Alfredo M. Bonanno
Dirsi anarchico vuol dire molto, ma può anche voler dire nulla. In un mondo di identità flebili, quando tutto sembra sfumare nella nebbia dell’incertezza, considerarsi anarchico può essere un modo come un altro di seguire una bandiera, nulla di più.
Ma l’anarchismo a volte risulta un’etichetta scomoda. Può insinuarti domande nella mente cui non è poi facile dare una risposta. Può farti notare le strane contraddizioni della tua vita: il lavoro, il ruolo che la società ti ha imposto, lo status a cui tu stesso hai partecipato, la carriera a cui non sai rinunciare, e la famiglia, gli amici, i figli, la fine del mese e lo stipendio, la macchina e la casa di proprietà. Ahimé, fissare una distanza tra questi corredi e le proprie idee di fondo, tra quello che siamo e il nostro essere anarchici, assomiglia molto a quella lotta tra l’essere e il dover essere che faceva sorridere Hegel: il dover essere finisce sempre per soccombere.
Così siamo anarchici perché leggiamo i giornali anarchici, perché consideriamo il pensiero e la storia dell’anarchismo il nostro pensiero e la nostra storia. Siamo anarchici perché ci ingrottiamo nel movimento al riparo delle intemperie della vita, perché lo consideriamo la nostra casa sicura, perché ci piace vedere le facce dei compagni, sentire le loro piccole storie casalinghe e raccontar loro le nostre storie casalinghe, il tutto da ripetersi all’infinito, e così sia.
Se qualcuno solleva problemi, non tanto con la propria lingua più o meno tagliente, ma con le cose che fa, ponendo a repentaglio questo essere presso di sé, al sicuro, questo sentirsi protetti come in casa propria, allora lo richiamiamo all’ordine, elencandogli al completo i principi dell’anarchismo, cui restiamo fedeli. E fra di questi c’è quello del non andare a votare. Gli anarchici non votano, altrimenti che anarchici sarebbero!
Nessuna grinza. Eppure, specialmente negli ultimi tempi, sono state avanzate delle obiezioni, delle perplessità.
Che senso ha non andare a votare. Un senso ce l’ha, hanno detto molto anarchici, in particolare fra i più anziani. Ce l’ha perché il voto è una delega e gli anarchici sono per la lotta diretta. Bello, rispondo io, bellissimo.
Ma quando questa lotta consiste solo nel testimoniare i propri principi (quindi anche il proprio astensionismo) e nulla più, anzi consiste nel ritrarsi imbarazzati quando qualche compagno decide di attaccare gli uomini e le realizzazioni del potere, oppure consiste nel restare in silenzio di fronte all’azione degli altri, quando è questa la lotta, allora sarebbe meglio anche andare a votare.
Per chi considera il proprio anarchismo l’acquietante palestra delle proprie e delle altrui opinioni su come immaginarsi un mondo che non c’è – né mai ci sarà –, mentre i giorni si susseguono, per lui, uno dopo l’altro, nel grigiore monotono delle mattinate tutte uguali, dei gesti uguali, degli uguali lavori e affetti e passatempi e vacanze, per costui che senso ha il proprio astensionismo, se non quello di ribadire, con poca spesa e sufficiente nitidezza, il proprio sentirsi anarchico. Ma, ben considerando, se il suo anarchismo è solo quest’insegna polverosa e ridicola, in un terreno di certezze monotone e scontate, ben venga la sua decisione di andare a votare. La sua astensione non significava nulla.
Potrà senza grosse ambasce votare alle politiche, e anche alle amministrative. Riflettendo bene potrà scegliere così di difendere uno straccio di democrazia che, in fondo in fondo, è sempre meglio di una dittatura che riempirebbe gli stadi e i campi di concentramento in attesa di redigere liste di proscrizione. I carri armati per le strade (mitico segno del potere dilagante e indiscriminato, quando vai al muro per una semplice parola, per un simbolo mal capito da ottusi esecutori di ordini in divisa), sono faccenda pericolosa, meglio le chiacchiere insulse, e in fondo opinabili, di un pagliaccio qualsiasi in abito democratico. Non scherziamo con queste cose, meglio correre a votare, specialmente in un momento in cui milioni di persone sembrano non capire il valore del voto. L’astensione a milioni non ha più senso anarchico, si rischia di essere confusi con la massa incolta che non sa neanche mettere una croce sulla carta o che si allieta a poco prezzo scarabocchiando frasi oscene sulla scheda.
Poi ci sono i compagni che sostengono posizioni vicine al municipalismo libertario e al sindacalismo rivoluzionario di base. Questi, sempre secondo la mia opinione, non dovrebbero correre dietro alle fanfaluche dell’astensionismo. Il loro obiettivo dovrebbe essere, quanto meno, la partecipazione massiccia e significativa, alle elezioni amministrative, per fornire ai propri rappresentanti strumenti idonei a governare la cosa pubblica in periferia. Forse gli anarcosindacalisti (ma ce ne sono ancora?) potrebbero anche votare alle politiche, ma questa dovrebbe essere decisione ben ponderata, per quanto personalmente la considero scelta del tutto coerente con le idee di lotta sindacale.
Restano molti altri anarchici. Restano quelli per i quali il proprio anarchismo è scelta di vita e non una concezione da contrapporsi in un tragico e irrisolvibile ossimoro ai mille problemi di apparenza che la società codifica e impone.
Per questi compagni l’astensione è solo una delle tante occasioni per dire di no. La loro azione anarchica si realizza nel corso di ben altri fatti e sono proprio questi fatti a dare luce e significato diverso a quel loro dire di no.
[“Canenero” n. 29, 2 giugno 1995]