Un anarchico in prigione – Alexander Berkman

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edizioni Anarchismo – anno 1978

pagg. 66-88, 98-102

Titolo originale: Prison Memoirs of an Anarchist. New York: Mother Earth Press (1912)

IL PENITENZIARIO

PENSIERI DISPERATI
“Mettiti a tuo agio, adesso. Rimarrai qui per un po’, huh, huh!”
Come in sogno mi giunge quella voce ruvida. È l’uomo che mi sta parlando, credo. Perché ride? Sono così stanco, desidero tantissimo rimanere solo. Ora la voce ha smesso; i passi si allontanano. Tutto è silenzioso e sono solo. Mi sento esausto, ho la mente vuota. Un peso insopportabile mi opprime. Pesantemente mi butto sul letto. Con la testa sprofondata nel cuscino di paglia, il cuore che scoppia, mi immergo in un sonno profondo.

Ho gli occhi che bruciano come ferro incandescente. Il calore mi inaridisce la vista e mi divora le palpebre. Perfora la mia testa; ho il cervello in fiamme che viene consumato da un fuoco avvampante. Oh! Mi sveglio di soprassalto. Un raggio di luce accecante mi colpisce il volto Terrorizzato, mi porto le mani agli occhi, ma il lampo misterioso mi brucia le palpebre, e mi abbaglia torturandomi orrendamente.
“Alzati e spogliati. Che cos’hai?”
La voce mi spaventa. La cella è invasa dalla luce accecante. Attorno è tutto buio, la guardia invisibile.
“Ora stenditi e dormi”.
In silenzio obbedisco, quando di colpo tutto diventa buio dinanzi ai miei occhi. Un terrore profondo attanaglia il mio cuore. Sono diventato cieco? A tastoni cerco il letto, la parete… Non ci vedo! Con un grido disperato mi avvento contro la porta. Un lontano clic raggiunge le mie orecchie tese e una luce vivida cade sulla mia faccia. Oh, ci vedo! Ci vedo!
“Che diavolo hai, eh? Vai a dormire. Capito?”
Quieto ed immobile mi stendo sul letto. Strani incubi mi assalgono… Che posto terribile dev’essere questo! Questa agonia… non posso sopportarla. Ventidue anni! Disperato, disperato. Devo morire. Morirò stanotte… Ansimando scivolo fuori dal letto. La rete del letto cigola. Spaventato vi ritorno sopra, fingendo di dormire. Tutto è silenzioso. La guardia non mi ha sentito. Vedrai lo spioncino anche ad occhi chiusi. Lentamente riapro gli occhi. Tutt’attorno è buio. Vado a tentoni nella cella. La parete è umida, ammuffita. C’è un odore nauseante… non posso vivere qui. Devo morire. Questa notte… Qualcosa luccica nell’angolo. Cautamente ci vado vicino. È un cucchiaio. Per un istante lo osservo con indifferenza; poi un grande sollievo mi pervade. Adesso posso morire! Scivolo nuovamente nel letto, stringendo nervosamente il pezzo di latta. Mi porto la mano sul cuore. Sta battendo violentemente. Appoggerò l’estremità più stretta del cucchiaio qui – così – spingerò -un po’ più in basso – una pressione costante proprio tra le costole… Il metallo è freddo. Com’è caldo il mio corpo! Carezzevolmente prendo il cucchiaio e lo appoggio al mio fianco. Con le dita cerco la punta. È larga. Devo premere forte. Sì, è molto larga. Se solo avessi la mia rivoltella. Ma la cartuccia potrebbe far cilecca. Ecco perché Frick adesso è vivo e io devo morire. Come mi guardava al processo! C’era odio nei suoi occhi, e anche paura. Girò gli occhi dall’altra parte, non poteva guardarmi in faccia. Mi sono accorto che si sentiva colpevole. E ora è vivo. Non l’ho sconfitto. Ho sbagliato, sbagliato…
“Sta buono laggiù, o ti scaravento in cella di punizione”.
La voce dura mi fa trasalire. Devo essermi lasciato sfuggire una parola. Tirerò il lenzuolo sulla testa, allora. A che cosa stavo pensando? Oh, ricordo. Lui sta bene e io sono qui. Non l’ho preso. È vivo. Naturalmente, questo non è importante. La possibilità di far propaganda c’è, come risultato del mio gesto. Questo era il vero obiettivo. Ma io volevo ucciderlo, e lui è vivo. Anche il mio discorso non è riuscito. Mi hanno imbrogliato. Hanno tenuta segreta la data. Avevano paura che i miei amici intervenissero. Era esasperante il modo in cui il pubblico ministero ed il giudice mi hanno interrotto. Non ho letto neppure un terzo della mia dichiarazione. E tutto I’effetto è andato perduto. Come ha tradotto quel tizio! Quel povero vecchio! Era profondamente offeso quando gli correggevo la traduzione. Non sapevo che era cieco. Lo ripresi e soffrii un’altra tortura quando si mise a strillare. Quasi fui contento quando il giudice mi costrinse a interrompere. Quel giudice! Agiva con indifferenza come se la cosa non lo riguardasse. Deve aver saputo che la condanna significava la mia morte. Ventidue anni! Come se fosse possibile sopravvivere tanti anni in questo posto orribile! Sì, lo sapeva; disse che doveva costituire un esempio. Quel vecchio furfante! Ha continuato a fare così in tutta la sua vita: fare un esempio delle vittime della società, le vittime della sua stessa classe, del capitalismo. Beffa brutale – avevo qualcosa da dire contro il verdetto? Tuttavia non mi aveva permesso di continuare con la mia dichiarazione. “La corte è stata molto paziente!” Sono contento di avergli potuto dire che non mi attendevo giustizia e non l’avevo avuta. Forse avrei dovuto gettargli in faccia la parola che affiorava sulle mie labbra. No, era meglio controllare la rabbia. Se no avrebbero avuto la gradita possibilità di definire gli Anarchici volgari criminali. Cose simili favoriscono i pregiudizi del Popolo contro di noi. Noi, criminali? Noi, che siamo sempre pronti a donare la nostra vita per la libertà, noi, criminali? E loro, i nostri accusatori? Infrangono le loro stesse leggi: sapevano che era illegale moltiplicare le accuse contro di me. Hanno fatto sei capi d’accusa di un unico reato, come se le “offese” minori non fossero comprese nella maggiore, rese necessarie per il gesto stesso. Avevano sete di sangue.
Legalmente, non potevano danni più di sette anni. Ma io sono un Anarchico. Avevo attentato alla vita di un grande magnate; in lui il capitalismo stesso s’è sentito attaccato. Naturalmente, sapevo che avrebbero tratto vantaggio dal mio rifiuto di essere difeso. Ventidue anni!
Il giudice ha dato la pena maggiore per ogni capo d’accusa. Beh! non mi aspettavo nulla di meno e ora non fa alcuna differenza. Comunque, morirò.
Attanaglio il cucchiaio nella mia mano tremante. La estremità più stretta contro il cuore, provo la resistenza della carne. Un colpo violento lo infilerà tra le costole…
Uno, due, tre – il cupo suono metallico si spande nel silenzio, risonante, irresistibile. Immediatamente, tutto si mette in movimento: sopra, di fianco, tutto vibra di movimento. Gente sbadiglia e tossisce, sedie e letti vengono mossi rumorosamente, pesanti passi corrono sul pavimento. Lontano si ode un rombo sordo, come di tuono. Diventa sempre più alto e vicino. Sento gli ordini taglienti dell’ufficiale, lo scatto familiare della serratura, porte che si aprono e che si chiudono. Ora il rombo si avvicina, più distinto. Con un muggito il carrello dei pane si ferma davanti alla mia cella. Un guardiano socchiude la porta. Il suo sguardo si ferma su di me con una strana espressione, con sospetto, mentre un detenuto-inserviente mi porge una piccola pagnotta. Ho appena il tempo di ritirare il braccio prima che la porta venga chiusa e sprangata.
“Caffè? Prendi la tazza”.
Tra le strette sbarre, il liquido mi viene versato nella sottile latta ammaccata ed arrugginita. Nella semi-oscurità della cella il liquido fumante si spande scottandomi i piedi nudi. Con un grido di dolore lascio cadere la tazza. Nell’entrata illuminata fiocamente il pavimento sembra macchiato di sangue.
“Cosa credi di fare?” la guardia mi grida.
“Non riesco a tenerlo in mano”.
“Vuoi fare il furbo, vero? bene, ci pensiamo noi. Ehi, Sam”, la guardia fa un cenno all’inserviente, “niente pranzo per l’A 7, capito?”
“Sissignore. Sissignore!”
“E basta caffè”.
“Sissignore”.
La guardia mi scruta con uno sguardo di odio sprezzante. La cattiveria si rispecchia nel suo volto. Involontariamente rientro nella mia cella. Il suo occhio cade sui miei piedi nudi.
“Non hai scarpe?”
“Sì? Non sai dire ‘signore’? Hai le scarpe?”
“Sì”
“E allora mettile, maledizione”.
La sua lingua sposta rapidamente la grossa cicca di tabacco da una guancia l’altra. Con un sibilo, uno sputo marrone mi colpisce i piedi. “Maledizione, mettile”.
Il rumore è cessato; i passi si sono spenti lontano. Tutto è immerso nel buio. Solo qualche ombra scivola, silenziosa, spettrale.
“Avanti, march!”
La lunga fila di detenuti, con abiti a righe e rattoppati, assomiglia ad un serpente ondeggiante, barcollante da un lato all’altro. col suo corpo che avanza, ma che sembra rimanere nello stesso punto. Un migliaio di piedi battono il pavimento ritmicamente, con un alternarsi di suoni, quando una schiera, affiancata dalle guardie, si avvicina e supera la mia cella. Facce, abbrutite, repellenti nella loro impudente indifferenza o nello sguardo malevolo. Qua e là una testa ben disegnata, l’occhio intelligente, o l’espressione simpatica, non fa che accentuare i lineamenti della fila a strisce: volgare e sinistro, con lo sguardo colpevole e traditore del braccato senza pietà. Testa curva, il braccio destro allungato, con la mano a toccare la spalla di chi precede, tutti uniformemente vestiti a strisce orizzontali nere e grige, gli uomini sembrano denti senza volontà di una ruota meccanica, che si muove ai comandi urlati dalle guardie ai fianchi, severe e vigilanti.
I colpi ritmici divengono sempre più deboli e si estinguono col tonfo sordo dell’ultimo passo, dietro la doppia porta chiusa che immette nel cortile della prigioni. Al manto dei silenzio discende sulle celle. Mi sento terribilmente solo, abbandonato e dimenticato tra i torreggianti muri di pietra e di ferro. La calma mi abbraccia con un peso quasi palpabile. Sono seppellito tra le strette pareti; la massiccia pietra mi opprime la testa, i fianchi. Non posso respirare. L’aria puzzolente è soffocante. Oh, non posso, non posso vivere qui dentro! Non posso sopportare quest’agonia. Ventidue anni! È una vita. No, è impossibile. Devo morire. Lo voglio! Ora!
Afferrato il cucchiaio, mi getto sul letto. I miei occhi vagano per la cella, debolmente illuminata dalla luce nel corridoio: le pareti bianche, ingiallite dall’umidità – le macchie di sangue rosso scuro delle pareti – il tavolino e la sedia malsicura – il pavimento sudicio, nero e grigio a macchie… ”Ma è pietra! Posso affilare il cucchiaio. Pian piano mi rannicchio nell’angolo. Lo stagno scivola sulla superficie ruvida, silenzioso, piano, finché lo spesso strato di sudiciume viene via. Allora scricchiola e gratta. Col cuscino attutisco il rumore. Il metallo si scalda nella mia mano. Faccio scorrere la punta tagliente tra le dita. Gocce di sangue scorrono sull’impiantito. La ferita si allarga, ma la lama è affilata. Furtivamente scivolo di nuovo sul letto. Con la mano mi sento il cuore. Tocco la zona colla lama. Tra le costole – qui – sarò morto quando mi troveranno… Se solo Frick fosse morto. Si sarebbe potuta fare tanta propaganda – quel maledetto Most, se non si fosse rivoltato contro di me! Rovinerà tutto l’effetto del mio gesto. Non è che vigliaccheria. Ma di che cosa ha paura? Non possono chiamarlo in causa. Da più di un anno non ci vediamo. Gli sarebbe facile provarlo. Il traditore! Ha predicato la propaganda coi fatti per tutta la sua vita – e adesso condanna il primo attentato in questo paese. Che agitazione tremenda avrebbe potuto fare! Adesso mi respinge, non mi conosce. Vile! Mi conosceva abbastanza bene ed aveva addirittura fiducia in me, quando insieme redigemmo la circolare segreta nell’ufficio del Freiheit. Fu a William Street. Aspettammo che uscissero gli altri tipografi; poi lavorammo tutta la notte. Mi consigliò:progettavo di andare in Russia, allora. Sì, in Russia. Forse avrei potuto fare qualcosa di importante là. Perché non ci andai? Beh!, non posso pensarci adesso. È strano, però. Ma l’America era più importante. C’era un sacco di rivoluzionari in Russia. E ora… Oh, non farò più niente. Presto sarò morto. Mi troveranno freddo – un lago di sangue sotto di me – il materasso sarà rosso – no, sarà rosso-scuro, ed il sangue penetrerà nella paglia… Mi chiedo quanto sangue ho. Sgorgherà dal mio cuore – devo colpire proprio qui forte e rapido – non farà troppo male. Ma il filo è frastagliato – può strappare o lacerare la carne. Dicono che la pelle sia resistente. Devo colpire forte. Forse è meglio cadere sulla lama? No, la latta potrebbe piegarsi. Lo pugnerò stretto – così – poi un colpo veloce – diritto al cuore – è il modo più sicuro. Non devo sbagliare – sanguinerei lentamente – potrebbero trovarmi ancora vivo. No, no! Devo morire all’istante. Mi troveranno morto il mio cuore – lo sentiranno – non batterà – con la lama ancora infilata chiameranno il dottore – “È morto”. E la ragazza e Fedya e gli altri verranno a saperlo – lei sarà triste – ma comprenderà. Sì, sarà contenta che non abbiano potuto torturarmi qui – saprà che li ho giocati – sì, lei… Dov’è adesso? Che cosa ne pensa di tutto ciò? Pensa anche lei che ho fallito? E Fedya, anche lui? Se solo potessi sapere qualcosa di lei – solo una volta. Sarebbe più facile morire. Ma lei capirà, lei…
“Su dal letto! Non conosci il regolamento, eh? Esci fuori!”
Spaventato, senza parola, mi alzo in piedi. Il cucchiaio cade dal mio pugno aperto. Batte sul pavimento, con un tintinnio rumoroso, maledetto. Il mio cuore si arresta quando guardo in faccia la guardia. C’è qualcosa di piacevolmente familiare in quell’uomo alto, con la bocca tirata in un sorriso derisione.
Oh, è il secondino di questa mattina!
“Astuto, vero? Dammi quel cucchiaio”.
L’incidente del caffè mi ritorna alla mente. Provo repulsione e odio per quel tizio. Per un istante rimango esitante. Devo nascondere il cucchiaio. Non posso permettermi di perderlo – non così…
“Capitano, qua!”
Vengo trascinato fuori dalla cella. Quello alto esamina attentamente il cucchiaio, con un ghigno malefico che si disegna sul suo viso.
“Guardate, Capitano. Tagliente come un rasoio. Proprio disperato, eh?”
“Portatelo dal Vice, Signor Fellings”.
Nella rotonda che collega i bracci delle celle a nord con quelli a sud, il Vice è dietro un alto scrittoio. Spigoloso e ossuto, con le spalle leggermente curve, la sua faccia è una massa di piccole rughe come una pergamena. Il naso aquilino sovrasta le sottili labbra strette. Quegli occhi metallici mi squadrano freddamente, ostili.
“Chi è questo?”
La voce flebile, quasi femminea accentua la faccia e la figura cadaverica.
Il contrasto è impressionante. “Qual è l’accusa, Guardia?'” “Due accuse, Signor McPane. È rimasto steso sul letto ed ha tentato il suicidio”.
Un sorriso di satanica soddisfazione lentamente si spande sul viso rugoso del Vice. Le lunghe, forti dita della sua mano destra si agitano convulsamente, come tambureggiando ostinatamente su un immaginario tavolo.
“Sì, ehm, sì. A 7, due accuse. Ehm, ehm. Come ha tentato di… di commettere il suicidio?”
“Con questo cucchiaio, Signor Mc Pane. Tagliente ‘come un rasoio”. “Sì, ehm, sì. Vuole morire. Non contempliamo nessun reato come, ehm, il tentato suicidio in questo istituto. Cucchiaio affilato, ehm, ehm; un grave pericolo. A questo penserò dopo. Per aver infranto il regolamento, ehm, ehm, rimanendo a letto in ore non consentite, ehm, ehm, tre giorni. Portatelo giù. Guardia. Si calmerà…”
Mi sento debole e affaticato. Un senso di grande indifferenza s’impadronisce di me. Sono vagamente cosciente che le guardie mi stanno portando attraverso corridoi scuri, trascinandomi lungo ripide rampe di scale, mi denudano, ed infine mi gettano in un locale buio. Sono stordito; mi gira la testa. Barcollo e cado sulle pietre del sotterraneo. La cella è invasa dalla luce. Mi fa male agli occhi. Qualcuno è curvo su di me.
“Un po’ di febbre. Meglio portarlo in cella”.
“Ehm, ehm, Dottore, è in punizione”.
“È rischioso, Signor McPane”.
“Lo rimanderemo, allora. Ehm, ehm, riportatelo in cella. Guardie”.
“Andiamo”.
Le gambe sono come paralizzate. Si rifiutano di muoversi. Vengo sollevato e portato sulle scale, attraverso corridoi e sale e poi gettato pesantemente su un letto.
Mi sento così debole. Forse adesso morirò. Sarebbe meglio. Ma non ho nessun’arma! Mi hanno portato via il cucchiaio. Non c’è nulla in cella che io possa utilizzare. Queste sbarre di ferro – potrei sbatterci contro la testa. Ma, oh! è una morte talmente orribile. Mi si spezzerebbe il cranio e il cervello ne uscirebbe fuori… Ma le sbarre sono lisce. Mi si spezzerebbe il cranio con un colpo solo? Temo che si potrebbe solamente incrinare e io sarei troppo debole per dare un altro colpo. Se solo avessi il revolver; sarebbe tutto più facile e veloce. Ho sempre pensato che avrei preferito una morte così… con un colpo. La canna appoggiata alla tempia – non si può sbagliare. Qualcuno lo ha fatto davanti ad uno specchio. Ma io non ho specchi. Non ho nemmeno il revolver, d’altra parte… Anche in bocca è mortale… Quello studente di Mosca – Russov si chiamava; sì, Ivan Russov – si sparò in bocca. Naturalmente, è stato pazzo ad ammazzarsi per una donna; ma io ammirai il suo coraggio. Aveva fatto tutti i preparativi freddamente; lasciò pure un appunto in cui dichiarava di lasciare il suo orologio d’oro alla padrona di casa, perché – scrisse – dopo avergli trapassato il cranio, la pallottola avrebbe potuto danneggiare la parete. Meraviglioso!
Effettivamente fu così. Vidi la palla conficcata nella parete vicino al sofà e Ivan disteso così calmo e sereno, credetti che fosse addormentato. L’avevo spesso veduto in quell’atteggiamento nello studio di mio fratello, dopo le nostre lezioni. Che splendido istitutore fu! Mi piacque fin dall’inizio, quando la mamma lo presentò: “Sasha, Ivan Nikolaievitch sarà il tuo insegnante di latino durante le vacanze”. La mia mano rimase dolorante per tutto il giorno; lui l’aveva stretta così vigorosamente, come una morsa. Ma fui contento di non aver gridato. Lo ammirai per questo; sentii che doveva essere davvero forte e virile per avere una simile stretta. La mamma sorrise quando glielo raccontai. Anche la sua mano le aveva fatto male, disse lei. Mia sorella arrossì un poco. “Piuttosto energico” osservò. E Maxim fu così contento dell’impressione favorevole lasciata dal suo compagno di collegio. “Che cosa vi avevo detto?” gridò, allegro; “Molodetz Ivan Nikolaievitch! Pensate, ha solo vent’anni. Si laurea il prossimo anno. Il più giovane allievo dell’università. Moldetz!”
Ma come erano rossi gli occhi di Maxim quando portò a casa la pallottola.
L’avrebbe conservata, disse, per tutta la vita: l’aveva tirata fuori con le mani dalla parete della stanza di Ivan Nikolaieviteh. A pranzo aprì lo scatolino, tirò fuori il cotone e mi mostrò la palla. Mia sorella si mise ad urlare istericamente e la mamma chiamò Max bruto. “Per una donna, una donna indegna! ” gemette mia sorella. Pensai che era pazza gettare la vita per una donna. Mi sentii un po’ deluso: Ivan Nikolaievitch avrebbe dovuto essere più virile. Tutti dicevano che lei era molto bella, la reginetta riconosciuta di Kovno. Era alta e signorile, ma pensai che camminava troppo affettatamente; sembrava piena di sé e artificiale. La. mamma diceva che ero troppo piccolo per parlare di cose simili. Come sarebbe rimasta meraviglia se avesse saputo che ero innamorato di Nadya, la compagna di mia sorella. E che avevo anche baciato la nostra cameriera. Cara piccola Rosa – ricordo e lei minacciò di dirlo alla mamma. Ero così spaventato che non volevo venire a pranzo. La mamma mandò la cameriera a chiamarmi, ma io rifiutai andarci finché Rosa promise che non l’avrebbe riferito… Quella dolce gazza, con quelle sue guance rosse come mele. Come era gentile! Ma quel piccolo demonio non poteva mantenere il segreto. Lo raccontò a Tatanya, cuoca del nostro vicino, l’insegnate di latino del liceo. Il giorno dopo quello mi fece domande sulla giovane cameriera. Di fronte a tutta la classe, per di più. Avrei voluto che il pavimento si fosse aperto e mi avesse inghiottito. Rimasi tanto mortificato… Come sembra lontano tutto ciò. Secoli. Mi chiedo che cosa ne sia stato di lei. Dov’è adesso Rosa? Potrebbe essere qui in America. L’avevo quasi dimenticato… la incontrai a New York. Fu una grande sorpresa. Stavo in piedi sulla veranda della casa operaia dov’ero in pensione. A quel tempo ero nel paese da pochi mesi. Una giovane donna mi passò davanti. Ella guardò verso di me, poi tornò indietro e salì gli scalini. “Non mi riconosce, Signor Berkman? Davvero non mi riconosce?” Un errore, pensai. Non avevo mai visto prima quella splendida, elegante ragazza. Mi invitò ad entrare nel vestibolo “Non lo racconti alla gente qui. Io sono Rosa. Non ricorda? Ero la… cameriera di sua madre”. Arrossì di colpo. Quelle guance rosse certo, è Rosa!
Ripensai al bacio rubato. “Oserei farlo ora” mi chiesi, improvvisamente, consapevole dei miei abiti logori. Lei sembrava star bene. Come erano cambiate le nostre posizioni! Assomigliava ad una vera barishnya, come mia sorella. “È qui sua madre”, domandò lei. “La mamma? morta, appena prima che me ne andassi”. Le gettai un’occhiata apprensiva. Si ricordava quella tremenda scena quando mia madre la colpi? “Non sapevo di sua madre”. La sua voce era velata; una lacrima luccicava nei suoi occhi. Quella cara ragazza, con un cuore sempre generoso. Avrei dovuto chiedere scusa per l’offesa di mia madre. Ci guardammo l’un l’altro con imbarazzo. Poi mi porse la mano guantata. Molto grande, pensai; e anche rossa, probabilmente. “Arrivederci, Gospodin Berkman” disse. “Arrivederci a presto. Per favore, non dite a questa gente chi sono”. Provai un senso di colpa e di vergogna. Gospodin Berkman – assomigliava un po’ al servile barinya, che i domestici erano soliti rivolgere a mia madre. Con tutta la sua eleganza ostentata, Rosa non l’aveva dimenticato. Le era troppo radicato in testa, povera ragazza. Non si era emancipata. Non l’avevo mai vista alle nostre riunioni; è una conservatrice senza dubbio. Era così ignorante, non sapeva nemmeno leggere. Forse l’ha imparato in questo paese. Ora leggerà di me e saprà come sono morto… Oh, non ho il cucchiaio! Che cosa farò, che cosa farò? Non posso vivere. Non potrei sopportare questa tortura. Forse se fossi stato condannato a sette anni, avrei provato a scontare la pena. Ma non avrei potuto comunque. Forse riuscirei a vivere qui dentro un anno, due. Ma ventidue, ventidue anni! A che scopo? Nessun uomo potrebbe sopravvivere. È terribile, ventidue anni! La loro maledetta giustizia – parlano sempre di legge. Ma secondo la legge non avrei preso più di sette anni. Secondo la legge! Come se loro si preoccupassero della legalità”. Volevano fare di me un esempio. Naturalmente, lo sapevo in anticipo; ma se avessi avuto sette anni… forse potrei sopportarli; ci proverei. Ma ventidue – è una vita, una vita intera. Nemmeno diciassette sarebbe meglio. Quel Jamestown si è preso diciassette anni. Aveva la cella vicino alla mia in carcere. Non pareva un rapinatore, era così piccolo e sparuto. Dovrebbe essere qui adesso. È un pazzo a credere di poter vivere qui per diciassette anni. In quest’inferno – che imbecille! Avrebbe dovuto suicidarsi molto tempo prima. Lo trasferirono prima del mio processo; circa tre settimane fa. Un tempo sufficiente; perché non ha fatto qualcosa? Comunque, morirà presto, qui dentro; sarebbe meglio suicidarsi. Un uomo forte potrebbe viverci cinque anni; ma ne dubito; forse lo potrebbe un uomo molto forte. lo non potrei; no, so che non potrei; forse due o tre anni, al massimo. Ne avevamo spesso parlato insieme, la Ragazza, Fedya ed io. Avevo allora una ben strana idea della prigione: pensavo che sarei rimasto seduto sul pavimento in un raccapricciante, nero buco, con le mani ed i piedi incatenati alla parete: ed i vermi mi sarebbero strisciati addosso ed avrebbero lentamente divorato la mia faccia ed i miei occhi, mentre impotente sarei rimasto incatenato alla parete. La Ragazza e Fedya ne avevano un’idea simile. Lei disse che avrebbe potuto sopportare la vita carceraria per poche settimane. Io per un anno, ritenevo; ma ero dubbioso. Mi immaginavo impegnato a togliere i vermi dai piedi; vedevo i parassiti mangiarmi le carni, finché sarebbero giunti al cuore; quella sarebbe stata la fine… E i parassiti, qui, queste grosse, scure cimici, devono essere come vermi, così schifosi ed affamati. Forse qui ci sono anche i vermi. Devono esserci in quel sotterraneo: ho una piaga sul piede.
Non so come mi sia venuta. Ero stordito in quel luogo buio – era proprio come mi immaginavo prima la prigione. Non ci potrei vivere nemmeno una settimana laggiù: è tremendo. Qui è un po’ meglio; ma non c’è mai luce in questa cella, sempre nella semioscurità. E così piccola e stretta; niente finestre; è umido e sempre puzzolente. Le pareti sono bagnate e viscide; macchiate di sangue, poi. Cimici – puah! – è nauseante. Non molto meglio di quel buco nero, con mani e faccia incatenate al muro.
Solo un po’ meglio – le mani non sono incatenate. Forse potrei viverci pochi anni: non più di tre, o forse cinque. Ma queste guardie brutali! No, no, non potrei sopportarlo. Voglio morire! Qui morirò presto, comunque; loro vogliono uccidermi. Ma non voglio dare al nemico questa soddisfazione; non potranno dire che mi stanno torturando in prigione, o che mi hanno ucciso. No! Preferisco piuttosto uccidermi. Certo, uccidermi. Devo farlo – con la testa contro le sbarre – no, non adesso! Di notte, quando tutto è buio – allora non mi potrebbero salvare. Sarà una morte orribile, ma dev’esser fatto… Se solo sapessi qualcosa di quelli di New York – la Ragazza e Fedya -sarebbe allora più facile morire… Che cosa stanno facendo? Stanno facendo propaganda per il mio caso? Devono aspettare notizie del mio suicidio. Sanno che non posso vivere a lungo qui. Forse si domandano perché non mi sono suicidato subito dopo il processo. Ma non potevo. Credevo che sarei stato portato dal tribunale alla mia cella in prigione; di solito si fa così con i detenuti processati. Mi ero preparato ad impiccarmi quella notte, ma devono aver sospettato qualcosa. Mi hanno portato direttamente qui dall’aula. Forse avrei potuto essere morto a quest’ora.
“Colazione! Caffè? Tieni la tazza!” grida l’inserviente dalla porta. All’improvviso sussurra “Prendi, presto!” Un oggetto lungo, scuro viene gettato nella cella attraverso le sbarre, cadendo ai piedi del letto. L’uomo se n’è andato. Raccolgo il pacchetto, avvolto stretto in carta marrone. Che cosa può essere? La carta copre due strati di vecchi giornali; poi appare alla vista un oggetto bianco. Un asciugamano! C’è qualcosa di rotondo e duro dentro – è un pezzo di sapone. Un senso di riconoscenza esce dal mio cuore, mentre mi chiedo chi potrebbe essere il mittente. Fa bene sapere che c’è almeno un essere umano qui con uno spirito di amicizia. Forse è qualcuno che ho conosciuto in prigione. Ma come si è procurato queste cose? Sono permesse? L’asciugamano è leggero e soffice; è un sollievo dopo il duro letto di paglia. Tutto è così ruvido e duro qui – le parole, le guardie… Mi passo l’asciugamano sulla faccia; mi dà un po’ di sollievo. Posso lavarmi – mi sento la testa così pesante – non mi sono lavato da quando sono qui. Quando ci sono venuto? Vediamo; che cos’è oggi? Non so, non riesco a fare i conti. Ma il mio processo – fu lunedì, 19 settembre. Mi portarono qui nel pomeriggio; no, alla sera. E quella guardia – mi spaventò tanto con quella lanterna. Fu la notte scorsa? No, dev’essere stato prima ancora. Sono qui solamente da ieri? Ma, sembra tanto tempo! Che sia martedì, solo martedì? Lo chiederò all’inserviente la prossima volta che passa. Cercherò anche di sapere chi mi ha mandato questo asciugamano. Forse potrei avere un po’ d’acqua fredda da lui; o forse ce n’è un po’ qui…
I miei occhi si stanno abituando alla semioscurità della cella. Distinguo gli oggetti abbastanza bene. C’è un piccolo tavolo di legno e una vecchia sedia nell’altro angolo, quasi nascosto dal letto, il bugliolo; lì vicino, al centro della parete opposta alla porta, c’è un rubinetto dell’acqua sopra un piccolo lavabo circolare. L’acqua è tiepida e torbida, ma riesce a rinfrescarmi. Il massaggio con l’asciugamano mi rinvigorisce. Il sangue stimolato corre nelle vene con un formicolio piacevole. All’improvviso una puntura, come di un ago, mi colpisce il viso. C’è uno spillo nell’asciugamano. Quando lo tolgo, qualcosa di chiaro svolazza per terra. Un biglietto! Con l’orecchio attento ai rumori dei passi, leggo precipitosamente la scrittura a matita: “Distruggi subito dopo che l’hai letto, viene da un amico. Stiamo facendo un buco e tu puoi venire con noi, sappiamo che sei un bravo ragazzo. Stenditi e tieni i tuoi fanali accesi di notte, bada alle viti e agli sgabelli: sono peggio dei tori. La prigione ne è piena e non parlare. Ci vediamo domani. Un vero amico”.
Leggo il biglietto attentamente, più volte. Quello strano gergo mi confonde. Ne sospetto vagamente il significato; evidentemente è stata progettata una fuga. Il cuore mi batte violentemente, mentre ne soppeso la possibilità. Se riuscissi a fuggire… Oh, non devo morire! Perché non ci ho pensato prima? Che azione gloriosa sarebbe questa! Naturalmente metterebbero sottosopra tutto il paese per me. Dovrei nascondermi. Ma che importa? Sarei libero. E che tremendo effetto! Sarebbe una grande propaganda: la gente diverrebbe più sensibile, e certo, avrei nuove possibilità…
L’ombra del sospetto si insinua nei miei pensieri pieni di speranza, sommergendomi nella disperazione. Forse è una trappola! Non conosco chi ha scritto il biglietto. Mi dimostrerei un ben sciocco cospiratore se cadessi in trappola così facilmente. Ma perché dovrebbero ingannarmi? E chi? Qualche guardia? A che scopo? Ma è gente così spregevole, così violenta. Quella guardia alta – il Vice l’ha chiamato Fellings – lui mi sembra abbia qualcosa contro di me. Potrebbe essere opera sua, per mettermi nei guai. Davvero si presterebbe ad una cosa simile? Queste cose succedono – sono accadute in Russia. E lui assomiglia ad un provocatore, quel mascalzone. No, non mi prenderà in quel modo. Devo rileggermi il biglietto. Ci sono tanti termini che non comprendo. Dovrei “tenere i miei fanali accesi”. Che fanali? Non ce ne sono in cella; dove devo andarli a cercare? E a quali “viti” devo badare? E gli “sgabelli” – qui dentro ho solo una sedia. Perché dovrei badare ad essa? Forse può essere utile come arma. No, deve voler dire qualcos’altro. Il biglietto dice che si rifarà vivo domani. Riuscirò a sapere dal suo aspetto se ci si può fidare di lui. Sì, sì, questa è la soluzione migliore. Aspetterò fino a domani. Oh, vorrei che fosse adesso!

LA VOLONTÀ DI VIVERE
Le giornate si trascinano senza fine nella semioscurità della cella. Il gong regola la mia vita con deprimente monotonia. Ma il tenore dei miei pensieri ha preso un’altra piega col biglietto misterioso. Inutilmente ho atteso che mi si presentasse il suo autore – tuttavia la possibilità di fuggire ha originato la speranza. La volontà di vivere comincia a rafforzarsi, divenendo sempre più pressante man mano che i giorni trascorrono. Mi stupisco a riflettere come la mia mente indugi sempre più raramente sul suicidio, sempre più superficialmente. Il Pensiero dell’autodistruzione mi riempie di sgomento. Qualsiasi possibilità di fuga dev’essere ben approfondita, rassicuro la mia coscienza tormentata. Sicuramente non ho paura della morte – quando arriverà il momento. Ma la fretta sarebbe imprudente; Peggio, del tutto inutile. In realtà è mio dovere di rivoluzionario soppesare qualsiasi possibilità di far propaganda: la fuga mi offrirebbe molte possibilità di servire la Causa. È stato avventato da parte mia condannare quel Jamestown. Mi sono addirittura risentito per il suo apparentemente imperdonabile indugio a suicidarsi, tenendo conto dell’intollerabile condanna a diciassette anni. Davvero fui ingiusto: Jamestown, senza dubbio, sta facendo i suoi piani. Ci vuol tempo per maturare una tale impresa: ci si deve innanzitutto familiarizzare col nuovo ambiente, rendere sopportabile a se stessi il carcere. Finora non ho avuto che poche occasioni di farlo. Evidentemente è la politica dell’autorità a tenermi in isolamento e quindi all’oscuro del complicato sistema di passaggi, doppi cancelli e corridoi sinuosi. Nel caso fossi nella possibilità di lasciare questo posto, mi sarebbe difficile trovare la via d’uscita senza aiuto… ah se avessi l’anello magico che mi son sognato l’altra notte! Era un talismano portentoso, datomi dalla dea della Rivoluzione Sociale. La vedevo molto chiaramente: alta e severa, il bagliore dell’amore onnipotente nel suo sguardo. Era vicina al mio letto, con un sorriso di incomparabile dolcezza che copriva il suo comportamento regale, il braccio disteso verso di me, benedicente e indicandomi il muro scuro. Avidamente guardai nella direzione del braccio teso – là, in una crepa, qualcosa di luminoso brillava con luccichio della rugiada fresca in una giornata di sole. Era un anello a forma di cuore con una fessura al centro. I suoi raggi scintillanti nobilitavano ‘angolo buio con l’aureola di una grande speranza. D’un balzo lo afferrai mi misi l’anello quando, oh! i raggi appiccarono il fuoco facendo immediatamente scomparire il ferro e l’acciaio e cancellando la prigione coi suoi cuori, schiudendomi davanti allo sguardo rapito campi verdi e boschi e uomini donne gioiosamente al lavoro nella luce della libertà. E poi… qualcosa scacciò la visione.
Oh, se avessi ora quel cuore magico! Per fuggire, per essere libero! Forse però il mio sconosciuto amico manterrà la parola. Starà probabilmente mettendo a punto i suoi piani o forse è più sicuro che lui non mi incontri. Se i miei compagni potessero aiutarmi, la mia fuga sarebbe realizzabile. Ma la ragazza e Fedya non ne vedranno l’opportunità. Non c’è dubbio che si tengano dallo scrivermi perché attendono di sapere che mi sono suicidato. Come dev’essere sconvolta la Ragazza! Tuttavia avrebbe dovuto scrivere: già son quattro giorni dal mio trasferimento nel penitenziario. Ogni giorno tendo ansiosamente l’arrivo del Cappellano, che distribuisce la posta. Eccolo! Il rapido passo è divenuto familiare al mio orecchio. In ansia seguo tutti i suoi movimenti; riconosco la porta sbattuta forte e lo scatto della serratura. I corti passi percuotono la passerella che collega la rotonda supera con i bracci delle celle e passano lungo il corridoio. Il suono solitario dei passi nel silenzio mi fanno venire in mente la timida fretta di qualcuno e attraversi un cimitero di notte. Adesso il Cappellano si ferma: sta contando il numero dei blocco di legno appeso fuori della cella con quello la lettera. Qualcuno non ha dimenticato un amico in prigione. I passi proseguono e si affievoliscono quando l’uomo gira l’angolo opposto. Percorre il braccio dall’altra parte, sale sul braccio superiore ed infine raggiunge il piano su cui è la mia cella. Il cuore mi batte più veloce mentre il rumore s’ avvicina: dev’esserci sicuramente una lettera per me. Si sta avvicinando alla mia cella – si ferma. Non posso ancora vederlo, ma so che sta confrontando i numeri. Forse la lettera è per me. Spero che il Cappellano non faccia errori: Raggio K, Cella 6, Numero A 7. Qualcosa di chiaro scivola sotto la porta della cella vicina e il veloce, corto passo mi ha superato. Niente posta per me! Altre ventiquattr’ore devono trascorrere prima che possa ricevere una lettera, e poi, un’altra volta, forse, la timida ombra non si fermerà alla mia porta.
Il pensiero della mia condanna a ventidue anni mi porta alla disperazione. Utilizzerei qualsiasi mezzo, per quanto tremendo, per fuggire da quest’inferno, per riguadagnare la libertà! Che cosa mi offrirà dopo quest’esperienza? Avrei le massime possibilità per l’attività rivoluzionaria. Opterei per la Russia. Gli accoliti di Most mi hanno abbandonato. Mi terrò in disparte, ma essi impareranno che cosa è capace di compiere un vero rivoluzionario. Se c’è un rimasuglio di umanità in loro, arrossiranno per il loro atteggiamento meschino verso il mio gesto, per il loro vergognoso comportamento nei miei confronti. Come allora saranno desiderosi di testimoniare la loro amicizia esagerando la confidenza, per pulire la coscienza colpevole! Non dovrei soffrire per mancanza di sostegno finanziario, se tenessi al corrente i nostri ambienti più intimi dei miei progetti al riguardo la futura attività in Russia. Sarebbe magnifico, magnifico! Sst…
È il Cappellano. Forse ha della posta per me, oggi… Può darsi che distrugga le lettere dei miei amici; o probabilmente è colpa del Direttore: tutta la corrispondenza viene esaminata prima nel suo ufficio. Adesso il Cappellano scende a pianterreno. Si ferma. Dev’essere la Cella 2 che riceve posta. Ora sta avvicinandosi. L’ombra è di fronte alla mia porta, – andato!
“Cappellano, un momento, per favore”.
“Chi è?”
“Qui, Cappellano. Cella 6 k.”
“Che c’è, ragazzo mio?”.
“Cappellano, vorrei qualcosa da leggere”.
“Leggere? Beh, abbiamo una splendida biblioteca, ragazzo mio; una bellissima biblioteca. Ti manderò un elenco e potrai avere un libro ogni settimana”.
“Ho saltato il giorno della biblioteca per questo raggio. Dovrò attendere un’altra settimana. Ma mi piacerebbe avere qualcosa da leggere nel frattempo, Cappellano”.
“Tu non lavori, ragazzo mio”.
‘No”
“Hai rifiutato di lavorare?”
“No, non mi è stato assegnato ancora alcun lavoro”.
“Oh, bene, te ne verrà dato uno presto. Abbi pazienza, ragazzo mio”.
“Ma non posso avere qualcosa da leggere adesso?”
“Non c’è una Bibbia nella tua cella?”
“Una Bibbia? Non ci credo a quelle cose, Cappellano”.
“Ragazzo mio, non ti farà male leggerla. Potrebbe giovarti. Leggila, ragazzo mio”.
Per un momento rimango esitante. Un’ idea disperata mi attraversa la mente.
“Va bene, Cappellano, leggerò la Bibbia, ma non mi interessa la versione inglese. Forse lei ne ha una con le note in greco o in latino?”
“Certo, certo, ragazzo mio, tu leggi il latino e il greco?”.
“Sì, ho fatto studi classici”.
Il Cappellano appare impressionato. Si avvicina alla porta, appoggiandosi nella posizione di chi si prepara a sostenere una lunga conversazione. Parliamo dei classici, delle fonti del mio sapere, delle scuole russe, delle condizioni umane. Un uomo interessante ed intelligente, questo Cappellano della prigione, un gran viaggiatore la cui visita in Russia l’aveva impressionato per le grandi possibilità del paese. Infine si rivolge alla guardia: “Lascia che A 7 venga con me”.
Con un’occhiata di sospetto verso di me, l’agente apre la porta. “Devo venire con voi, Cappellano?” chiede.
“No, no. Va tutto bene. Vieni, ragazzo mio”.
Passata la fila delle celle vuote, saliamo le scale fino alla rotonda superiore, alla cui sinistra c’è l’ufficio del Cappellano. Ansioso ed attento, afferro ogni particolare dell’ambiente. Mi sforzo di apparire indifferente, mentre seguo furtivamente ogni movimento del Cappellano, mentre sceglie la chiave della rotonda dal grosso mazzo che tiene in mano ed apre la porta. Un desiderio estremo di libertà mi sta bruciando. Un piano di fuga sta prendendo forma nel mio cervello. Il Cappellano ha con sé tutte le chiavi – vive nella casa del Direttore, collegata al carcere – è così esile -potrei facilmente averne la meglio – non c’è nessuno nella rotonda – gli soffocherei le grida gli prenderei le chiavi…
“Siediti, ragazzo mio. Siediti. Qui ci sono alcuni libri. Dagli un’occhiata. Ho un’altra copia della mia Bibbia personale, con le note. È qui da qualche parte”.
Con sguardo febbrile lo vedo lasciare le chiavi sul tavolo. Una mossa veloce e potrebbero essere mie. Quella grande e pesante, dev’essere quella del cancello. È così grossa – un colpo lo ucciderebbe. Ah, c’è una cassaforte! Il Cappellano ne sta estraendo alcuni libri. Mi volta la schiena. Una spinta e lo chiuderei dentro… Furtivamente, impercettibilmente, mi avvicino al tavolo, gli occhi fissi sulle chiavi. Ora mi curvo sopra di esse, facendo finta di osservare un libro, mentre la mia mano scivola avanti, lentamente, cautamente. In fretta mi ci curvo sopra; il libro aperto nelle mie mani nasconde completamente le chiavi. Le tocco con la mano. Disperatamente afferro il mazzo grande e pesante, il mio braccio si alza lentamente…
“Ragazzo mio, non riesco a trovare quella Bibbia in questo momento, ma ti darò qualche altro libro. Siediti, ragazzo mio. Sono così dispiaciuto per te. lo sono un funzionario dello Stato, ma credo che tu sia stato trattato ingiustamente. La tua condanna è proprio eccessiva. Posso comprendere lo stato d’animo che ha spinto te, un giovane entusiasta, in quest’epoca nevrotica. Era in relazione con Homestead, vero, ragazzo mio?”
Ricado sulla sedia, scosso, spossato. Quella profonda nota di simpatia, la sincerità della voce emozionata – no, no, non posso toccarlo…
Finalmente, posta da New York! Lettere dalla Ragazza e da Fedya. Con un senso di ansia mista a risentimento, un’occhiata alla calligrafia conosciuta. Perché non m’hanno scritto prima? Il senso di attesa si è andato offuscando per la lunga ansia. La Ragazza e il Gemello, il mio più caro, più intimo amico di ieri – ma l’ieri appare tanto distante nel passato, essendo la sua effettiva realtà sommersa nella marea degli avvenimenti tormentosi. C’è un’inflessione di delusione, quasi di amarezza, nella lettera della Ragazza. Il fallimento del mio gesto diminuirà l’effetto morale, insieme al suo valore propagandistico. La situazione è aggravata da Most. A causa del suo atteggiamento denigratorio, i tedeschi rimangono indifferenti. Per buona parte, anche l’ambiente rivoluzionario ebreo è stato influenzato da lui. Il Gemello, in un russo tortuoso, accenna al tentativo di completamento della mia opera, progettato, tuttavia impossibile da realizzare.
Sorrido sprezzantemente al “completamento” che non ha avuto successo. La prospettiva maledettamente sbagliata della Ragazza mi esaspera e rabbiosamente mi irrito per lo stupore pieno di disapprovazione che io sia vivo, che percepisco nelle due lettere.
Rileggo parecchie volte quelle righe. Ogni parola stilla amarezza nel mio spirito. Sono diventato patologicamente sospettoso, o davvero vogliono rimproverarmi per il mio mancato suicidio? Con che diritto? Con impazienza reprimo il sussurro accusatore della mia coscienza, “Col diritto dell’etica rivoluzionaria”. La voglia di vivere scaturisce testarda, ancor più vibrante e categorica a quella sfida implicita.
No, io lotterò e combatterò! Amico o avversario, sapranno che non mi faranno fuori facilmente. Voglio vivere, per fuggire, per vincere!

SILENZIO SPETTRALE
Il silenzio si fa più opprimente, la solitudine insopportabile. Il mio naturale ottimismo è schiacciato da un terrore senza volto. Con pena mi accorgo di perdere l’elasticità del mio passo, la vivacità mentale. Mi sento stanco fisicamente e spiritualmente. Il suono regolare del gong, che annuncia il lavoro o i pasti, accentua la snervante routine. Rintocca inquietante nel silenzio, come il preannuncio di qualche calamità, orrenda e improvvisa. Timori senza forma, ancor più terrificanti perché vaghi, mi riempiono il cuore. Inutilmente cerco di domare i miei pensieri ribelli con la lettura e l’esercizio. Le pareti sono lì, sentinelle immote, circondandomi da ogni lato, finché il movimento diviene una tortura. Nell’oscurità costante della cella senza finestre le lettere danzano davanti ai miei occhi, ora formando figure fantastiche, ora scomparendo in gruppi ed immagini di morte. Le visioni morbose mi affascinano la mente. Il sibilante becco a gas nel corridoio mi attrae irresistibilmente. Ad occhi semichiusi, seguo quella luce tremula. Il suo chiarore che si espande forma un caleidoscopio di disegni multiformi, ora cristallizzandosi in scene della mia gioventù, ora raffigurando la mia vita a New York, con la grottesca illuminazione di quei tragici momenti. Ora la fiamma è colpita da una ventata. Saltella qua e là, rabbiosamente lottando contro l’oscurità attorno. Sbuffa e salta contro il suo avversario, che barcolla, poi avanza con ombra da gigante, minacciando la luce con frenetici gesti sulla parete bianca. Guarda! L’ ombra diviene sempre più grande, fino a “superare i cancelli di ferro che cadono pesantemente dietro di me. ” Sei a casa, adesso “, ghigna la guardia. Io guardo dietro. Il grigio edificio si staglia sopra di me, freddo e severo, e sulla cima la nera figura mi guarda di sottecchi soddisfatta. Le mura mi osservano arcigne. Sembrano umane nella loro crudele immobilità. Le loro enormi braccia torreggiano nella notte, come per schiacciarmi all’istante. Mi sento così piccolo, indicibilmente fragile e indifeso nella solitudine – il soffio del sepolcro è sul mio viso, si avvicina, mi circonda e chiude gli ultimi raggi di luce alla mia vista. Terrorizzato mi fermo… La catena diviene più tesa, i colpi taglienti si abbattono sul mio polso. Barcollo in avanti e mi sveglio sul pavimento della cella. Incubi senza tregua e sogni orribili perseguitano le lunghe notti. Sto con orecchio teso per cogliere il rintocco del gong, che annuncia la partenza dell’oscurità. Ma il nuovo giorno non porta né speranza né gioia. Soffocante come il precedente, privo di interesse come i giorni che verranno dopo, triste in modo infinito e plumbeo: i carrelli sferraglianti col loro carico di pane semicotto; il liquido scuro senza sapore; le file di miseria a strisce che mi passano davanti; i comandi secchi; il passo pesante; e poi – il silenzio di tomba.

Perché continuare questa vana tortura? Nessun vantaggio potrebbe provenire alla Causa dal prolungare quest’agonia. Ogni via di fuga è preclusa; la fortezza è inespugnabile. La buona gente ha generosamente fortificato questa moderna bastiglia; il mondo esterno può dormire in pace, indisturbato per il momento del Calvario. Nessun grido di anima sofferente perforerà questi muri di pietra, ancor meno il cuore dell’uomo. Perché, allora, prolungare l’agonia? Nessuno ci bada, nessuno se ne interessa, se non forse i miei compagni – e loro sono lontani e senza sostegno. Senza sostegno, assolutamente. Ah, se il nostro movimento fosse forte, il nemico non oserebbe commettere tali offese, sapendo che la vendetta rapida e spietata costituirebbe la rappresaglia per l’ingiustizia. Ma il nemico sa che siamo deboli. A nostra eterna vergogna, il massacro di Chicago non è stato ancora vendicato. Vae victis! Le vittime saranno sempre le stesse. Solo la potenza è rispettata; essa sola può influenzare i tiranni. Se avessimo la forza – ma se gli assassinii legali del 1887 non riuscirono a sollevare altro che passiva indignazione, posso aspettarmi sviluppi radicali in conseguenza della mia troppo brutale condanna? È irragionevole. Cinque anni, in effetti,sono passati dalla tragedia di Haymarket. Forse il Popolo ha imparato all’ amara scuola dell’oppressione e della sconfitta. Oh, se il movimento dei lavoratori comprendesse il significato del mio gesto, se il lavoratore capisse i miei scopi e le mie motivazioni, potrebbe venir provocato ad un’ampia protesta, forse ad un’energica rivendicazione. Ah, sì! Ma quando, quando questo ottuso capirà le cose? Quando aprirà gli occhi? Cieco alla sua stessa schiavitù e degradazione, posso aspettarmi che percepisca i torti subìti da altri? E chi può illuminarlo? Nessuno concepisce la verità profondamente e chiaramente come noi anarchici. Persino i socialisti non si azzardano a sostenere l’intera, nuda verità. Essi hanno coperto la Dea della Libertà con una foglia di fico; la religione, la vera fonte della bigotteria e dell’ingiustizia, è stata ufficialmente dichiarata Privatsache. D’ora innanzi questi timidi liberatori del mondo devono badare a non calpestare le orme del pregiudizio e della superstizione. Presto si eleveranno alla rispettabilità borghese, un partito di politicanti “pratici” e dalla “giudiziosa” morale. Che misera caduta dalle vette del Nichilismo che lanciava la sfida ad ogni istituzione in quanto tale, quindi in quanto ingiustizia. In effetti non c’è una sola istituzione nella nostra pseudo civiltà che meriti di esistere. Ma solo gli anarchici osano dichiarare guerra a tutte le forme di ingiustizia, ed essi sono pochi di numero, senza potere. Le divisioni interne, inoltre, aggravano la nostra debolezza; ed ora, anche Most è diventato apostata. I compagni ebrei saranno influenzati dal suo atteggiamento. Rimane solo la Ragazza. Ma ella è nuova del movimento, e quasi sconosciuta. Indubbiamente ha del talento come oratrice, ma è una donna, piuttosto male in salute. In tutto il movimento, non conosco nessuno capace di far propaganda coi fatti, o di un atto di vendetta, eccetto il Gemello. 0 almeno non mi aspetto che alcun altro compagno si assuma il pericoloso compito di liberazione. Il Gemello è un vero rivoluzionario; un po’ impulsivo ed irresponsabile, forse, con propensioni leggermente aristocratiche, tuttavia, assolutamente fidato per compiti rivoluzionari. Ma non ci penserà neanche. Avevamo delle idee così strane del carcere: la vista di un.’uniforme da poliziotto, un arresto, visioni di un pozzo senza fondo, sparizione senza ritorno, come in Russia. Come potrei avviare il discorso su quest’argomento col Gernello? Tutta la corrispondenza passa tra le mani del censore; la mia corrispondenza, soprattutto – in quanto condannato a lunga pena ed anarchico – sarà minuziosamente controllata. Non sembra esserci alcuna possibilità. Sono sepolto vivo in questa tomba di pietra. La fuga è disperata. E quest’agonia di morte vivente – non posso sopportarla…

UN RAGGIO DI LUCE
Desidero moltissimo un po’ di compagnia. Anche la sola vista di un essere umano è un sollievo. Ogni mattino, dopo la colazione, mi metto ad ascoltare attentamente il fruscìo familiare sul pavimento del corridoio: è il vecchio scopino che “pulisce”. La bocca delicata arricciata in un fischio non udibile, il detenuto con un braccio solo muove la scopa con la sinistra, l’estremità del manico premuta contro l’ascella. “Eilà, Aleck! Come stai oggi? È di fronte alla mia cella, dalla parte opposta della parete, la scopa ferma a mezz’aria. Colgo un’occasionale occhiata dei begli occhi azzurri, mentre la sua testa è continuamente in movimento, oscillando da destra a sinistra, attento all’arrivo di una guardia. “Come va, Aleck?” “Oh, non diversamente dal solito”. “So cosa vuoi dire, Aleck, l’ho passato anch’io. Tieni a posto i nervi, e andrà bene, caro mio. Sei ancora giovane, tu”. “Vecchio abbastanza per morire”, replico, amaro. “Sst! Non parlare così forte. La vite ha lunghe orecchie”. “La vite?”. Una speranza selvaggia scuote il mio cuore. La “vite! ” Quell’incomprensibile termine nel biglietto misterioso – forse l’ha scritta costui. In attesa ansiosa, guardo lo scopino. La schiena voltata verso di me, la testa curva, si mette freneticamente a muovere la scopa col veloce, breve movimento dell’unica mano. “Sst, sussurra, senza voltarsi, appena supera la linea della mia cella. Ascolto attento. Non un suono, salvo il movimento regolare della scopa. Ma il più esperto orecchio del vecchio detenuto non sbagliava. Una lunga ombra attraversa la galleria. La guardia alta dagli occhi cattivi era alla mia porta. “Cosa avevi da dire?” chiede. “Non dicevo nulla”. “Non negare. Torna dentro il tuo buco. Non stare vicino alla porta, capito?” Rivolto verso il fondo del corridoio, la guardia grida: “Ehi tu, sciancato! Stavi parlando, vero?” “No, signore”. “Non t’azzardare a mentirmi. Non è vero”. “Giuro su Dio che non parlavo”. “Bene, se ti becco a parlare con quel figlio di…. ti sistemo io”.
Il fruscio della scopa è cessato. Lo scopino sta spolverando le porte. I colpi dei piumino vengono più vicino. L’uomo si ferma ancora dinanzi alla mia porta, la sua testa gira a destra e a sinistra, mentre pulisce accuratamente. “Aleck”, sussurra, “stà attento a quella vite. È un… Hai visto come m’è saltato addosso?” “Che cosa ti farebbe se ti vedesse parlare con me?”. “Mi sbatterebbe nel buco, nel sotterraneo, sai. Perderei anche il lavoro”. :’Allora, è meglio che tu non parli con me”. ‘Oh, non mi fa paura, quello. Non può beccarmi, non lui. Non mi ha visto parlare; ha solo tentato. Ma non può fare il furbo con me, comunque”. “Ma stai attento”. “Va tutto bene. Se n’è andato in cortile, ora. Non ha incarichi nel blocco, comunque, se non per i pasti. Sta solo cercando rogne. È un farabutto, quel Corubread Toni”. “Chi?” “Quella vite di un Fellings. Lo chiamiamo Focaccia Tom perché rubacchia la nostra focaccia di granoturco”. “Che focaccia di granoturco?” “Ha, ha! Il martedì e il sabato ci danno una focaccia di farina di granoturco per colazione. Non è niente di speciale, ma meglio dei funghi. Sai cosa sono i funghi? Non conosci il gergo, vero? I funghi sono il pane”. Sorride compiaciuto dei suo riuscito bon mot. Di colpo, tende le orecchie e con un rapido gesto di avvertimento, si allontana dalla mia cella. Dopo qualche minuto ritorna, bisbigliando: “Tutto OK. Non c’è nessuno. Tom è stato chiamato in officina. Non sarà di ritorno prima di pranzo, grazie al cielo. Solo il Capo è nel blocco, il vecchio Mitchell, di guardia a quest’ala. È il Blocco Nord”. “Le donne stanno al Blocco Sud?” “No. Le ragazze hanno un edificio speciale. Il Blocco Sud comprende le nuove celle, appena finite. Già zeppe e il pesce fresco arriva ogni giorno. Il tribunale a Pittsburgh lavora molto. Conosci nessuno qui dentro?” “Be’, fai conoscenze, Aleck. Ti darà qualcosa da fare. Immagino che tu ne abbia bisogno. So come ti senti, ragazzo. Credevo di morire quando mi chiusero qui dentro. Terribile. Un tale mi consigliò di darmi da fare e farmi degli amici. Credevo che mi volesse prendere in giro, ma era un bravo ragazzo, davvero. Fatti qualche amico, Aleck; diventerai pazzo, se no. Devo andarmene, adesso. Ci vediamo. Il mio nome è Wingle”. “Wingie?” ‘Mi chiamano così. Sono stato soldato; fui a Bull Run. Correva tanto forte che persi il braccio destro, ha, ha, ha! Arrivederci”. Avidamente non vedo l’ora di scambiare quattro chiacchiere con Wingie. Sono gli unici momenti di sollievo nella monotonia della mia vita. Ma i giorni passano senza poter scambiare una parola. Silenzioso, il detenuto mutilato mi passa davanti, apparentemente dimentico della mia presenza, mentre col cuore che pulsa scruto tra le sbarre attendendo un cenno di saluto. Solamente una strizzatina d’occhi veloce mi rassicura e mi avverte che è il secondino che vigila. Gradatamente l’ingegnosità di Wingie ci permette più frequenti scambi di osservazione e raccolgo molte informazioni sulla prigione. I detenuti sono alla mia parte, dice Wingie. Loro sanno che io sono “un bravo ragazzo”. Sono sicuro di trovare degli amici, ma devo stare attento ai “piccioni da chiamo”, che riferiscono qualsiasi cosa alle guardie. Wingie conosce bene la storia di ogni secondino. La maggior parte di loro è “marcia”, mi assicura. Soprattutto il Capitano del turno notturno è “feroce e un ex moscà “. Solo tre “viti” sono di turno di notte per ogni blocco, ma ci sono un centinaio di genti “che girano nel carcere” di giorno. Wingie promette di essere amico di darmi altre informazioni.

OFFICINA
Sto in fila con una dozzina di detenuti nell’anticarnera dell’ ufficio del Vice. Mi sento umiliato appena vedo,per la prima volta,in piena luce, i miei vestiti a strisce. Sono al livello di una bestia! La mia prima impressione di un detenuto in uniforme è penosamente vivida: assomiglia ad un pericoloso bruto. In qualche modo l’immagine nella mia mente è associata ad una tigre selvaggia – ed ora anch’ io do quell’impressione. La porta della rotonda si apre, lasciando passare l’alta allampanata figura del vicedirettore. “Su le mani!” Il Vice lentamente passa lungo la fila osservando una mano qui ed una là. Divide gli uomini in gruppi: poi, indicando quello in cui sono anch’ io, dice con voce femminea: “Nessuno storpio. Guardie, portateli, ehm, ehm, al Numero Sette. Poi Sig. Hoods”. “Allineati! Avanti, march!” Il mio rancore verso quel modo di trattarci come una mandria lascia il posto all’attesa ansiosa. Finalmente mi vien concesso di lavorare! Penso alla dislocazione del “Numero Sette” ed alle possibilità di fuga. Affiancati dai secondini, attraversiamo il cortile della prigione a file serrate. Le sentinelle alle mura, coi fucili appoggiati mollemente sul braccio curvo, guardano la fila a strisce che si svolge come un serpente lungo lo spazio aperto. Il cortile grande e pulito, il prato ben tenuto ed invitante. La prima boccata di aria fresca in due settimane stimola violentemente il mio desiderio di libertà. Forse l’officina offrirà una possibilità di fuga. Il pensiero eccita il mio spirito di osservazione. Chiusi a nord, est e sud dal muro di pietra, i due blocchi del carcere formano un parallelogrammo, racchiudente le officine, la cucina, l’ospedale e, all’estremità sud, il quartiere delle donne. “Rompete le file!” Entriamo al “Numero Sette”, una fabbrica di stuoie. Con difficoltà distinguo gli oggetti nella sala scura, dal basso soffitto con le finestre piccole, sbarrate. L’atmosfera è impregnata di polvere; il frastuono dei telai è assordante. Una cappa di rumore soffoca l’ambiente. Il guardiano incaricato mi assegna ad una macchina occupata da un prigioniero magro nelle sue strisce. “Jim, mostragli che cosa deve fare”. Un lungo periodo di tempo trascorre, senza che Jim mi badi nemmeno. Curvo sulla macchina, sembra assorto nel lavoro, le sue mani muovono abilmente la navetta, col piede sul pedale. Poi bisbiglia, rauco: “Pesce fresco?” “Cosa hai detto?” “Tu, sei qui da molto?’ “Due settimane”. “Quanto devi fare?” “Ventidue anni”. “Vuoi prendermi in giro” “Sul serio”. “Davvero? Perbacco!” La navetta va e viene. Jim rimane in silenzio per un po’, poi mi chiede, all’ improvviso: “Perché ti hanno messo qui?” “Non so”. “Ti sei ribellato?” ” No”. “Allora sei un pezzo grosso”. “Perché dici così?” “Questa qui è un’officina tremenda. Non ci mettono mai un tipo ubbidiente a meno che non sia un pezzo grosso, oppure se vogliono spremerlo un po'”. “Come ci sei capitato, tu?” “I o? Dio li maledica… mi hanno punito. Vedi questo?” Mi indica un profondo sfregio sulla tempia. “Una discussione con le viti. Mi hanno quasi accecato. È stato quel grosso toro laggiù, Pete Hoods. Dovrò occuparmi anche di lui, certo, maledetta la sua sudicia anima. Lo ucciderò. Perdio se lo farò. Comunque tirerò le cuoia qui dentro”. “Forse non è così grave”, cerco di incoraggiarlo. “Ah no, eh? Che cosa ne sai tu? Non me la passo bene, e sputo sangue ogni notte. Questa polvere mi uccide. E ucciderà anche te, maledettamente presto”. Come per sottolineare le sue parole, è squassato da un accesso di tosse, lungo e profondo. La navetta nel frattempo è rimasta impigliata nelle frange dello stuoino. Riprendendo respiro, Jim afferra il coltello al suo fianco e con pochi abili colpi libera il metallo. Avanti ed indietro continua ad andare quell’oggetto luccicante e Jim è di nuovo assorbito nel suo lavoro. Coi muscoli tesi, il suo lungo corpo quasi tirato attraverso il telaio,tirando e spingendo ritmicamente, Jim mette ogni sforzo per sbrigarsi a completare il compito giornaliero. “Che succede qui?” Il secondino si avvicina. “Come va?” chiede, indicandomi con un cenno del capo. “Lui va bene. Ma, Hoods, questo non è un posto per il ragazzo. S’è preso ventuno anni”. La testa senza forza rotolò da un lato, sbattendo contro il piede del telaio. “Chiudi quella maledetta bocca! ” replica la guardia, rabbiosa. Il tisico si curva sul suo lavoro, guardando spaventato l’asta di misurazione del secondino. Quando la guardia si gira per andarsene, Jim protesta: “Sig. Hoods, ho perso del tempo per insegnargli. Non le dispiacerebbe togliere qualcosa? La roba da fare è più di quanto possa farne e io sono malato”. “Stupidaggini. Non hai un bel niente, Jim. Sei solo pigro, ecco che cosa sei. Non simulare, adesso. Non ci riesci con me”. Mentre gli stavo spiegando l’accaduto, il dottore mi guardava curiosamente. A mezzogiorno l’incaricato mi chiama presso di lui. “Tu sei nuovo, qui” Poi chiese il mio nome. “Oh, il famoso caso” sorrise. “Conosco molto bene”, mi dice, “non stare ad ascoltare Jim.Voleva fare il duro, ma noi gli abbiamo fatto cambiare atteggiamento. Adesso è a posto. Tu rimarrai qui per molto tempo; bada di comportarti bene. Questo non è un luogo di divertimenti, capito?” Mentre sto per riprendere il mio posto nella fila che si era formata per ritornare in cella per il pranzo, mi richiama: “Dì, Aleck, faresti meglio a tener d’occhio il tuo compagno Jim. È un po’ strambo, sai”. Fa un gesto rotatorio col dito vicino alla testa, in modo significativo. “Sì… siamo a corto di uomini”. L’officina sta cominciando a minarmi la salute; la polvere mi ha irritato la gola e la vista mi si sta indebolendo nell’oscurità costante. L’incaricato ha ripetutamente espresso insoddisfazione per il mio lento apprendimento del lavoro. “Ti darò un’altra possibilità”, mi ha avvertito ieri, “e se non fai un buono zerbino per la prossima settimana, te ne ritorni nel buco. “Ha rimproverato aspramente Jim per la sua inefficienza come istruttore. Quando il tisico stava per ribattere, gli prese un attacco di tosse. La faccia devastata divenne giallo grigio, ma di colpo sembrò riprendersi e continuò il lavoro. All’improvviso lo vidi afferrarsi al telaio, uno sguardo terrorizzato dipinto sul suo viso, cominciò ad ansimare in cerca di aria, poi un fiotto di sangue scuro gli uscì dalla bocca e Jim cadde sul pavimento. scopo. Il misurato ronzio dei telai continuava. Il detenuto che lavorava alla macchina vicina gettò un’occhiata furtiva alla figura distesa a terra e si curvò ancor di più sul suo lavoro. Jim giacque immoto, il sangue tingendo di rosso il pavimento. Corsi dalla guardia. “Sig. Hoods, Jim, è “. “Torna al tuo posto, maledetto!” gridò. “Come osi lasciarlo senza il mio permesso?”

“Volevo solo…”

“Via, chiaro?” ruggì, alzando il pesante bastone.
Ritornai al mio posto. Jim era sempre a terra, le labbra aperte, il viso cenerognolo. Lentamente, con passo misurato, il secondino si avvicinò.

“Che succede qui?”

Indicai Jim. La guardia diede un’occhiata all’uomo svenuto, poi toccò leggermente la faccia sanguinante con il piede.

“Alzati, Jim, alzati”.

La testa senza forza rotolò da un lato, sbattendo contro il piede del telaio.

‘Forse non simula”, borbottò la guardia. Poi mi puntò contro l’indice,
minaccioso: “Non lasciare mai il tuo posto senza ordini. Ricordatelo!”

Dopo un lungo periodo di tempo, che mi fece credere che Jim era stato dimenticato, arrivò il dottore. Era il Sig. Rankin, il vecchio medico del carcere, un uomo piccolo, tarchiato oltre la mezza età, con un bagliore divertito nello sguardo. Ordinò di portare in infermeria il detenuto ammalato. “Qualcuno ha visto cadere quest’uomo?” domandò,

“Sì, costui” replicò la guardia, indicandomi.

Mentre gli stavo spiegando l’accaduto, il dottore mi guardava curiosamente. Poi chiese il mio nome. “Oh, il famoso caso” sorrise. “Conosco molto bene il Sig. Frick. In fondo un uomo non tanto cattivo. Ma voi sarete trattato bene qui, Berkman. Questa è un’istituzione democratica, sapete. Comunque, che cosa vi è successo agli occhi? Sono infiammati. Sono sempre così?”

“Solamente da quando lavoro in questo laboratorio”.

“Oh, sta benissimo, dottore” s’intromise la guardia. “È qui solamente da una settimana”.

Rankin gettò uno sguardo canzonatorio alla guardia.

“Lo volete qui?”

“Sì… siamo a corto di uomini”.

“Bene, io sono il medico, Sig. Hoods”. Poi, rivolgendosi a me, aggiunse: ‘Fatevi mettere questa mattina nella lista dei malati”.

La visita del dottore ha portato al mio trasferimento al settore maglieria. Il cambiamento mi ha ridato nuova speranza. Un reparto disciplinare, cui sono generalmente assegnati i “casi difficili” – detenuti ai primi stadi di alienazione mentale, o eccezionalmente insubordinati – l’officina di stuoini è il posto di sorveglianza speciale e della più severa disciplina. È l’officina più controllata, da cui la fuga è impossibile. Ma nel settore maglieria, un recente apporto all’industria locale, potrei trovare l’occasione favorevole. Ci vorrà tempo, naturalmente; ma la mia pazienza sarà adeguata al grande scopo. Le condizioni di lavoro, inoltre sono più
favorevoli: l’ambiente è luminoso ed areato, la disciplina non così opprimente. La mia miopia mi ha assicurato l’esenzione dal lavoro alle macchine. Il vice all’inizio insisteva che la mia vista era “sufficientemente buona” da vedere i numerosi aghi della macchina da maglieria. È vero, li potevo vedere; ma non tanto distintamente da poter inserire in modo efficace le trame iniziali. L’ammettere la capacità parziale avrebbe significato, ritenevo, che mi avrebbero ordinato di produrre il lavoro stabilito; e il lavoro non terminato o sbagliato, sarebbe stato punito severamente. La necessità mi portò al sotterfugio: assicurai la mia assoluta incapacità a distinguere gli aghi. Poiché ripetute minacce di punizione non riuscirono a mutare la mia decisione, mi fu assegnato il relativamente più facile lavoro di “voltare” le calze. Il lavoro, sebbene ripetitivo, non è impegnativo. Consiste nel raccogliere insieme i manufatti lavorati dalle macchine di maglieria, da cui il prodotto esce senza piedi. lo porto il mucchio sulla tavola che ha un montante di ferro, alto all’incirca diciotto pollici, sormontato da un piccolo disco capovolto. Su questo strumento le calze vengono voltate infilando l’articolo sul montante, poi rapidamente sfilandolo. La maglia così “girata” è portata verso la macchina che la annoda, con cui il prodotto è ultimato e mi viene rimandato indietro, e ancora dev’essere girato, pronto per essere confezionato e spedito.

I giorni e le settimane trascorrono in modo monotono. La pratica mi dà una gran destrezza nel lavoro, ma le ore di duro lavoro si trascinano pesantemente. Cerco di accelerare i tempi sforzandomi di prendere interesse nel lavoro. Conto le calze che giro, i movimenti richiesti per ogni operazione e la quantità realizzata in un dato periodo di tempo. Ma nonostante questi sforzi, la mia mente ritorna costantemente su argomenti
abituali: i miei amici e la propaganda; la terribile ingiustizia della mia condanna eccessiva; suicidio e fuga.

Le notti sono senza riposo. Oppresso da un peso indefinito, o tormentato dal terrore, mi risveglio di soprassalto, ansimante e spaventato, per provare il momentaneo sollievo del pericolo passato. Ma il momento successivo sono schiacciato dalla coscienza del mondo circostante, e mi rituffo nell’ansia e nella disperazione, impotente, senza speranza.

Così il giorno succede alla notte e la notte succede al giorno, nella lotta senza fine della speranza e dello scoraggiamento, della vita e della morte, tra il tono estremamente placido dei miei incubi di Pennsylvania.

[…]

PERSECUZIONE
La sofferenza ed il pericolo costante sono dei rapidi maestri. Nei tre mesi dì vita in penitenziario ho imparato molte cose. Non so se le vaghe paure immaginate dalla mia inesperienza fossero più terrificanti della realtà dell’esistenza carceraria.

Sotto un aspetto, soprattutto, la realtà è una fonte di amarezza e di costante irritazione. Nonostante tutti i terrori, forse per causa loro, avevo sempre ritenuto il carcere un luogo dove, in un certo modo, la natura ridiventa se stessa: le differenze sociali sono abolite, le barriere artificiali distrutte; nessun bisogno di nascondere i propri pensieri ed emozioni; ognuno può essere se stesso, lasciando ogni ipocrisia ed artificiosità ai cancelli della prigione. Ma com’è differente questa realtà! È piena di inganni, di falsità e di fariseismo – un contrappunto peggiorativo del mondo esterno. L’adulatore, il calunniatore, lo spione – questa gente trova qui dentro suolo fertile. L’astio dI una guardia vuoi dire sciagura, che può essere scansata solo strisciando e adulando, e il servilismo serve per avere un lavoro più facile. Lo spirito di ipocrisia a strisce piagnucola la propria conversione, nelle orecchie soddisfatte delle dame cristiane, facendo attenzione a non venir sorpresi senza libretto di preghiere o senza Bibbia – e subito la devozione simulata assicura il perdono, per la gioia degli angeli, per il ritorno del peccatore all’ovile. Queste scene mi disgustano.

Le guardie rendono immediatamente evidente la realtà ai nuovi ospiti: protestare contro un’ingiustizia è inutile e pericoloso. Ieri in officina sono stato testimone di un incidente caratteristico – una lite tra Johnny Davis e Jack Bradford, tutt’e due arrivati da poco e ancora dei ragazzi. Johnny, un tipo dall’aria maschia, lavora a una macchina per maglieria, a pochi passi dalla mia tavola. Dalla parte opposta è Jack, la cui precedente esperIenza in un riformatorio l’ha “fatto furbo”, come dice. Il mio soggiorno di tre mesi mi ha insegnato l’arte di conversare con un quasi impercettibile movimento delle labbra. In questo modo ho saputo da Johnny che Bradford gli sottrae la roba finita, facendogli prendere numerose punizioni per la lentezza nel lavoro. Sperando di fare cessare i furti, Johnny si è lamentato col guardiano, pur senza accusare Jack. Ma la guardia ha ignorato il reclamo e ha continuato a riprendere il giovane. Poi Johnny venne mandato nel sotterraneo. Ieri mattina ritornò al lavoro. Il cambiamento in quel ragazzo rubicondo era stupefacente: pallido e cogli occhi scavati, camminava con passo debole ed esitante. Appena prese il suo posto alla macchina, lo sentii dire alla guardia:

“Sig. Cosson, per favore mettetemi da qualche altra parte”.

“Perché?” domandò la guardia.

“Non posso lavorare qui. Lavorerò ad un’altra macchina, per favore, Sig. Cosson”.

“Perché non puoi farlo lì?”

“Mi portano via le calze”.

“Oh, ricomincI con la solita storia, eh? Vuoi tornare nel buco?”

“Non potrei più starci in quel buco, Sig. Cosson, lo giuro su Dio. Ma qui mi rubano le calze”.

“Ti rubano un cavolo! Chi ti ruba le tue calze, eh? Non mi prendere in giro ancora. Nessuno può portarti via le calze sotto i miei occhi. Và a lavorare, adesso, e faresti meglio a fare il tuo dovere, capito?”

Nel pomeriggio sul tardi, quando fu fatta la conta, Johnny risultò con diciotto paia in meno. Bradford era in supero.

Vidi Cosson avvicinarsi a Johnny.

“Ehi, trenta, macchina trenta” urlò. “Non vuoi lavorare, e li? Mettiti giacca e berretto”.

Parole fatali! Significavano un immediato rapporto al vice e l’inevitabile condanna al sotterraneo.

“Oh, Sig. Cosson”, protestò Johnny, “non è colpa mia, davvero”.

“Ah, no, eh? Di chi è la colpa, mia?”

Johnny esitò. I suoi occhi si abbassarono, poi si fissarono su Bradford, che evitò accuratamente di incontrarli.

“Non posso fare la spia”, disse, calmo.

“Oh, Cristo! Non hai proprio niente da far la spia. Mettiti giacca e berretto”.

Johnny passò la notte nel sotterraneo. Stamattina ritornò di sopra, con le guance ancor più incavate, gli occhi ancor più infossati. Lavorò con disperata energia. Faticò duramente, furiosamente, lo sguardo sempre attento al mucchio crescente di calze. Di tanto in tanto gettava un’occhiata a Bradford, che, fiducioso nel favore della guardia, scambiava l’occhiata d’odio con un malizioso ammiccare dell’occhio sinistro.

Una volta Johnny, senza fermarsi nel suo lavoro, voltò un po’ la testa verso di me. Gli sorrisi in modo incoraggiante ed in quello stesso istante vidi la mano di Jack allungarsi attraverso il tavolo ed afferrare lestamente una manciata di calze di Johnny. Subito un grido penetrante gettò scompiglio nell’officina. Con fatica divisero il ragazzo infuriato da Bradford caduto a terra. Tutti e due i detenuti vennero portati dal vice per essere puniti, con la Guardia Anziana Cosson come unico testimone.

Impazientemente attesi il risultato. Attraverso la finestra aperta vidi tornare il secondino. Entrò nell’officina con un sorriso all’angolo della bocca. Decisi di parlargli quando mi passò vicino.

“Sig. Cosson”, dissi con ostentata cortesia, “posso farvi una domanda?”

“Ma certo, Burk, non ti mangio mica. Spara!”

“Che cosa ne è dei ragazzi?”

“Johnny s’è beccato dieci giorni di buco. Un po’ salato, eh? Vedi, è stato lui a cominciare il litigio, perché non aveva voglia di lavorare. Oh, sono più furbo io di lui. Non possono ingannarmi così facilmente, vero, Burk?”

“Be’, direi di no, Sig. Cosson. Avete visto com’è, iniziata la baruffa?”

“No. Ma Johnny ha ammesso di aver colpito Bradford per primo. È sufficiente, lo sai. Trad ritornerà in officina domani. L’ho tirato fuori bene, come vedi; è un buon lavoratore, fa sempre più del suo lavoro. Ha perso il pranzo. Credo che lo sopporterà. Non si perde molto, vero, Burk?”

“No, non molto”, ammetto. “Ma, Sig. Cosson, era colpa di Bradford”.

“Cioè?” domandò la guardia.

“Ha rubato le calze di Johnny”.

“Non l’hai visto, tu”.

“Sì, Sig. Cosson. L’ho visto…”

“Senti, Burk. È tutto a posto. Johnny non è un bravo ragazzo, comunque; è troppo insolente. Faresti meglio a non raccontare niente di tutto questo, chiaro? Il vice è d’accordo con me”.

La tremenda ingiustizia mi tormenta. Povero Johnny, è ormai da quattro giorni nel sotterraneo. Per la terza volta, e tuttavia completamente innocente. Il sangue mi ribolle al pensiero del feroce trattamento e della perfidia della guardia. È mio dovere di rivoluzionario stare dalla parte dei perseguitati. Sì, farò così. Ma come fare in questo caso? Reclamare contro Cosson pare sia assolutamente inutile. E la guardia, informata del mio atteggiamento, mi renderebbe la vita impossibile: la sua autorità nell’officina è assoluta.

Vari progetti che rimesto dentro di me si rivelano, ad un’analisi più approfondita, inattuabili. Considerazioni di interesse personale si scontrano contro il mio senso del dovere. L’immagine di Johnny nel sotterraneo, la sua macchina ferma e il sorriso trionfante di Bradford, tiene sveglia la coscienza dell’accusa, finché il silenzio diviene insopportabile. Decido di parlare al vicedirettore alla prima occasione.

Parecchi giorni passano. Spesso vengo preso dai dubbi: è opportuno parlarne al vice? Non può giovare a Johnny: mi metterà nei pasticci. Ma subito dopo mi vergogno della mia debolezza. Mi ritorna in mente l’ammirato eroe della mia giovinezza, il famoso Mishkin. Con un senso opprimente della mia impotenza, rivedo i gesti coraggiosi di Hippolyte Nikitich. Che uomo! Con la sua unica mano cercò di liberare Chernishevsky dalla prigione. Ah, la maledizione della umiliazione! Se non fosse stato per quello, Mishkin ci sarebbe riuscito e il grande ispiratore della gioventù russa sarebbe stato restituito al mondo. Indugio sui particolari della fuga quasi riuscita, la lotta di Mishkin coi cosacchi che lo inseguivano, il suo arresto, e il suo grande discorso durante il processo. Condannato a dieci anni di lavori forzati nelle miniere della Siberia, sfidò il tiranno russo con la sua orazione funebre sulla tomba di Dmokhvsky, e la sua audacia gli costò altri quindici anni di katorga. Ricostruisco nei particolari i suoi ripetuti tentativi di evasione, il trasferimento del temibile prigioniero nella fortezza Petropavloskaia e quindi nella tremenda prigione di Schlusselburg, dove Mishkin affrontò la morte vendicando i maltrattamenti dei suoi compagni su un alto ufficiale del governo. Ali! così agiscono i rivoluzionari; e io – certo, sono deciso. Nessun pericolo suggellerà le mie labbra contro le offese e l’ingiustizia.

Finalmente ho un’occasione. Il vice entra nell’officina. Alto e grigio, un po’ curvo, con la testa in avanti, assomiglia ad un lupo che segue la traccia.

“Sig. McPane, un momento, per favore”.

“Ritengo che Johnny Davis stia subendo una punizione ingiusta”.

“Lo credi, ehm, ehm. E chi è questo innocente Johnny, ehm, ehm, Davis?”

Le sue dita tambureggiano nervose sul tavolo; mi squadra con occhi sprezzanti, sospettosi.

“Macchina trenta, vice”.

“Ah, sì; macchina trenta; ehm, ehm, Reddy Davis. Ehm, ha avuto un litigio”.

“Quell’altro gli rubava le calze. L’ho visto io, Sig. McPane”.

“Bene, bene. E come mai, ehm, ehm, l’hai visto, mio caro giovanotto? Dunque ammetti, ehm, ehm, che non stavi impegnandoti, ehm, ehm, nel tuo lavoro. Questo è male, ehm, molto male. Sig. Cosson!”

La guardia gli corre incontro.

“Sig. Cosson, quest’uomo vi ha, ehm, ehm, accusato. Prigioniero, non interrompermi. Ehm, qual è il tuo numero?”

“Sig. Cosson, A 7 fa un ehm, reclamo contro la guardia ehm, responsabile di quest’officina. Per favore, ehm, ehm, se lo annoti”.

Si misero tutti e due da una parte, parlottando a bassa voce. Le parole “disubbidiente”, “ragazzino”, giungono alle mie orecchie. Il vice annuisce alla guardia, i suoi occhi d’acciaio puntano su di me con malevolenza.

Mi sento disperato, senza amici. La consolazione del saluto affettuoso di Wingie mi manca. Il mio povero amico è nei guai. Da brani di conversazione nell’officina ho messo insieme tutta la storia. Dutch-Adams, un detenuto che è alla sua terza reclusione è lo spione favorito del vice, ha perso la sua razione di tabacco di questo mese per una scommessa su un pugile. Domandò che Wingie, che era quello che teneva le scommesse, dividesse la vincita con lui. Infuriato per il diniego, Dutch accusò il mio amico di giocare d’azzardo. L’improvvisa perquisizione della cella di Wingie portò alla luce il tabacco, così dimostrando in apparenza la fondatezza delle accuse. Wingie fu mandato nel sotterraneo. Ma dopo espiata la pena di cinque giorni il mio amico non rientrò nella sua vecchia cella ed io venni a sapere che era stato condannato all’isolamento per aver rifiutato di denunciare la gente che gli aveva affidato i soldi.

Il destino di Wingie mi tormenta. Il mio povero caro amico sta crollando sotto gli effetti della terribile punizione. Stamattina, accadendomi di passare davanti alla sua cella, lo chiamai, ma non mi rispose. Forse non mi aveva sentito, pensai. Con impazienza attesi il ritorno al blocco per il pranzo. “Ehi, Wingie!” chiamai. Era sulla porta, fissando lo sguardo tra le sbarre. mi fissava freddamente,con occhi vuoti,senza espressione. “Chi sei?” gemette, farfugliando. Poi cominciò a balbettare. Di colpo la tremenda verità mi parò dinanzi. Il mio povero, povero amico, il primo a dirmi qualcosa di gentile, è impazzito!.