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Bob Black L’ABOLIZIONE DEL LAVORO
Bob Black
L’ABOLIZIONE DEL LAVORO
Nessuno dovrebbe mai lavorare.
Il lavoro è la fonte di quasi tutte le miserie del mondo.
Quasi tutti i mali che si possono enumerare traggono origine dal lavoro o dal fatto che si vive in un mondo finalizzato al lavoro. Per eliminare questa tortura, dobbiamo abolire il lavoro.
Questo non significa che si debba porre fine ad ogni attività produttiva.
Ciò vuol dire invece creare un nuovo stile di vita fondato sul gioco; in altre parole, compiere una rivoluzione ludica. Nel termine “gioco” includo anche i concetti di festa, creatività, socialità, convivialità, e forse anche arte.
Per quanto i giochi a carattere infantile siano già di per sé apprezzabili, i giochi possibili sono molti di più. Propongo un’avventura collettiva nella felicità generalizzata, in un’esuberanza libera ed interdipendente. Il gioco non è un’attività passiva. Indubbiamente noi tutti necessitiamo di dedicare tempo alla pigrizia e all’inattività assolute molto più di quanto facciamo ora, e ciò senza doversi preoccupare del reddito e dell’occupazione; ma è anche vero che, una volta superato lo stato di prostrazione determinato dal lavoro, pressoché ognuno desidererebbe svolgere una vita attiva. L’oblomovismo e lo stakanovismo sono due facce di una stessa moneta falsa. La vita ludica è totalmente incompatibile con la realtà attuale. E allora tanto peggio per la “realtà”, questo buco nero che succhia la residua vitalità da quel poco che ancora distingue la nostra vita nella semplice sopravvivenza. E strano — o forse non tanto — che tutte le vecchie ideologie appaiano conservatrici, e ciò proprio in quanto tutte danno credito al lavoro. Per alcune di esse, come il marxismo, e la maggior parte delle varianti dell’anarchismo, la loro fede nel lavoro appare tanto più salda in quanto non vi è molto d’altro cui esse prestino fede.
I progressisti dicono che dovremmo abolire le discriminazioni sul lavoro. Io dico che dovremmo abolire il lavoro. I conservatori appoggiano le leggi sul diritto al lavoro. Allo stesso modo dell’ostinato genero di Karl Marx, Paul Lafargue, io sostengo il diritto alla pigrizia. La sinistra è a favore della piena occupazione. Come i surrealisti — a parte il fatto che sto parlando seriamente – io sono a favore della piena disoccupazione. I trotskisti diffondono l’idea di una rivoluzione permanente. Io quella di una baldoria permanente. Ma se tutti gli ideologi, così come accade, sono a favore del lavoro — e non solo perché hanno in mente di far fare ad altri la parte di esso che loro compete — tuttavia sono stranamente riluttanti ad ammetterlo. Continuano a disquisire all’infinito su salari, orari, condizioni di lavoro, sfruttamento, produttività e profitto. Parleranno volentieri di qualunque argomento tranne che del lavoro stesso. Questi esperti, che sempre si offrono di pensare per noi, raramente ci renderanno partecipi delle loro conclusioni riguardo al lavoro, e ciò malgrado il rilievo che esso assume nella vita di noi tutti. Fra di loro arzigogolano sui dettagli. Sindacati ed imprenditori concordano sul fatto che sia necessario vendere tempo della nostra vita in cambio della sopravvivenza, benché poi contrattino sul prezzo. I marxisti pensano che dovremmo essere diretti dai burocrati. I “libertari” da uomini d’affari. Le femministe non si pongono il problema di quale forma debba assumere la subordinazione, purché i dirigenti siano donne. Chiaramente questi mercanti di ideologie mostrano un notevole disaccordo su come dividersi le spoglie del potere. Ma è ancora più chiaro che nessuno di loro ha nulla da obiettare sul potere in quanto tale, e che tutti costoro vogliono che noi si continui a lavorare.
Forse vi state chiedendo se stia scherzando o parlando seriamente. L’uno e l’altro. Essere ludici non significa essere incongruenti. Il gioco non è necessariamente un’attività frivola, ancorché l’essere frivoli non significhi essere superficiali: molte volte è necessario prendere seriamente ciò che appare frivolo. Vorrei che la vita fosse un gioco, ma che la posta in gioco fosse alta. Vorrei continuare a giocare per sempre.
L’alternativa al lavoro non è solo l’ozio. Essere ludici non è essere fancazzisti. Sebbene ritenga molto apprezzabile il piacere del sonnecchiare, questo non è mai così appagante come quando fa da pausa rispetto ad altri piaceri e distrazioni. E non sto nemmeno esaltando quella valvola di sfogo comandata a tempo chiamata “tempo libero”: lungi da me. Il tempo libero è un nonlavoro, che esiste in funzione del lavoro. Il tempo libero è tempo impiegato a ristabilirsi dagli effetti del lavoro, non è altro che il tentativo frenetico e frustrante di dimenticare il lavoro. Molta gente torna dalle vacanze talmente spossata, che non vede l’ora di tornare al lavoro per potersi finalmente riposare. La principale differenza tra il lavoro e il tempo libero è che al lavoro in fin dei conti sei pagato per la tua alienazione e per il logoramento dei tuoi nervi.
Non sto proponendo astratti giochi di parole. Quando affermo che voglio abolire il lavoro, intendo dire esattamente quello che sto dicendo, ma ora voglio chiarire la questione definendone i termini in modo non emotivo. La mia definizione minima di lavoro è quella di lavoro forzato, cioè, produzione obbligatoria. Entrambi gli elementi sono essenziali. Il lavoro è produzione imposta attraverso strumenti economici e politici, cioè col metodo del bastone e della carota. (La carota è la continuazione del bastone con altri mezzi). Ma non ogni produzione è lavoro. Il lavoro non è mai un’attività fine a se stessa, ma è sempre svolto in vista di una certa produzione o risultato che il lavoratore (o, più spesso, qualcun altro) trae da esso. Questo è ciò che il lavoro necessariamente rappresenta. Definirlo significa disprezzarlo. Ma il lavoro è di solito molto peggio di quanto esprima la sua definizione. La dinamica del dominio intrinseca al lavoro lo spinge nel corso del tempo lungo un percorso evolutivo. Nelle società avanzate basate sul lavoro, e quindi in tutte le società industriali, sia capitaliste che “comuniste”, il lavoro invariabilmente acquisisce ulteriori connotati che ne accentuano il carattere ripugnante.
Di solito — e questo è ancor più vero nei paesi “comunisti” che in quelli capitalisti, in quanto in essi lo Stato è praticamente l’unico datore di lavoro e ognuno è lavoratore dipendente — il lavoro è lavoro subordinato, vale a dire lavoro salariato, ciò che significa vendersi a rate. Così il 95% degli americani che lavorano, lavora per qualcun altro (o qualcos’altro). In Russia, a Cuba, in Jugoslavia, o in qualsiasi altra situazione del genere a cui si voglia far riferimento, la percentuale corrispondente si avvicina al 100%. Solo le fortezze contadine sotto assedio costituite dai Paesi agricoli del Terzo Mondo — cioè Messico, India, Brasile, Turchia—difenderanno ancora per qualche tempo l’esistenza di forti concentrazioni di agricoltori che perpetuano la condizione tradizionale, comune alla maggior parte dei lavoratori negli ultimi millenni, cioè il pagamento di tasse (= riscatto) allo Stato o dell’affìtto a proprietari terrieri parassitari, in cambio della semplice possibilità di vivere in pace. Ma ora anche un patto così brutale comincia ad apparire accettabile. Ora tutti i lavoratori dell’industria (e negli uffici) sono salariati e sottoposti ad un tipo di sorveglianza che ne assicura il servilismo.
Ma il lavoro moderno implica conseguenze ancora peggiori. La gente non lavora in senso proprio, ma svolge delle “mansioni”. Ognuno svolge continuamente una sola mansione produttiva in forma coercitiva. Anche nel caso in cui il lavoro presenta un certo interesse intrinseco (carattere sempre meno presente in molte occupazioni) la monotonia derivante da tale coercizione all’esclusività elimina il suo potenziale ludico. Una “mansione” che, qualora venisse svolta per il piacere che ne deriva, impegnerebbe le energie di alcune persone per un lasso di tempo ragionevolmente limitato, si tramuta invece in un peso per coloro che la devono svolgere per 40 ore la settimana, senza poter dire nulla su come dovrebbe essere svolta, e questo per il profitto dei proprietari, i quali non contribuiscono affatto al progetto, e senza nessuna opportunità di dividere i compiti e di distribuire il lavoro fra quelli che effettivamente lo devono compiere. Questa è la realtà del mondo del lavoro: un mondo di confusione burocratica, di molestie e discriminazioni sessuali, di capi ottusi che sfruttano e tiranneggiano i loro subordinati i quali — secondo ogni criterio tecnico razionale — sarebbero in realtà nella posizione di decidere da soli. Ma nel mondo reale il capitalismo subordina l’aumento razionale della produttività e del surplus alla propria esigenza di tenere sotto controllo l’organizzazione della produzione.
Il senso di degradazione che molti lavoratori sperimentano sul lavoro deriva da un insieme assortito di prevaricazioni, le quali possono essere tutte riassunte nel termine “disciplina”. Nell’analisi di Foucault tale fenomeno appare piuttosto complesso, mentre in realtà esso risulta essere abbastanza semplice. La disciplina consiste nell’insieme di quei sistemi di controllo totalitari che vengono applicati sul posto di lavoro — sorveglianza, lavoro ripetitivo, imposizione di ritmi di lavoro, quote di produzione, cartellini da timbrare all’entrata e all’uscita —. La disciplina è ciò che la fabbrica, l’ufficio e il negozio condividono con la prigione, la scuola e il manicomio. Storicamente questo sistema risulta essere qualcosa di originale e terrificante. Un tale risultato va al di là delle possibilità di demoniaci dittatori del passato quali Nerone, Gengis Khan, o Ivan il Terribile. Nonostante le loro peggiori intenzioni, essi non disponevano di macchine atte a un controllo dei loro sudditi così capillare quanto quello attuato dai despoti moderni. La disciplina è un diabolico modo di controllo tipicamente moderno, è un corpo estraneo prima d’ora mai visto, e che deve essere espulso alla prima occasione.
Tale è la natura del “lavoro”. Mentre il gioco è esattamente il suo opposto. Il gioco è sempre deliberato. Ciò che altrimenti sarebbe gioco si tramuta in lavoro quando diviene un’attività coercitiva. Questo è lampante. Bernie de Koven ha definito il gioco come “la sospensione della consequenzialità”. Tale definizione è inaccettabile se implica che il gioco non sia un’attività conseguente. La questione non è se il gioco sia privo di conseguenze. Affermare ciò significa svilire il gioco. Il fatto è che le conseguenze, quando ci sono, hanno il carattere della gratuità. Il giocare e il donare sono attività fortemente correlate, sono aspetti comportamentali e transazionali relativi ad uno stesso impulso, l’istinto del gioco. Condividono lo stesso aristocratico disprezzo per i risultati. Il giocatore vuole ottenere qualcosa dal gioco; questo è il motivo che lo spinge a giocare. Ma la ricompensa essenziale sta nell’esperire quella stessa attività, qualunque essa sia. Uno studioso del gioco altrimenti avvertito, quale è stato Johan Huizinga (Homo ludens), definisce il gioco come un’attività retta da regole. Per quanto io nutra rispetto per l’erudizione di Huizinga, respingo energicamente una tale limitazione. Esistono, è vero, numerosi e ottimi giochi (scacchi, baseball, monopoli, bridge) che seguono regole ben precise. Tuttavia l’attività ludica comprende molto di più che il gioco normato. La conversazione, il sesso, il ballo, i viaggi — queste attività non seguono regole ma sono sicuramente dei giochi, se mai ne esiste qualcuno —. E delle regole ci si può prender gioco facilmente, come di qualsiasi altra cosa.
II lavoro si fa beffe della libertà. La linea ufficiale è che a tutti sono riconosciuti dei diritti, e che viviamo in una democrazia. Ma esistono individui meno fortunati che non sono così liberi come noi e vivono in Stati di polizia. Costoro sono delle vittime costrette ad eseguire continuamente ordini senza discussioni, per quanto essi possano essere arbitrari. Le autorità li sorvegliano strettamente. I burocrati controllano anche i più piccoli dettagli della loro vita quotidiana. I funzionari che li comandano a bacchetta, rispondono solo ai loro diretti superiori, siano essi pubblici o privati. Il dissenso e la disobbedienza vengono entrambi repressi. Gli informatori riferiscono regolarmente alle autorità. Ovviamente tutto ciò rappresenta una situazione terrificante. E così è, sebbene questa non sia altro che la descrizione di un moderno luogo di lavoro. I progressisti, i conservatori, e i libertari che si lamentano del totalitarismo sono falsi e ipocriti. C’è più libertà in una dittatura moderatamente destalinizzata di quanta ve n’è in America in un ordinario luogo di lavoro. In un ufficio o in una fabbrica trovi lo stesso genere di gerarchia o di disciplina proprio di una prigione o di un monastero. Infatti, come Foucault ed altri hanno dimostrato, prigioni e fabbriche nascono all’incirca nello stesso periodo, e i loro gestori consapevolmente si scambiano fra loro le tecniche di controllo. Il lavoratore è uno schiavo parttime. Il datore di lavoro decide quando bisogna comparire sul luogo di lavoro e quando bisogna andarsene, e cosa si deve fare in quel lasso di tempo. Ti dice quanto lavoro devi fare e a quale ritmo. Ha la facoltà di spingere il suo controllo fino ad estremi umilianti, stabilendo, se lo desidera, quali vestiti devi indossare e quanto spesso puoi recarti al gabinetto. Con poche eccezioni può licenziarti per una ragione qualsiasi, o anche per nessuna. Può spiarti facendo uso di informatori ed ispettori, compila un dossier per ogni impiegato. L’atto di ribattere viene chiamato “disobbedienza”, proprio come se il lavoratore fosse un bambino impertinente. Egli non solo può licenziarti, ma può anche farti perdere il diritto al sussidio di disoccupazione. Senza necessariamente avallare un tale atteggiamento in rapporto ai bambini stessi, è degno di nota che a scuola e a casa essi ricevono lo stesso trattamento, giustificato nel loro caso da una supposta immaturità. E che cosa fa venire in mente tutto ciò riguardo i loro genitori o i loro insegnanti in quanto lavoratori?
Per decenni, e per la maggior parte delle loro vite, l’umiliante sistema di dominio che ho descritto regola più della metà del tempo che la maggior parte delle donne e la stragrande maggioranza degli uomini passano in stato di veglia. In rapporto a certi scopi non è troppo fuorviante chiamare il nostro sistema democrazia, oppure capitalismo, o meglio ancora industrialismo, ma i termini più appropriati sarebbero fascismo di fabbrica e oligarchia d’ufficio. Chiunque dica che certe persone sono “libere” mente o è uno sciocco. Tu sei quello che fai: se fai un lavoro stupido, noioso, monotono, hai buone probabilità di diventare stupido, noioso e monotono. Il lavoro è la migliore spiegazione per il cretinismo servile da cui siamo circondati, ancor più dei pur potenti meccanismi di istupidimento rappresentati dalla televisione e dal sistema di istruzione. Gente irreggimentata per tutta la vita, sospinta al lavoro dalla scuola, rinchiusa nella famiglia all’inizio della loro vita e in una casa di cura alla fine, non può che essere assuefatta alla gerarchia e mentalmente schiava. Ogni attitudine all’autonomia risulta talmente atrofizzata che la paura della libertà è tra le poche fobie che in loro appaiono razionalmente fondate. L’addestramento alla dedizione verso il lavoro ha luogo nelle loro famiglie di provenienza, ma anche nell’ambito della politica, della cultura, e in ogni altro campo di attività, riproducendo così il sistema in più di una maniera. Una volta che la vitalità della gente sia stata loro sottratta nell’ambito del lavoro, è molto probabile che costoro si sottometteranno alla gerarchia e agli specialisti in rapporto ad ogni altra attività. Ci sono abituati.
Siamo così immersi nel mondo del lavoro che non possiamo renderci completamente conto di quanto esso determini la nostra esistenza. Dobbiamo così affidarci ad osservatori esterni, prodotto di altre epoche e di altre culture, se vogliamo essere in grado di percepire i pericoli e il carattere patologico della nostra presente condizione. Nel nostro passato vi fu un’epoca in cui l’ “etica del lavoro” sarebbe stata incomprensibile; e forse Weber era sulla strada giusta quando collegò la sua comparsa all’avvento di una nuova religione, il calvinismo, poiché se tale etica fosse comparsa oggi invece di 4 secoli fa sarebbe stata appropriatamente e immediatamente riconosciuta come il prodotto di una scelta. Comunque stiano le cose, possiamo solo far ricorso alla saggezza degli antichi se vogliamo collocare il lavoro in una prospettiva storica: Gli antichi considerarono il lavoro per ciò che effettivamente è, ed il loro punto di vista prevalse, nonostante le eccentricità calviniste, fino a quando le loro idee non vennero cancellate dall’industrialismo, ma non prima di ricevere l’approvazione dei suoi stessi profeti.
Ammettiamo per un momento la falsità della tesi secondo la quale il lavoro riduce l’uomo ad una condizione di insensata sottomissione. Ammettiamo pure, a dispetto di ogni plausibile visione della psicologia umana e dell’ideologia degli imbonitori, che il lavoro non abbia alcun effetto sulla formazione del carattere. E conveniamo ancora che il lavoro non sia così noioso, faticoso e umiliante come tutti ben sappiamo esso sia nella realtà.
Anche se così fosse, la realtà del lavoro mostrerebbe ancora quanto siano derisorie tutte le prospettive a carattere umanistico e democraticistico ad esso connesse, e ciò proprio in quanto esso usurpa una parte così rilevante del nostro tempo. Socrate disse che i lavoratori manuali diventano dei cattivi amici e pessimi cittadini, e ciò in quanto non dispongono del tempo necessario all’adempimento dei doveri inerenti all’amicizia e alla cittadinanza. Aveva perfettamente ragione. A causa del lavoro, qualunque cosa facciamo la facciamo guardando l’orologio. Ciò che è “libero” nel cosiddetto tempo libero, è nient’altro che un insieme di attività paralavorative che oltre tutto non costano nulla al padrone. Infatti, il tempo libero è dedicato soprattutto a prepararsi al lavoro, a recarsi al lavoro, a tornare dal lavoro, a riposarsi dal lavoro. Il tempo libero è un eufemismo che allude al particolare carattere del lavoro come fattore di produzione, costituito dal fatto che esso non solo provvede a sue spese al proprio trasporto al e dal posto di lavoro, ma si assume l’onere principale per quanto concerne la propria manutenzione e la relativa messa a punto. Il carbone e l’acciaio questo non lo fanno. Il tornio e la macchina da scrivere neppure. Mentre i lavoratori sì. Nessuna meraviglia se Edward G. Robinson in uno dei suoi film di gangster proclama: “Il lavoro è per gli imbecilli!”.
Sia Platone che Senofonte attribuiscono a Socrate — ed ovviamente siamo d’accordo con lui — una profonda consapevolezza circa gli effetti distruttivi del lavoro sul lavoratore, sia in quanto cittadino che come essere umano. Erodoto considerava il disprezzo per il lavoro come un tratto caratteristico della Grecia classica al culmine della sua fioritura. Traendo dalla civiltà romana un solo esempio, osserviamo che Cicerone affermava: “Chiunque offra il suo lavoro in cambio di denaro vende se stesso, e pone sé medesimo nel novero degli schiavi”. Oggigiorno una tale franchezza è molto rara, ma le attuali società primitive, quelle che noi guardiamo dall’alto in basso, ci mandano messaggi che hanno influenzato gli antropologi occidentali. I Kapauku della Nuova Guinea occidentale, secondo Posposil, hanno una concezione equilibrata della vita, e coerentemente ad essa lavorano solo a giorni alterni, essendo il giorno del riposo destinato “a riguadagnare il potere perduto e la salute”. I nostri antenati, ancora alla fine del XVIII secolo, quando già si erano inoltrati lungo il cammino che porta alla nostra triste situazione attuale, almeno erano consapevoli di ciò che noi abbiamo dimenticato, cioè del lato oscuro dell’industrializzazione. La loro osservanza riguardo il “Santo Lunedì” — cioè la pratica de facto della settimana di cinque giorni 150-200 anni prima della sua instaurazione per legge — era la disperazione dei primi proprie-tari di industria. Fu necessario molto tempo prima che essi accettassero la tirannia della sirena, strumento che precede l’orologio a sveglia. Infatti fu necessario per un paio di generazioni sostituire gli adulti maschi con donne abituate all’obbedienza, e bambini che potevano essere plasmati secondo le necessità della produzione industriale. Perfino i contadini sfruttati nell’ancien regime riuscivano a strappare una considerevole quantità di tempo ai proprietari terrieri. Secondo Lafargue, un quarto del calendario dei contadini francesi era dedicato alle domeniche e ad altre festività, e le cifre, desunte da Chayanov relative a villaggi della Russia zarista, che è arduo qualificare come società progressista, mostrano analogamente che i contadini dedicavano al riposo un quarto o un quinto dei loro giorni. In rapporto al livello di produttività siamo ovviamente molto indietro rispetto a queste società arretrate. I mugiki sfruttati sarebbero molto stupiti del fatto che vi sia ancora qualcuno di noi che lavori. E noi dovremmo condividere tale stupore.
Comunque, al fine di comprendere pienamente la profondità del deterioramento della nostra condizione consideriamo ora la vita dell’umanità primitiva, senza stato e proprietà, quando conducevano un’esistenza errabonda come cacciatori e raccoglitori. Hobbes presume che la loro vita fosse pericolosa, brutale e breve. Anche altri sostengono che allora la vita fosse una lotta continua e disperata per la sopravvivenza, una guerra contro una Natura ostile, con la morte e ogni genere di sventure in agguato per i meno fortunati, o per chiunque si fosse rivelato inadatto alla sfida posta dalla lotta per l’esistenza. In realtà tale idea rappresenta nient’altro che una proiezione del timore diffuso nell’Inghilterra di Hobbes ai tempi della Guerra Civile, e proprio di comunità non abituate a fare a meno dell’autorità, riguardo un possibile crollo della struttura dello Stato. I connazionali di Hobbes avevano già incontrato forme alternative di società che mostravano altri modi di vita — particolarmente in Nord America — ma queste erano già troppo lontane dalla loro esperienza per essere comprensibili. (I ceti inferiori, più vicini alle condizioni degli Indiani, potevano comprendere meglio questo modo di esistenza e spesso ne furono attratti: durante tutto il XVII secolo i coloni inglesi abbandonarono il loro mondo unendosi alle tribù indiane, oppure quando vennero catturati in guerra, rifiutarono di tornare. Mentre gli indiani non si rifugiavano presso gli insediamenti dei bianchi, non più di quanto i tedeschi saltassero il muro di Berlino da ovest verso est). Il darwinismo, nella versione “della sopravvivenza del più adatto” — cioè quella di Thomas Huxley — costituisce più una fedele immagine delle condizioni economiche dell’Inghilterra vittoriana di quanto fosse della selezione naturale, come l’anarchico Kropotkin dimostrò nel suo libro Il Mutuo Appoggio, un fattore dell’evoluzione. (Kropotkin fu uno scienziato — un geografo — che ebbe modo, del tutto involontariamente, di sperimentare a fondo il lavoro dei campi quando venne esiliato in Siberia: sapeva di cosa stava parlando). Come la maggior parte delle teorie sociali politiche, ciò che Hobbes e i suoi successori hanno raccontato appare null’altro che qualcosa di simile ad una autobiografia non autorizzata. L’antropologo Marshall Sahlins, studiando i dati disponibili sugli attuali cacciatori-raccoglitori, confutò il mito hobbesiano in un articolo intitolato “L’originaria società dell’abbondanza”. Infatti, essi lavorano molto meno di noi, ed è difficile distinguere il loro lavoro da ciò che noi chiamiamo gioco. Sahlins conclude che “cacciatori e raccoglitori lavorano meno di noi; la ricerca del cibo, invece di essere un lavoro continuo, è un’attività saltuaria mentre dispongono di molto tempo da dedicare al riposo, e la quantità di tempo consacrata al sonno da ciascun individuo nel corso di un anno è molto maggiore che in qualsiasi altro tipo di società”.
Essi “lavorano” in media quattro ore al giorno, presumendo che si possa ancora chiamare lavoro tale attività. Il loro “lavoro” così come esso ci appare, è un lavoro altamente qualificato che coinvolge tutte le loro capacità fisiche ed intellettuali; un lavoro non qualificato su larga scala, dice Sahlins, è impossibile eccetto che nell’industrialismo. Pertanto, tale attività è adeguata alla definizione di gioco data da Friedrich Schiller, secondo la quale esso costituisce l’unico ambito in cui l’uomo può realizzare completamente la sua umanità, “mettendo in gioco” entrambi i lati della sua duplice natura, cioè intelletto e passione. Così egli afferma: “l’animale lavora quando la privazione diventa l’impulso fondamentale della sua attività e gioca quando l’impulso fondamentale proviene dalla pienezza delle sue forze, quando una vitalità sovrabbondante diviene il proprio stimolo all’attività”. (Una versione moderna di tale concezione — ma è dubbio che abbia carattere evolutivo — è data dalla contrapposizione che Abraham Maslov postula tra motivazione da “deprivazione” e motivazione da “crescita”). In rapporto alla produzione, gioco e libertà sono coestensivi. Anche Marx, che (nonostante tutte le sue buone intenzioni) appartiene al pantheon dei produttivisti, osserva che: “Di fatto il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e finalità esterna”. Infatti, non giunge mai del tutto a definire questa felice condizione per quella che è, cioè come abolizione del lavoro — sarebbe piuttosto anomalo, del resto essere a favore dei lavoratori ma contro il lavoro — mentre noi possiamo permettercelo.
L’aspirazione ad andare indietro, o avanti, verso una vita senza lavoro è evidente in ogni seria storia sociale o culturale dell’Europa pre-industriale, tra cui Englandin transition di M. Dorothy George e Popular culture in early modern Europe di Peter Burke. Risulta pertinente anche il saggio di Daniel Bejl “II lavoro e le sue insoddisfazioni”, che costituisce, a quanto ne so, il primo scritto che si diffonda con tale ampiezza sulla “rivolta contro il lavoro”, saggio che, quando venga rettamente interpretato, incrina fortemente il generale compiacimento che circonda il volume in cui esso compare, cioè, The End of ideology. Né i critici né gli elogiatori hanno notato che la tesi di Bell sulla fine delle ideologie segnalava non la fine dei movimenti sociali ma l’inizio di una nuova fase, per la quale non esistono mappe, libera e non conforme ad alcuna ideologia. Fu Seymour Lipset (in Politicai man), e non Bell di certo, ad annunciare nello stesso periodo che: “I problemi fondamentali della rivoluzione industriale sono stati risolti”, e ciò solo pochi anni prima che l’insoddisfazione, fosse essa post- o meta-industriale, manifestata dagli studenti del suo college inducesse Lipset ad abbandonare l’UC di Berkeley per la situazione relativamente (e temporaneamente) più tranquilla che gli offriva Harvard.
Così come rileva Bell, in La ricchezza delle nazioni Adam Smith, nonostante tutto il suo entusiasmo per il mercato e la divisione del lavoro, era più consapevole (ed anche più onesto) riguardo il lato sgradevole del lavoro di Ayn Rand, gli economisti di Chicago, o qualche altro moderno epigono di Smith. Smith osserva: “Le doti intellettuali della maggior parte degli uomini sono necessariamente determinate dalle loro occupazioni ordinarie. Un uomo la cui vita trascorre nello svolgimento di qualche semplice operazione (…) non ha occasione di esercitare la sua intelligenza (…). Generalmente diventa stupido e ignorante come solo un uomo può diventarlo”. Qui, in queste poche aspre parole, è compiutamente espressa la mia critica del lavoro. Bell, scrivendo nel 1956, cioè nell’Età dell’Oro dell’imbecillità eisenhoweriana e dell’autocompiacimento americano, già avvertiva il malessere disorganizzato, e non organizzabile, così come si sarebbe poi manifestato nel 1970; quel malessere che nessuna tendenza politica era in grado di sfruttare; quello che veniva riconosciuto nel rapporto redatto dalla HEW “Working America”; quello stesso malessere che non si prestava ad essere recuperato e così veniva ignorato. Tale problema è costituito dalla rivolta contro il lavoro. Esso non compare negli scritti di alcun economista del laissez-faire— Milton Friedman, Murray Rothbard, Richard Posner — poiché, per esprimersi come gli eroi di Star Trek, “non quadra”.
Se queste obiezioni, informate all’amore della libertà, non riescono a persuadere gli umanisti a compiere una svolta utilitaristica o anche paternalistica, ve ne sono altre delle quali non possono non tener conto. Possiamo affermare, prendendo a prestito il titolo di un libro, che il lavoro è un rischio per la tua salute. Infatti il lavoro è un assassinio di massa, cioè un genocidio. Direttamente o indirettamente, il lavoro ucciderà la maggior parte delle persone che legge queste righe. Tra i 14.000e i 25.000 lavoratori vengono uccisi ogni anno in questo paese dal loro lavoro. Oltre 2 milioni rimangono invalidi. I feriti ammontano a 20-25 milioni ogni anno. E queste cifre si basano su di una stima molto cauta di quello che costituisce un danno causato da attività lavorative, cioè non viene incluso mezzo milione di casi di malattie professionali che insorgono ogni anno. Ho avuto tra le mani un testo di medicina del lavoro spesso 1200 pagine. Anche questo tocca a malapena la superficie del problema. Le statistiche disponibili comprendono i casi più evidenti, come i 100.000 minatori che contraggono la silicosi, dei quali 4.000 muoiono ogni anno, cioè una percentuale di’ decessi che risulta, ad esempio, più elevata di quella dell’AIDS, malattia cui i media prestano così tanta attenzione. Tutto ciò riflette l’assunto non dichiarato secondo il quale i pervertiti afflitti dall’AIDS dovrebbero controllare la loro depravazione, mentre coloro che estraggono il carbone svolgono un’attività sacrosanta e fuori discussione. Quello che le statistiche non lasciano trapelare è il fatto che il lavoro abbrevia il tempo di vita a 10 milioni di persone, ciò che, d’altra parte, è il significato proprio del termine omicidio. Ci riferiamo a quei dirigenti che si ammazzano di lavoro all’età di 50 anni, ci riferiamo a tutti i lavoro-dipendenti.
Anche se non si rimane uccisi o mutilati mentre si è effettivamente al lavoro, ciò può tranquillamente accaderci mentre ci rechiamo al lavoro, o stiamo tornando dal lavoro, oppure mentre lo stiamo cercando, o tentiamo di dimenticarlo. La maggior parte delle vittime di incidenti d’auto stavano svolgendo una di queste attività legate al lavoro, oppure vennero travolte da qualcuno impegnato in esse. A questo computo dei cadaveri, pur così ampliato, occorre aggiungere le vittime dell’inquinamento industriale, del traffico automobilistico, dell’alcolismo indotto dal lavoro e del consumo di droga. Anche il cancro e le malattie cardiocircolatorie sono mali moderni, e normalmente sono attribuibili, direttamente o indirettamente, al lavoro. Il lavoro, dunque, istituzionalizza l’omicidio come modo di vita. La gente pensava che i cambogiani fossero pazzi dal momento che si sterminavano fra loro in quel modo, ma noi siamo poi molto diversi? In fondo il regime di Pol-Pot, per quanto in modo confuso, si poneva nella prospettiva di una società egualitaria. Noi sterminiamo la gente in ecatombi esprimibili in numeri di 6 cifre (come minimo) per vendere Big Mac e Cadillac ai superstiti. I nostri 40 o 50 mila morti, che registriamo annualmente sulle nostre autostrade sono vittime, non martiri. Muoiono per nulla O piuttosto, muoiono per il lavoro. Ma il lavoro è nulla, e non vale la pena di morire per esso.
Cattive notizie per i progressisti: in un contesto che si presenta come una questione di vita o di morte i palliativi di tipo normativo sono inutili. A livello federale, all’ Occupational Safety and Health Administration venne affidata la vigilanza per quanto concerne il problema centrale, cioè la sicurezza sul posto di lavoro. Ma anche prima che Reagan e la Corte Suprema ne paralizzassero l’attività, la OSHA era già una farsa. Nonostante i precedenti (e confronto agli standard attuali) generosi livelli di finanziamento dell’era Carter, ci si poteva aspettare mediamente un’ispezione casuale ad un posto di lavoro, da parte di un funzionario dell’OSHA, una volta ogni 46 anni.
Affidare il controllo dell’economia allo stato non è una soluzione. Semmai, il lavoro è più pericoloso in uno stato socialista che altrove. Migliaia di lavoratori russi sono stati uccisi o feriti durante la costruzione della metropolitana a Mosca. Voci pervenute attorno ad incidenti verificatisi nell’Unione Sovietica e passati sotto silenzio, fanno sembrare Times Beach e Three Mile Island semplici esercitazioni di allarme aereo per scuole elementari. D’altro canto, la deregulation, ora di moda, non serve molto, anzi probabilmente peggiora la situazione. Fra le altre cose, anche dal punto di vista della salute e della sicurezza, il lavoro mostrava il suo lato peggiore proprio nel periodo in cui l’economia più si avvicinava al modello del laissez-faire. Storici come Eugene Genovese, analogamente a quanto affermavano gli apologeti della schiavitù prima della guerra di secessione, hanno sostenuto in maniera persuasiva la tesi secondo la quale i salariati degli stati del Nord America e dell’Europa stavano peggio degli schiavi nelle piantagioni del sud. È chiaro che nessun mutamento di rapporti tra burocrati e uomini d’affari può cambiare qualcosa per quanto concerne la produzione. L’imposizione di misure coercitive, o anche solo l’applicazione che in teoria l’OSHA potrebbe imporre della piuttosto vaga normativa vigente, comporterebbe probabilmente il blocco dell’economia. Chiaramente i funzionari competenti se ne rendono conto, poiché finora non hanno nemmeno tentato di diventare più severi con i trasgressori.
Quello che ho detto finora probabilmente non susciterà grandi opposizioni. Molti lavoratori sono stufi del lavoro. Si manifestano forti e crescenti tassi di assenteismo, dimissioni, furti e sabotaggi compiuti da dipendenti, scioperi spontanei e soprattutto frodi sul lavoro. Ciò può significare che vi è un movimento verso un rifiuto cosciente e non solo viscerale del lavoro. Eppure, l’idea prevalente universalmente diffusa sia tra i padroni e i loro agenti che tra i lavoratori stessi, è che il lavoro sia inevitabile e necessario. Non sono d’accordo. È possibile fin d’ora abolire il lavoro e sostituirlo, nella misura in cui sia finalizzato a scopi utili, con una molteplicità di attività libere di nuovo genere. Al fine di abolire il lavoro è necessario procedere lungo due direzioni, una quantitativa e l’altra qualitativa. Per quanto riguarda il lato quantitativo, dobbiamo decurtare massicciamente la quantità complessiva di lavoro che è necessario effettuare. A tutt’oggi la maggior parte del lavoro è inutile, o peggio che inutile, e noi semplicemente dobbiamo liberarcene. D’altra parte — e penso che qui sia il punto cruciale di tutta la questione e il nuovo punto di partenza per il movimento rivoluzionario — dobbiamo analizzare il lavoro utile rimasto e trasformarlo in una piacevole varietà di passatempi simili, al tempo stesso, sia al gioco che ad un’attività produttiva, cioè indistinguibili da altri passatempi salvo che per essi si dà il caso che generino un prodotto finale utile. Di sicuro ciò non li renderebbe per questo meno allettanti di altri divertimenti. Da questo momento tutte le barriere artificiali derivanti da rapporti di potere e di proprietà potrebbero venir meno. La creazione potrebbe diventare ricreazione. E potrebbe cessare ogni diffidenza gli uni verso gli altri.
La mia ipotesi non è che la maggior parte del lavoro sia recuperabile in questo modo. Ma che, in tal caso, per la maggior parte di esso non varrebbe nemmeno la pena di tentarne il recupero. Infatti, solo una piccola, e sempre decrescente, parte del lavoro sociale serve a fini che siano realmente utili, e non connessi alla difesa e riproduzione dell’attuale sistema di lavoro, e delle sue sovrastrutture giuridiche e politiche. Vent’anni fa, Paul e Percival Goodman stimavano che solo il 5% del lavoro svolto — e presumibilmente questa cifra, se esatta, sarebbe ora perfino inferiore — sarebbe sufficiente a soddisfare i nostri bisogni minimali per il cibo, il vestiario e l’abitazione. La loro era solo una timida congettura ma la questione principale è abbastanza chiara: direttamente o indirettamente, la maggior parte del lavoro viene svolto a fini produttivi attinenti la circolazione delle merci e il controllo sociale. In un batter d’occhio potremmo liberare dal lavoro 10 milioni di commessi, militari, manager, poliziotti, agenti di borsa, preti, banchieri, avvocati, insegnanti, proprietari, addetti alla sicurezza, pubblicitari, e tutti quelli che lavorano per loro. Si verificherebbe una reazione a catena per cui ogni volta che viene disattivato qualche pezzo grosso, vengono liberati anche i suoi scagnozzi e tirapiedi. In tal modo l’economia imploderebbe. Il 40% della forza lavoro è costituita da colletti bianchi, e la maggior parte di loro svolge un lavoro tra i più noiosi ed idioti che si possano immaginare. Industrie intere, assicurazioni, banche e agenzie immobiliari, ad esempio, sono costituite da nient’altro che da un inutile flusso di cartaccia. Non è un caso che il “settore terziario”, cioè il settore dei servizi, si stia ampliando, mentre il “settore secondario” (l’industria) sia stagnante, mentre il “settore primario” (l’agricoltura) sia sul punto di scomparire. Poiché il lavoro non è necessario se non per coloro ai quali esso assicura il potere, i lavoratori vengono trasferiti da occupazioni relativamente utili ad altre relativamente meno utili, proprio in quanto ciò costituisce una misura finalizzata a garantire l’ordine pubblico. Qualsiasi cosa è meglio che il far niente. Questo è il motivo per cui tu non puoi semplicemente andare a casa quando il lavoro è finito prima del tempo. Vogliono il tuo tempo, e in misura sufficiente da farti loro, anche se della maggior parte di quel tempo non sanno che farsene. Altrimenti perché la settimana lavorativa media non è scesa che di qualche minuto negli ultimi 50 anni?
E ora passiamo ad applicare la nostra mannaia anche al lavoro produttivo stesso. Non più produzioni belliche, energia nucleare, prodotti alimentari scadenti, deodoranti per l’igiene intima femminile, e soprattutto, chiuso ogni discorso riguardo l’industria automobilistica. Una Stanley Steamer o una Model-T d’occasione possono andar bene, mentre l’autoerotismo da cui dipendono lazzaretti come Detroit e Los Angeles è fuori questione. E subito, senza neanche muovere un dito, abbiamo virtualmente risolto la crisi energetica, la crisi ambientale ed equilibrato altri insolubili problemi sociali.
Infine, dobbiamo abolire ciò che rappresenta di gran lunga la più diffusa occupazione, quella con l’oratorio più prolungato, il compenso più basso, e che comporta alcuni dei compiti più noiosi che sia dato vedere. Mi riferisco alle nostre casalinghe, quelle che svolgono i lavori domestici e allevano bambini. Con l’abolizione del lavoro salariato e con il raggiungimento del pieno disimpegno, viene scardinata la divisione sessuale del lavoro. La famiglia nucleare così come la conosciamo costituisce un inevitabile adattamento alla divisione del lavoro imposta dal moderno lavoro salariato. Che ci piaccia o meno, così come stanno le cose, da uno o due secoli a questa parte, risulta più razionale, dal punto di vista economico, che l’uomo si guadagni lo stipendio, che la donna svolga quel lavoro di merda costituito dal costruire per lui un rifugio in questo mondo senza cuore, e che il bambino venga avviato verso quei campi di concentramento per giovani chiamati “scuole”; e questo in primo luogo per allontanarli dalle braccia materne pur mantenendo ancora un certo controllo familiare, ma incidentalmente anche per acquisire quella consuetudine all’obbedienza e alla puntualità così necessaria ai lavoratori. Se vuoi liberarti dal patriarcato, devi sbarazzarti della famiglia nucleare, il cui lavoro “sommerso” non pagato, secondo quanto afferma Ivan Illich, rende possibile il sistema di lavoro che ne rende necessaria l’esistenza. Parte integrale di questa strategia pacifica è l’abolizione dell’infanzia e la chiusura delle scuole. In questo paese ci sono più studenti a tempo pieno che lavoratori a tempo pieno. Abbiamo bisogno che i bambini diventino insegnanti, e non studenti. Essi possono dare un grosso contributo alla rivoluzione ludica perché meglio degli adulti sanno come si gioca. Adulti e bambini non sono identici ma potranno diventare uguali attraverso l’interdipendenza. Solo il gioco può colmare il gap generazionale.
Finora non ho nemmeno accennato alla possibilità di ridurre il poco lavoro rimanente tramite l’automazione e la cibernetica. Tutti gli scienziati, gli ingegneri, i tecnici liberati dal fastidioso impegno costituito dalla ricerca a fini bellici, o indirizzata a pianificare l’obsolescenza delle merci, potrebbero applicarsi al piacevole compito di progettare dispositivi atti ad eliminare la fatica, la noia, e il pericolo da lavori come l’attività estrattiva nelle miniere. Senza dubbio troverebbero altri progetti con cui dilettarsi. Forse istituiranno un sistema integrato di comunicazione multimediale esteso a tutto il mondo, oppure fonderanno colonie nello spazio cosmico. Forse. Per quanto mi riguarda non sono un maniaco della tecnologia. Non vorrei vivere in un paradiso fatto di pulsanti. Non desidero robot schiavi che fanno tutto; voglio farmi le mie cose da solo. Credo che esista spazio per una tecnologia che faccia risparmiare fatica, ma uno spazio modesto. Le testimonianze storielle e preistoriche non sono incoraggianti. Quando la tecnologia produttiva si evolse da quella propria dèi cacciatori-produttori a quella agricola ed industriale, il lavoro aumentò mentre l’abilità individuale e la capacità di determinare la propria vita diminuirono. L’ulteriore evoluzione dell’industrializzazione accentuò quella che Harry Braverman chiama la degradazione del lavoro. Gli osservatori più avvertiti sono sempre stati consapevoli di tale fenomeno. John Stuart Mill scrisse che tutte le invenzioni che finora sono state escogitate per risparmiare fatica non hanno mai fatto risparmiare effettivamente un solo attimo di lavoro. Karl Marx scrisse che: “Sarebbe possibile scrivere una storia delle invenzioni, a partire dal 1830, con il fine esclusivo di fornire al capitale armi contro le rivolte della classe lavoratrice”. I tecnofili entusiasti — quali Saint Simon, Comte, Lenin, B. F. Skinner — hanno mostrato altresì di essere granitiche personalità autoritarie; vale a dire, dei tecnocrati. Siamo oltremodo scettici riguardo alle promesse dei mistici dei computer. Costoro lavorano come cani; è probabile che, se avranno via libera, lo stesso accada per tutti gli altri. Ma se possono offrire qualche particolare contributo più direttamente subordinabile a fini umani che la corsa all’alta tecnologia, diamo pure loro ascolto.
Ciò che essenzialmente vorrei vedere realizzato è la trasformazione del lavoro in gioco. Il primo passo sarà cancellare le nozioni di “mansione” e “occupazione”. Anche per quelle attività che presentano già ora qualche contenuto ludico, accade che ne perdano la maggior parte dal momento che esse vengono ridotte ad attività imposte a certi individui, e solo a loro, mentre ne vengono esclusi tutti gli altri. Non è strano che i braccianti agricoli si affatichino penosamente nei campi mentre i loro padroni, che vivono in ambienti dotati di aria condizionata, ogni weekend stiano in casa e qui si dilettino con lavori di giardinaggio? Sotto un sistema di festa permanente, saremo testimoni della nascita di una nuova Età dell’Oro del grande dilettantismo, evento che oscurerà l’età rinascimentale. Non esisteranno più lavori ma cose da fare e persone per farle.
Il segreto per volgere il lavoro in gioco, come già dimostrò Charles Fourier, sta nell’organizzare attività utili traendo profitto da qualsiasi cosa diversi individui in tempi diversi di fatto già amino fare. Al fine di rendere possibile per gli individui fare le cose che amerebbero fare, è sufficiente eliminare l’irrazionalità e le deformazioni che minano queste attività nel momento in cui vengono ridotte a lavoro. Ad esempio, mi piacerebbe impegnarmi un po’ (non troppo) nell’insegnamento, ma non voglio avere un ruolo autoritario con gli studenti, e non desidero fare il leccapiedi di qualche patetico pedante per ottenere un incarico.
In secondo luogo, vi sono cose che gli uomini amano fare di tanto in tanto, ma non troppo a lungo, e di certo non per sempre. Può essere gradevole fare il lavoro di baby-sitter per qualche ora, in quanto così si può condividere la compagnia dei piccoli, ma non così a lungo come i loro genitori. I genitori, nondimeno, danno grande valore al tempo di libertà che in tal modo viene loro reso disponibile, mentre diventano ansiosi se rimangono lontani dalla loro prole troppo a lungo. Sono queste differenze tra gli individui quelle che rendono possibile una vita di libero gioco. Lo stesso principio può essere applicato in molti altri campi di attività, e soprattutto in quelle a carattere primario. Così molte persone si divertono a cucinare quando lo possono fare davvero a loro piacere, ma non quando, per lavoro, devono alimentare corpi umani.
Terzo — a parità di condizioni — alcune cose che sono sgradevoli se fatte da soli o in un ambiente spiacevole, oppure agli ordini di un padrone, diventano piacevoli, almeno per qualche tempo, se tali circostanze vengono modificate. Probabilmente questo è vero, in qualche misura, per tutti i lavori. La gente può dispiegare la propria ingegnosità altrimenti sprecata trasformando in una gara, nel miglior modo possibile, il meno allettante dei lavori di fatica. Attività che interessano alcune persone non sempre interessano tutti; ma tutti, almeno potenzialmente, posseggono una certa varietà di interessi ed un certo interesse per la varietà. Secondo la nota massima: “Ogni cosa almeno una volta”. Fourier fu maestro nell’escogitare modi in cui le inclinazioni più aberranti e perverse potessero trasformarsi in attività utili in una società postcivilizzata, quella che egli denominò Armonia. Pensava che l’imperatore Nerone avrebbe lavorato molto bene se da bambino avesse potuto soddisfare la sua propensione verso gli spargimenti di sangue in un macello. I bambini più piccoli, che notoriamente amano rivoltarsi nel sudiciume, potrebbero essere organizzati in “Piccole Orde” che pulirebbero le latrine e svuoterebbero i contenitori della spazzatura, con l’assegnazione di medaglie ai migliori. Non voglio proporre in concreto proprio questi specifici esempi, ma il principio che li fonda penso dia il senso preciso di una delle dimensioni di ogni radicale trasformazione rivoluzionaria. Occorre tener presente che non dobbiamo prendere il lavoro tale quale come si presenta oggi e abbinarlo alle persone adatte, alcune delle quali potrebbero anche essere dei pervertiti. Se la tecnologia può avere un ruolo in tutto ciò, sarà più quello di aprire nuovi orizzonti alla ri/creazione, che di automatizzare il lavoro cancellandolo completamente. In una certa misura vogliamo tornare all’artigianato, attività che William Morris considerava il probabile ed auspicabile esito della rivoluzione comunista. L’arte verrà recuperata dalle mani degli snob e liberata dall’ambiente dei collezionisti, abolita come categoria specialistica rivolta ad un pubblico elitario, e i suoi contenuti estetici e creativi restituiti alla pienezza della vita cui furono sottratti dal lavoro. Vi è da riflettere sul fatto che i vasi attici di cui noi tessiamo le lodi, e che esponiamo nei musei, nella loro epoca vennero usati per conservare le olive. Dubito che i nostri manufatti comuni avranno una sorte così gloriosa in futuro, se mai ne avranno una. Il fatto è che non esiste qualcosa di simile al progresso nel mondo del lavoro. Semmai è proprio il contrario. Non dovremmo esitare a prendere dal passato quello che ci può offrire: gli uomini del passato sicuramente non ci perdono nulla, mentre noi ne veniamo arricchiti.
La reinvenzione della vita quotidiana significa andare al di là dei margini delle nostre mappe. Ed è vero che, in merito, esiste una corrente di pensiero molto più suggestiva di quanto la gente possa immaginare. Oltre a Fourier e a Morris — e anche a qualche allusione, qua e là, in Marx — ci sono gli scritti di Kropotkin, degli anarcosindacalisti Pataud e Pouget, di vecchi anarcocomunisti (Berkman) e di nuovi (Bookchin). La Communitas dei fratelli Goodman è esemplare nell’illustrare quale forma consegue da una data funzione (scopo), e c’è qualcosa da recuperare dagli stessi confusi apologeti della tecnologia alternativa/appropriata/intermedia/conviviale come Schumacher e specialmente Illich, una volta disattivate le loro macchine fumogene. I situazionisti — come Vaneigem nel Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni, e l’antologia dell’Internazionale Situazionista — sono tanto implacabilmente lucidi quanto esilaranti, anche se non superano mai completamente la contraddizione consistente nel sostenere da una parte il potere dei consigli operai e dall’altra l’abolizione del lavoro. Tuttavia, la loro incongruenza è preferibile a tutte le versioni del sinistrismo ancora in circolazione, i cui adepti appaiono come gli ultimi difensori del lavoro, ciò evidentemente in quanto se non esistesse il lavoro non vi sarebbero lavoratori, e in assenza di lavoratori, chi mai potrebbe organizzare la sinistra?
Pertanto gli abolizionisti si trovano in tale prospettiva ad essere nettamente soli. Nessuno può dire quello che potrebbe risultare dalla liberazione del potere creativo, ora frustrato, del lavoro. Può accadere di tutto. L’estenuante dibattito del problema dell’opposizione tra necessità e libertà, con i suoi risvolti teologici, si risolve praticamente da sé una volta che la produzione di valore d’uso sia coestensiva all’esplicarsi di una piacevole attività ludica. La vita diventerà un gioco, o piuttosto una molteplicità di giochi, ma non — come accade ora — un gioco a somma zero. Un’intesa ottimale sul piano sessuale è il paradigma di un gioco produttivo. I partecipanti esaltano il piacere l’uno dell’altro, non viene assegnato alcun punteggio, e ognuno vince. Più dai, più ottieni. Nella vita ludica, il meglio del sesso verrà integrato nella parte migliore della vita quotidiana. Il gioco generalizzato porta all’erotizzazione della vita. Il sesso, a sua volta, può diventare meno urgente e disperato, più giocoso. Se giochiamo bene le nostre carte, possiamo prendere dalla vita molto di più di quanto ci mettiamo; ma solo se giochiamo per davvero.
Nessuno dovrebbe mai lavorare. Lavoratori del mondo… rilassatevi.