Auro d’Arcola
Cosa è la politica? Se questa domanda la rivolgessimo a tutti coloro che della politica si servono come dello strumento più idoneo per conservare privilegi e potere, e anche a coloro che aspirano a conquistare il potere ed una conseguente posizione privilegiata, noi ci sentiremmo indubbiamente rispondere ad una voce sola che la politica è l’arte saggia e benefica del governo dei popoli senza la quale le società umane non conoscerebbero né vero progresso, né vera civiltà, né vero ordine. E tante altre definizioni elogiative della politica ci sentiremmo fare, da convincerci quasi a credere che il mondo non retto dalla scienza politica andrebbe diritto alla rovina! Ma noi neghiamo decisamente tutte queste taumaturgiche virtù sociali alla politica e neghiamo ad essa soprattutto la qualità di scienza sociale, a meno che non s’intenda per scienza l’arte dell’infingimento, della doppiezza, della menzogna, dell’assenza di ogni scrupolo e di una coscienza umana e morale.
Perché la politica, in essenza, è unicamente tutto questo. La politica è l’arte di governare e quindi di asservire, sfruttare, opprimere i popoli e gli individui. Essa esige da coloro che la praticano, autoritarismo, cinismo, malafede, immoralità, perversione.
L’arte politica non potrebbe esistere – e sarebbe immediatamente bandita dalla vita sociale, tanto è nefasta e delittuosa – se gli individui, se l’universalità sociale, possedessero capacità d’analisi, di comprensione, di penetrazione dei principi economico-sociali. Se le grandi masse del popolo avessero la facoltà di analisi e di critica delle dottrine sociali, la politica apparirebbe a tutti come il più vergognoso e antisociale artificio delle classi e dei partiti che vogliono dominare, spogliare ed asservire il popolo al loro carro autoritario, padronale e privilegiato. Ma le grandi masse popolari, sventuratamente, non solo non riescono a concepire e capire i principi informativi delle dottrine sociali, ma questi principi non li penetrano e non li afferrano nemmeno quando queste dottrine passano dal campo puramente teorico e cerebrale a concretizzarsi nell’affermazione e nella realizzazione sociale. Refrattarie allo sforzo del pensiero, le grandi masse popolari, anche quando i principi di una dottrina si affermano e realizzano in un sistema sociale, non ne afferrano e non ne giudicano che gli effetti, le conseguenze materiali che risentono direttamente e ciò che affiora clamorosamente alla superficie sociale. Di ciò ne abbiamo la prova nel fatto che queste masse, pur vivendo da lunga pezza in un regime che afferma e realizza i principi della dottrina borghese, capitalista, statalista e nazionalista, non hanno peranco compreso l’essenza del sistema, sebbene ne comprendano e ne giudichino le conseguenze da cui sono colpite. Quando queste masse soffrono la miseria, lo sfruttamento, la reazione, l’arbitrio, la guerra, etc.; esse, non ne conoscono le cause le quali sono permanenti col sistema, non ne condannano il principio sociale informatore che non percepiscono, ma restano alle conseguenze che risentono direttamente e solo queste deprecano e condannano in cuor loro o attraverso manifestazioni di malcontento. Ecco qui la ragione che dà vita all’arte politica, che è arte squisitamente di governo e di finzione sociale. Mediante la non abbastanza vituperata arte politica, è possibile la grande manifestazione dei fattori sociali con cui si fa credere alle masse che le cause dei mali che le affliggono si possano eliminare con un cambiamento di governo lasciando intatto il colpevole sistema sociale, mentre altri partiti politici aspiranti al potere le illudono promettendo la loro elevazione col sostituire al vecchio governo e al vecchio sistema sociale un nuovo governo e un nuovo sistema, i quali se cambiano i fattori nominativi, lasciano intatta l’essenza autoritaria e non cambiano il prodotto.
Esempio: un determinato governo – espressione di una determinata dottrina economico-sociale – a causa dei principi sociali che impersonifica ha sferrato la reazione sul popolo, ha mitragliato le folle, ha imposto tasse gravose, ha trascinato la nazione in guerre disastrose, ha ridotto i salari e lanciato sul lastrico della disoccupazione e della fame intere popolazioni; le masse si agitano, protestano, manifestano il loro malcontento e la loro avversione non contro l’iniquo sistema sociale, ma contro il governo che ne è l’espressione. Accade allora che il capo dello Stato congedi gli uomini che compongono quel governo e ne chiami degli altri (i quali avranno naturalmente, in virtù dell’arte politica, un programma di democrazia, di pace e di libertà) a sostituirli, formando un nuovo governo che sarà sempre l’espressione dello stesso sistema sociale. Ma le grandi masse non si avvedono del trucco; non capiscono che cambiano i suonatori, ma che la musica rimane la stessa; non comprendono che mutando il governo non si eliminano le cause del male che sono nel sistema sociale rimasto intatto e che comunque essendo entrambi, per se stessi, sistema sociale e governo, braccio e strumento di un principio sociale iniquo, oppressivo, spogliatore, violento e delittuoso, non vi sia possibilità di vero rimedio a questi lamentati malanni che nell’abolizione e nella distruzione di entrambi. Abolizione, cioè, del governo che esprime il contenuto politico del sistema sociale; distruzione del sistema sociale riconosciuto iniquo e conseguente ricostituzione di un ordinamento basato su principi assenti d’autoritarismo, di privilegio di classi, di politica e di antagonismi economici.
Qual è in sostanza la differenza sociale che passa tra un ordinamento borghese e un ordinamento repubblicano mazziniano o socialista? La differenza tra questi vari ordinamenti autoritari e statali, consiste tutta nella forma politica. Resta il privilegio economico, resta lo Stato autoritario e sovrano, resta il governo esecutivo della volontà delle classi, caste o categorie privilegiate e dello Stato autoritario a totale detrimento della volontà, della dignità e della prosperosità delle grandi masse governate in tutti i sistemi politici. Resta conseguentemente l’asservimento, l’oppressione, lo sfruttamento, la reazione, la strage, la miseria, la guerra nella vita sociale da cui le masse produttrici sono inesorabilmente vinte e colpite.
La politica, occorre ripeterlo, è la maschera allettante con cui si camuffa il volto arcigno e truce dell’autorità e del privilegio. La politica è governo e aspirazione al governo; il governo è Stato, e lo Stato è potere costituito dalla forza armata e violenta per tutelare e conservare alle classi dominanti gli interessi e i privilegi in antagonismo stridente con le condizioni d’umiliante inferiorità dei governati e costringere questi ultimi a subire l’arbitrio e la volontà dei primi.
E la politica è l’arte con cui tutti i partigiani dello Stato – dai borghesi ai socialisti – tendono ad ingannare il popolo per trarlo schiavo e illuso sotto il loro dominio.
L’Anarchia, quindi, non può essere che una dottrina sociale profondamente antipolitica. Per il fatto stesso che essa è sostanziata da un contenuto di principi antiautoritari e antistatali i quali sono diffusi, propagati ed affermati da individualità ed organismi non vincolati da una disciplina gerarchica partitica, ma dalla solidale intesa liberamente accettata e autonomamente praticata; l’Anarchia è insofferente ed anzi negatrice di arte politica la quale per essere l’abito dell’autorità si distingue anche come strumento di corruzione e di compromesso.
L’Anarchia è negazione della politica e gli anarchici rifuggono dal servirsi di ogni veste politica col non accettare cariche di pubblica autorità, come col non ammettere di trasformare il loro libero movimento autonomo in partito disciplinato e subordinato a gerarchie centrali che ne dettino il verbo ufficiale e ne circoscrivano le attività. Ma non solamente l’Anarchia come dottrina sociale è antagonistica alla politica; non solamente il movimento anarchico è privo e insofferente di una superstruttura politica, ma gli anarchici rifuggono sdegnati dal servirsi dell’arte politica anche intesa come puro mezzo efficace alla realizzazione dell’Anarchia. E ciò è naturale. Poiché se gli anarchici nel condurre la loro lotta incessante contro i partiti dell’autorità per l’affermazione dell’Anarchia, si lasciassero trascinare a servirsi dell’arte politica come di un mezzo apparentemente efficace in date circostanze per tentarne la realizzazione, non v’è dubbio che dovrebbero subito accorgersi di aver realizzato l’Autorità e non la Libertà. Quando l’anarchismo s’infatua di politica, si vizia conseguentemente di spirito d’autorità. E una lotta condotta con spirito d’autorità, con arte politica, porta necessariamente come risultato alla valorizzazione e all’affermazione dei principi d’autorità, alla mortificazione e alla negazione dell’Anarchia.
L’Anarchia che vuol essere veramente – e non può altrimenti intendersi – il nuovo ordinamento sociale di progresso, di civiltà e di ordine nella libertà e nell’uguaglianza, non può coesistere con la politica la quale è strumento necessario ai partiti dell’autorità, ai partigiani dello Stato, ai regimi della coazione, della violenza armata, dell’oppressione e del privilegio economico.
Politica: è Autorità, è Governo, è Stato. Anarchia: è Libertà, è assenza di Autorità, di Governo e di Stato.
[da La Rivista Internazionale Anarchica, n. 2 del 15 dicembre 1924]