ferrei regimi sociali dittatoriali e statali.

Ma alla politica degli accordi coi partiti affini e a quella della ricostruzione, ecco qua come rispondeva L. Galleani.

L’importanza del dialogo tra Malatesta e Galleani apparirà in tutta la sua grandiosità, quando si sappia che Galleani si rivolgeva ai congressisti anarchici di Bologna, ammonendoli e tracciando, per tutti gli anarchici, in pochi incisivi e scultorei periodi, la tattica dell’anarchismo integralistia e autonomo, nell’era storica.

Perché vi facciate un’opinione di quanto “l’inversione sindacalista” abbia deformato e inquinato il concetto integralista e autonomo dell’anarchismo e la sua grande, bella e ardua missione, vi dirò che, dopo aver interrogato moltissimi sindacalisti e anarchici, ebbi l’impressione che Galleani era incompreso! Vox clamantis in deserto, o per pochi spiriti critici.

Nessuna meraviglia, del resto, poiché l’anarchismo classico è confuso con la pratica riformista dell’U.S.I.

Di ciò abbiamo tutti peccato, perché avevamo paura di aprire il fuoco per non vederci accusati di fare il gioco della borghesia.

Ecco qua dunque le formidabili argomentazioni di Luigi Galleani:

«La prossima rivoluzione che dovrà sovvertire dalle fondamenta, nelle sue basi economiche, nei basistici privilegi di classe l’infame ordine sociale, non durerà dunque che “dal sabato al lunedì” in cui i consigli di fabbrica accorreranno per adagiare su le vecchie fondamenta la casa nuova che avranno arbitrariamente costrutta pei redenti cittadini dell’ordine novo?

Non ci fate piangere!

La rivoluzione del 1789, la quale non investì che l’opera morta, che l’involucro esteriore dell’antico regime, non ha dopo centotrent’anni realizzato fino ad ora i postulati della Dichiarazione dei Diritti: i nostri buoni “cittadini” sono sempre a comizio per reclamare il suffragio universale.

Interpretata dai filosofi, da Giambattista Vico o da Giuseppe Ferrari, la storia affida a ciascuna generazione la sua parte del compito rinnovatore. La generazione critica è superata? Ed è la volta allora della generazione che del vecchio, dell’irrazionale, dell’iniquo, deve iniziare la demolizione. È la nostra. Non vorrà, speriamo, eluderlo ipotecando la funzione ricostruttiva dei nipoti.

Distruggere deve! Scavare la fossa al passato, abbattere dell’ordine borghese ogni vestigia, sgombrare il terreno ai figli che, liberi, potranno soli riedificare la libera città dell’eguaglianza e della pace, della giustizia e dell’amore che è il nostro sogno, che sarà il loro orgoglio e la loro gioia».

Ricostruire e distruggere sono due fasi, o due momenti, o due aspetti d’un medesimo fenomeno di quel vasto, profondo e aspro processo rinnovatore e distruttore, che riempirà di sé tutto un evo storico.

La fase demolitrice è sorpassata? Dalla risposta che si darà a questa domanda si sarà determinata la tattica anarchica.

Ma gli anarchici paiono colti da impazienza; vogliono precorrere i tempi, saltarli, cancellarli, se è possibile.

Mal si adattano al tremendo compito anarchico di demolitori. Abbiamo creato dei partiti anarchici. Abbiamo irreggimentato. Le fila si sono ingrossate; furono gonfiate e stamburate anche ad arte, a puro scopo di concorrenza. Abbiamo fatto delle promesse; parlato di realizzazioni, di costruzioni. C’è pure fra mezzo a noi un volgo anarchico e sindacalista. Esso vuole sentir parlare di realizzazioni immediate. L’avvento dell’anarchismo è cosa di là da venire Non attrae, non seduce, non piace, non c’è soddisfazione a lavorare per i secoli futuri, contro tutti e contro tutto. È da matti procedere contro corrente. Si vuole sapere che cosa possiamo dare e fare all’indomani della rivoluzione, che cosa sappiamo costruire.

A forza di promettere il millennio, di raccontar mirabilia sulle nostre capacità di liberazione, di salvazione e di ricostruzione, ci siamo creati in un modo così involontario e inavvertito una specie di obbligo morale di salvare gli operai da tutti i mali cascati loro addosso.

Mi è rimasta impressa questa frase scritta da uno dei migliori anarchici dell’U.A.I. su Il Risveglio: «Persino L’Avvenire Anarchico non sa indicare un mezzo per liberarci dalla reazione». È tutto dire! La rivoluzione sino in fondo non è compresa.

 

La politica contingentista e ricostruttrice, sia del fronte unico che dei consigli di fabbrica, come organi di ricostruzione, nel cimento degli avvenimenti e della prova sperimentale del fuoco, ha segnato un completo e clamoroso fallimento.

Ecco quanto, ad esperienza vissuta, lo stesso E. Malatesta riconosceva su U.N. nel suo articolo “Il compito nell’ora presente”:

«Quando tornai In Italia, nelle circostanze che tutti conoscono, la rivoluzione era all’ordine del giorno.

Noi eravamo troppo poco numerosi per potere, con qualche probabilità di successo, prendere da soli l’iniziativa dell’azione. Perciò io fui tra i più caldi fautori del “fronte unico” che fu uno sforzo per trascinare all’azione coloro che avendo promesso la rivoluzione, gli uni per scopi sporcamente elettorali, gli altri per un transitorio entusiasmo provocato dai fatti di Russia, non potevano decentemente confessare che essi la rivoluzione non la volevano perché, a non parlare che delle ragioni oneste, non la credevano possibile.

I fatti mi han dato torto.

Noi dicemmo parole dure, gridammo al tradimento.

Ma se guardiamo il fondo delle cose, se consideriamo il tipo di organizzazione adottato dai socialisti ed il personale che costituisce la loro classe dirigente, e principalmente la maniera come essi concepiscono il divenire rivoluzionario, allora dovremo convenire che non furono essi i traditori, ma noi gl’ingenui.

Fare degli anarchici, metterci in grado di poter dare alla preparazione rivoluzionaria ed al fatto rivoluzionario l’impronta nostra, ecco il compito nostro attuale…».

 

Parole e verità tattiche che possiamo sottoscrivere a due mani. Certo, Malatesta scriveva sotto l’amarezza della dura e tremenda esperienza fatta. Ma, poco dopo, per liberarsi dalla reazione, il suo contingentalismo lo faceva ricadere nelle intese coi partiti affini, che scontava ancor più amaramente.

E a Saint’Irmier, nei riguardi dei sindacati e dei consigli di fabbrica, in relazione all’illusione ricostruttrice, così si esprimeva lo stesso Malatesta: «Ogni organizzazione sindacale sviluppandosi tende a diventare reazionaria. I sindacati, deboli all’inizio, ad andatura più o meno rivoluzionaria, aumentando i loro effettivi e i loro fondi, aumentando la possibilità d’imporre il sindacato obbligatorio, cercano di adattarsi, piuttosto che di trasformare le istituzioni economiche».

E sui consigli di fabbrica: «L’importanza dei consigli di fabbrica sarà grande una volta scoppiata la rivoluzione, ma attualmente servono sopratutto al padronato per mantenere la disciplina».

Di modo che la tattica integralista e demolitrice, perseguita e applicata da L. Galleani, esce così consacrata dagli avvenimenti stessi.

 

Ho visto che anche qualcuno del vostri ha discusso di queste cose su L’Adunata.

Gli anarchici devono guardar la realtà cruda e nuda, freddamente negli occhi. Essi non devono illudersi né illudere; sopratutto non promettere mirabilia ricostruttrici.

Arduo e immane è il nostro compito. Perché non abbiamo costruito l’anarchia in Russia o… altrove? Non minchioniamoci, o compagni.

Noi siamo appena all’inizio del nostro ciclo storico… Il ciclo della rivoluzione religiosa e il ciclo della rivoluzione politica hanno durato secoli. Il ciclo storico della rivoluzione economica, che sovverte e tocca tanti interessi materiali, durerà l’espace d’un matin?

La scienza sociale — scriveva Bakunin — si forgia nel fuoco delle rivoluzioni.

Le rivoluzioni sono come dei grandi laboratori sperimentali, in cui col sangue di una generazione si sperimenta e si forgia sistemi e ordinamenti di vita nuova e libera che poi una successiva evoluzione progressiva ha il compito di attuare e irradiare.

E la storia, l’osservazione e l’esperienza dimostrano, purtroppo, che le popolazioni non ricavano le regole di vita dalle previsioni teoriche. Ciò è ancor privilegio delle èlites intellettuali e rivoluzionarie. Esse non mutano via, tattica e sistemi che quando ci battono dentro col naso e sanguinano… Quando fanno la esperienza.

Purtroppo, tutto lascia supporre che avverrà così anche colle folle socialiste, ancora tutte in balìa delle superstizioni autoritarie e statali.

Hanno tanto predicato che un governo di uomini-provvidenza è necessario per emanciparle che esse si sono convinte che non sono capaci di fare i loro propri affari da per loro stesse; e hanno abdicato, anzi, stanno abdicando nelle mani di quel salvatori che più promettono loro di essere capaci di salvarle.

Qualcosa di simile abbiamo fatto e stiamo facendo anche noi.

Giorni sono G. Damiani su U.N., commentando lo sfacelo del P.S. si doleva amaramente che «beghe» o «i grimaldelli della diffamazione», cioè della nostra opposizione, impediva a loro di «richiamare le masse». Già, perché col dare loro la tessera dell’U.A.I., esse masse si spogliano taumaturgicamente delle incrostazioni psicologiche delle loro superstizioni autoritarie e governative.

Ah, se non ci fossero le critiche di quel diabolico di Avvenire Anarchico, noi potremmo attirarle a noi.

Ecco una cosa che non dovrebbero più fare, gli anarchici; cioè agitare e stamburare cifre ed effettivi, insomma, l’esteriorità artificiale, gonfia e tronfia, che crolla al primo soffio di tempesta.

Noi non abbiamo mai promesso di realizzare l’anarchia né in un giorno, né in una settimana, né in un mese, né in un anno, né in un secolo.

Per la conquista della libertà, per costruire l’anarchia, l’umanità ci metterà il tempo che dovrà metterci.

La sola cosa importante è di procedere, sin da oggi, per la impervia, ma diritta strada anarchica della rivoluzione sino in fondo.

E senza alcun dubbio gli avvenimenti hanno dimostrato che questa è la via e la tattica buone, incarnate da Galleani. Per angusta ad augusta. Colla tattica intransigente in formazioni coscienti volitive e autonome alla rivoluzione anarchica.

All’avvento dell’anarchia si arriverà a traverso una terribile serie di rivoluzioni, lungo un aspro ciclo storico.

Luigi Galleani, qualche anno fa, così tracciava il compito degli anarchici, nell’era storica, e la concezione della rivoluzione.

«Non è dinnanzi a voi che una forma ed un patto di ricostruzione: “distruggere!”, demolire, liberare il terreno dalle scorie e dai detriti del vecchio ordine; distruggere! senza scrupoli, senza pietà, senza riposo, senza paure: distruggere!

Penseranno i venturi, i figli ed i nipoti ad edificare la città nuova e felice, in cui tutti gli aneliti di libertà troveranno la consacrazione, il pensiero libero, il lavoro libero, l’amor libero, la libera integrale educazione dei figli ad ugual presidio della vita e della civiltà.

Distruggere!

Mano alla scure ed al piccone e menate sodo: non c’è altro rimedio!

All’anarchia — intesa come società di liberi e d’eguali — non si passerà così, di punto in bianco. Avrà un’applicazione universale, per dir così, soltanto quando l’umanità tutta si sentirà capace di vivere senza le odierne forme di coercizione. E le rovescerà pel fatto stesso che non le ritiene necessarie, ma dannose. Però se l’anarchia potremo viverla in un lontano domani e la saluteranno certo le generazioni ora nascenti, l’anarchismo noi possiamo e dobbiamo viverlo oggi.

Perché l’anarchismo si propone di determinare la lotta che già esiste oggi latente nel seno della società in senso proficuo agli interessi di tutti, di svegliare lo spirito di ribellione innato nel popolo e spingerlo alla rivolta contro le classi dominanti».

Tattica anarchica che si riassume in due parole sole: essere e operare da anarchici, a traverso tutte le rivoluzioni: avanti, durante e dopo, sino all’avvento dell’anarchia che ha da essere realizzato dagli anarchici all’infuori dei compromessi con i partiti autoritari, senza mai allearsi a questi partiti nemici, se non si vuole mancare alla propria missione storica, ciò che, in parte, avvenne durante il periodo rivoluzionario.

Che i grandiosi avvenimenti del biennio 19-20 ci servano almeno di ammaestramento.

Faccia a faccia con gli avvenimenti la tattica contingentista e ricostruttrice si è addimostrata inadeguata, inoperante, utopistica, fallimentare, sì da farsi sfuggire l’attimo rivoluzionario, in quanto la tattica integralista e autonoma si è rivelata adeguata al mezzo e al fine dell’anarchismo.

Dalla prova del fuoco degli avvenimenti è uscita più saldamente temprata la tattica fondamentale dell’anarchismo: all’anarchismo, a traverso la rivoluzione sino in fondo, lungo e durante tutto un intero evo storico.

 

 

[L’Adunata dei Refrattari, anno I, n. 18 del 30 dicembre 1922]