Critica del carcere (2000)

Panopticon

In questa società la Legge svolge molteplici funzioni: regola e indirizza il rapporto di sfruttamento su cui si basa garantendone il mantenimento; ordina le relazioni sociali e assegna a ciascuno un ruolo in funzione dei propri interessi; costituisce la principale mediazione tra tutti gli individui isolandoli gli uni dagli altri nel mentre li riunisce in rapporti giuridici.
La Legge si esercita per il tramite della violenza, senza la quale è lettera morta. La reclusione è una parte importante di questa violenza.

Il carcere nasce con la Rivoluzione Industriale per formare dei lavoratori disciplinati e addomesticarli alle rigide esigenze spazio-temporali della macchina. Oggi è una delle tante strutture del controllo sociale e assolve diversi scopi: punire chi delinque per isolarlo dalla società; riabilitare, almeno formalmente, alcuni elementi e restituirli ad una regolata vita sociale; agitare lo spettro dell’esclusione per gli onesti cittadini, lavoratori e consumatori.
Il Diritto è fondato su un criterio di utilità economica e sociale, prodotto del dominio e strumento della sua difesa. La pena è, infatti, commisurata all’entità del danno economico e al grado di rifiuto dell’ordinamento sociale.
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La prigione è in simbiosi con la società e si trasforma al passo con questa. Una delle tendenze di questi mutamenti è la dematerializzazione del carcere e la sua diffusione nel territorio. Evoluzione questa che consente un maggior controllo sociale a costi più bassi: le manette elettroniche utilizzano le abitazioni come succursali delle galere; l’urbanistica, il satellite e le telecamere rendono le città prigioni.
Al carcere si affiancano forme alternative di detenzione. Centri di accoglienza per clandestini, comunità terapeutiche per tossici, comunità di reinserimento per detenuti e ospedali in genere sono forme non-carcerarie di imprigionamento.
Il carcere si diluisce nel territorio attraverso la pianificazione dei luoghi dell’abitare, degli spostamenti e del senso di questi. Il controllo si insinua persino nel corpo tramite la medicalizzazione del rapporto con la salute e la malattia, attraverso la sofisticazione del cibo.
Alla struttura carceraria tradizionale si prospetta la funzione di parcheggio per una parte crescente della popolazione.
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Lo Stato sociale, risultato di un periodo di lotte, ha costituito uno strumento efficace per la produzione di pace sociale. Lo smantellamento progressivo di questo apparato, che ha lo scopo di mettere in circolazione una maggiore quantità di capitali, e l’introduzione della flessibilità produttiva provocano come conseguenza l’estendersi della precarietà, creando una realtà in cui i più non sono garantiti e inducendo l’aumento della marginalità e dell’illegalità. Il potenziamento delle strutture repressive risponde a questo mutamento. Il numero dei detenuti è, infatti, in aumento in tutti i paesi occidentali.
Non potendo sopprimere tutti i criminali il potere dà loro una morte apparente, rinchiudendoli: la deprivazione sensoriale, la noia, la paura e il dolore mirano a far perdere all’individuo la sua identità e il controllo sul proprio corpo. Il carcere è un luogo altamente patogeno, in cui lo stress indebolisce le difese immunitarie, le cure sono insufficienti e imposte; i detenuti sono spesso le cavie di terapie sperimentali o oggetto di annichilimento farmacologico. In questa situazione il suicidio rappresenta spesso l’unica soluzione. In galera la negazione della vita è visibile al massimo grado.
Il carcere speciale, diffuso in tutta Europa, si rivolge ai detenuti irrecuperabili accrescendo, rispetto al carcere comune, le potenzialità di annientamento fisico, psicologico e sociale. Esso è un luogo di maltrattamenti, di torture e di omicidi sovente celati. Il carcere speciale sorge con lo scopo di separare una parte dei detenuti, creando un carcere all’interno del carcere.
La divisione tra detenuti politici e detenuti comuni è la prima forma di separazione. Essa nasceva con il duplice obiettivo di impedire, all’interno del carcere, la diffusione della critica rivoluzionaria e l’organizzazione della sua pratica e, all’esterno, di frantumare il fronte della lotta e di impedire che la questione carceraria fosse posta nella sua interezza.
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Il Capitale non dichiara più di essere il migliore dei mondi possibili, esso è semplicemente l’unico. Ogni giustificazione ideale che lo sorreggeva è caduta: al principio formale della giustizia subentra la necessità pragmatica di sicurezza. Al carcere come luogo di rieducazione del reo, finalizzato al suo reinserimento sociale, è il potere stesso a non credere più. Solo pochi preti, tanto illusi quanto imbecilli, continuano a professare la pedagogia della reclusione. Da parte loro, i criminali sono sempre stati perlomeno scettici. Il crimine non è una malattia curabile di alcuni individui, è la malattia incurabile della società del Capitale.
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Le disposizioni in merito alle strategie repressive vengono prese con criteri di natura tecnica da commissioni di esperti coordinate internazionalmente. Le campagne mediatiche, quanto la farsa del dibattito parlamentare, servono a far credere ai cittadini di essere partecipi di decisioni prese altrove. Le emergenze e i nemici – di volta in volta mafia, terrorismo, droga, microcriminalità – sono prodotti spettacolari funzionali a garantire le trasformazioni della repressione.
Il mostro è la figura che esemplifica la più grossolana delle mistificazioni associate alla presunta necessità della prigione. L’attenzione riservata al caso particolare e al fatto eccezionale viene utilizzata per mascherare la caratteristica sostanziale del carcere: essere una struttura creata per contenere e annullare il conflitto sociale.
Quelle lotte che contestano formalmente l’esistenza di alcuni reclusori e l’ingiusta detenzione che in essi si attuerebbe, puntellano di fatto le ragioni del diritto avvallando l’idea di una detenzione giusta. Anche i politicanti di Via Corelli *sostengono la necessità del carcere. Mediando il conflitto sociale, questi collaboratori di giustizia contribuiscono alla razionalizzazione del dominio.
Meno becera ma parimenti funzionale è la tesi di quanti sostengono la distinzione tra detenuti politici e detenuti comuni. Limitarsi a reclamare la liberazione dei compagni, o degli amici, significa non vedere nel carcere un luogo decisivo dello scontro sociale e il ruolo di recupero che queste divisioni svolgono in esso.
Le tesi di quegli accademici che propongono l’abolizione delle galere hanno il merito di mostrare la relatività del concetto di giustizia e di guardare in maniera disincantata alla condizione carceraria. Non ne hanno altri. Essi credono nella possibilità di una gestione dei conflitti diversa da quella punitiva e reclusoria connaturata al sistema di controllo. Incapaci di comprendere le ragioni materiali del conflitto, astraggono il crimine dal contesto sociale sistemandolo su di un piano squisitamente sociologico. In questo modo il crimine non è più considerato elemento di rottura delle norme della società, ma suo strumento di autoregolazione. L’ideologia abolizionista, come tutte le visioni utopistiche, immagina un punto finale dell’evoluzione della storia in cui ogni conflitto sarà neutralizzato nel quadro del raggiungimento di una società perfetta, il paradiso terrestre. Su questo punto tutte le ideologie abolizioniste e le critiche astratte al carcere concordano con l’Utopia del Capitale che sogna una società costituita di cittadini che hanno introiettato le sue norme.
Chi vuole una società liberata dallo sfruttamento, del carcere non sa che cosa farsene. Viceversa chiunque parli di un mondo senza galere deve spiegare come ciò possa realizzarsi se non tramite lo scontro rivoluzionario.
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Oggi il conflitto sociale è diffuso e sostenuto dagli esclusi anche se in forme non coscienti e non comprese. Il crimine è un’espressione del conflitto sociale; è un prodotto, anche ideologico, del processo di espropriazione materiale e di senso, realizzato dal dominio ai danni del vivente; al contempo ne rappresenta la negazione. Le ragioni del crimine sono quindi storiche e sociali e non valutabili secondo i canoni del senso comune.
Oggi una parte importante delle lotte sociali si realizza all’interno dei luoghi di reclusione: carceri, centri di accoglienza, ghetti urbani. Queste sono di fatto lotte parziali; tuttavia nella volontà di farla finita con questi reclusori si intravede la possibilità di una critica complessiva al dominio. Mettere in luce la teoria critica insita nella pratica di tali lotte è il senso della critica rivoluzionaria. Diversamente esse non sfuggono alla mediazione politica e alla pratica recuperatrice che consente al sistema l’amministrazione del conflitto.
* Nota: Nel 1998 le Tute bianche (ora Disobbedienti) organizzarono una manifestazione fuori dal lager per immigrati di via Corelli a Milano. Fu una delle prime manifestazioni basate sullo scontro con la polizia, più o meno concordato preventivamente, per ottenere maggiore risalto sui mezzi di informazione. La pratica venne utilizzata fino al luglio 2001. A Genova, durante le manifestazioni contro il G8, lo schema venne ampiamente criticato nella pratica dalle migliaia di insorti che misero sottosopra la città.
Marzo 2000
Tratto da “Guerra Sociale” (2000)