F. L.
Una nota parabola cristiana ci parla di un bambino che, sorpreso da Sant’Agostino mentre si dava da fare per prosciugare il mare servendosi di una conchiglia, veniva da questi deriso con aria di sufficienza, per l’evidente inutilità degli sforzi umani per giungere alla conoscenza di dio.
Per chi si è abbastanza presto liberato di tutto il castello di frottole con cui la chiesa cattolica tenta di farci bere la sua cosiddetta «verità rivelata», la parabola del bambino che voleva prosciugare il mare è, almeno in apparenza, solo un vago ricordo d’infanzia, sempre che in quel periodo si abbia avuto la sventura di aver a che fare con preti o simili pagliacci.
Per chi si è abbastanza presto liberato di tutto il castello di frottole con cui la chiesa cattolica tenta di farci bere la sua cosiddetta «verità rivelata», la parabola del bambino che voleva prosciugare il mare è, almeno in apparenza, solo un vago ricordo d’infanzia, sempre che in quel periodo si abbia avuto la sventura di aver a che fare con preti o simili pagliacci.
Ma, se riflettiamo un momento con maggior attenzione, ci accorgeremo probabilmente che quella storiella, cucinata con le salse più varie e adattata alle situazioni più disparate, non ha mai cessato di perseguitarci, di esserci sbattuta in faccia, con derisoria sufficienza, da qualche saccente emulo del famoso santo. E portando fino in fondo la riflessione, scopriremo che proprio sulla morale di quella favoletta si regge tuttora la sopravvivenza di tutto il sistema sociale basato sul potere e sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Infatti, qual è in sostanza l’obiezione che viene più comunemente mossa dall’uomo della strada per farci convenire sull’inutilità dei nostri sforzi rivoluzionari, se non quella che il potere, lo stato è troppo forte per essere abbattuto coi mezzi a nostra disposizione, cioè che il mare è troppo grande per essere svuotato con una conchiglia? Da questa apparente «verità oggettiva» discendono poi tutti i tipi di assuefazione, di compromesso, di adattamento che portano dritto dritto all’accettazione del riformismo e al corrispondente rincretinimento soggettivo della maggior parte degli individui.
Non molto diverse sono, ad esempio, le obiezioni che taluni compagni muovono nei confronti del progetto insurrezionista anarchico: sul piano dello scontro aperto, diretto, violento, lo stato è troppo forte per essere sconfitto con gli scarsi mezzi a nostra disposizione, la disparità di forze renderebbe dunque impraticabile una tale via. Ancora una volta, il mare è troppo profondo per le nostre misere conchiglie e dunque faremmo meglio tutti quanti a trovarci un’occupazione più proficua e socialmente utile: la nostra «infantile illusione» può magari venire apprezzata per la volontà di cui dà prova, ma solo se poi viene «ragionevolmente» messa da parte, per dedicarsi, con «modestia» e «buon senso», a progetti più circoscritti e credibili. Da quel momento in poi, ragione, modestia e buon senso veglieranno come le mitiche arpie sullo svolgersi insensato e ripetitivo delle nostre esistenze, preservandole dalle insidie della follia, della superbia e della stravaganza, affinché possano inutilmente spegnersi come inutilmente si saranno dipanate.
Da quel momento, il nostro dichiararci rivoluzionari, libertari, anarchici o quel che ci pare, non sarà che una sottile mano di vernice che stenderemo sulle carrozzerie irrimediabilmente arrugginite dei nostri corpi.
La nostra condanna, da quel momento, sarà firmata e la pena peggiore non sarà quella di morte, ma quella di trascinare una vita spenta di ogni passione, completamente incapace di rivolgersi contro i propri carnefici.
Poiché non può certamente esser questo il senso del nostro proclamarci soggetti irriducibilmente negatori del potere, non ci resta altro da fare che riappropriarci di tutte le armi della critica e rovesciare completamente il senso della parabola, infischiandocene dell’apparente illogicità del nostro desiderio di rivolta e ridefinendo il significato del bambino, del mare e della conchiglia.
Il bambino
Il bambino è il principio e il fine di questa parabola rivoluzionaria con la quale mi sto concedendo il lusso di continuare a tediare i compagni.
Fuori di metafora, è la nostra soggettività di uomini/donne liberi che sta all’inizio e al termine del nostro sforzo rivoluzionario, perché solo a partire dalla coscienza di tale soggettività (oggi negata, schiacciata, imbavagliata dal persistere del potere) possiamo realmente intraprendere quella lotta che deve dirigersi ad affermarne concretamente la realizzazione in una società liberata da ogni istituzione di dominio. Se nella prima parte del mio intervento (Il proletariato limitante) mi sono dedicato a trattare dei miti e delle sovrastrutture ideologiche che si frappongono alla coscienza di questa dimensione soggettiva del nostro essere contro lo stato di cose esistenti, molte cose ci sarebbero ancora da dire su ciò che ci impedisce di comprendere con chiarezza il fine altrettanto individualistico del nostro desiderare qualcosa di «altro» dal potere. Molto spesso, infatti, non solo ci arroghiamo il diritto di voler fare la rivoluzione per conto o per mandato del proletariato o del popolo, ma pretendiamo anche di farlo per il suo bene. Dal ché nascono grandi conflitti interni e drammi quando verifichiamo che i nostri «protetti» non dimostrano alcun desiderio di essere beneficiati dalla nostra azione e anzi a volte preferirebbero che non turbassimo le loro ebeti sopravvivenze con tutto il nostro cianciare di comunismo, anarchia e società liberata.
La prima giustificazione che tendiamo a fornire, di fronte a questa imbarazzante contraddizione, è che il popolo è diseducato da secoli di asservimento e di martellante educazione alla servitù e all’oppressione; come spiegava Malatesta, l’uomo che nasce con le catene ai piedi è portato a considerare quello il suo stato naturale e l’unico possibile.
A questo punto la soluzione sembra poter stare in un’assidua opera di contro-educazione, che contrapponga ai valori da sempre inculcati come «naturali» i nostri valori alternativi, alla visione del vivere dominato, da sempre considerato come unico possibile, le nostre prefigurazioni teoriche e pratiche del vivere liberato. E allora ci dedichiamo all’edificazione di piccole isole felici, che possano esemplificare quanto andiamo asserendo, oppure all’elaborazione teorica di un modello di società comunista e/o anarchica che sia in grado di reggere alle obiezioni dei nostri scettici interlocutori. Nell’uno e nell’altro caso, generalmente, andiamo incontro a miseri fallimenti.
La possibilità di costruire «isole di libertà» in seno alla società del potere ha conosciuto storici insuccessi che sarebbe troppo lungo enumerare qui, e sembra aver ancora minori possibilità di riuscita oggi, quando lo stato ha esteso più che mai l’articolazione del suo dominio, la sua volontà di essere modello totalizzante e la capacità di permeare dei suoi meccanismi di funzionamento anche gli ambiti geografici e sociali più periferici. È questa, a mio parere, una strada che presenta solo due sbocchi, al momento attuale: o si riduce all’autogestione della propria ghetizzazione, all’illusione demente di essere padroni della propria miseria, alla tragica tristezza delle riserve pellerossa e dei «club privati per emarginati», oppure diviene, più o meno volontariamente e coscientemente, laboratorio sociale da cui solo lo stato potrà trarre profitto ed indicazioni per elaborare nuove evoluzioni del suo dominio.
Assai più diffusa, comunque, è sempre stata la pretesa di riuscire a distillare, dal proprio bagaglio storico di conoscenze, il modello teorico sul quale dovrebbe venir plasmata la società del domani. Se in campo marxista questo vezzo ha conosciuto realizzazioni particolarmente aberranti, gli anarchici hanno pure amato particolarmente indulgervi, qualunque fosse (o sia) la tendenza che li contraddistingue: da Kropotkin ad Arscinov, dagli anarcosindacalisti fino ai membri di un gruppo clandestino come Azione Rivoluzionaria (si veda il loro, per molti versi inquietante, documento Contributo per un progetto rivoluzionario libertario), ben pochi hanno saputo sottrarsi alla tentazione di prendere carta e penna e spiegarci come, più o meno, dovrebbe funzionare l’anarchia. Anche in questo caso mi sembra che i risultati siano stati generalmente poco brillanti.
Ora, a parte il fatto che proprio perché anarchici dovrebbe sembrarci almeno un po’ strana l’intenzione di metterci già oggi a dettar regole sul futuro, tutti questi tentativi di soluzione di cui ho parlato sono, a mio modo di vedere, destinati al fallimento per un motivo sostanziale e cioè che tutti (quelli pratici come quelli teorici) partono dall’assurdo presupposto di poter fissare un punto più o meno preciso da cui far iniziare il «dopo-rivoluzione», un confine o uno spartiacque tra l’anarchia e ciò che ancora non lo è. Una pretesa questa che mi pare, oltre che assurda, pericolosa, perché ci costringe a dare per scontato che esista un Assoluto finale al quale deve prima o poi giungere la storia umana, un momento in cui i conflitti sociali ed interpersonali cesseranno per lasciare il posto ad un’immobile perfezione, nella quale infine lo Spirito avrà trovato la sua realizzazione.
Tutto questo non fa, evidentemente, che riportarci al solito discorso di stampo hegeliano e marxista, progenitore di tanti guai, sul quale non starò a ripetermi, e che è quello stesso che ci impedisce di comprendere che i nostri sforzi non possono e non devono essere rivolti alla realizzazione di uno Spirito o di una qualsiasi altra cosa al di fuori di noi, ma al contrario, all’affermazione di noi stessi, dei nostri bisogni, dei nostri desideri, delle nostre individualità. Poiché non esiste e non potrà mai esistere alcun «dopo-rivoluzione» in cui tutto sia concluso, ma solo un «durante-rivoluzione», è la nostra vita che deve essere degna di essere vissuta, e se non ci riusciamo ci potrà consolare ben poco ogni rosea previsione sulla vita dei nostri figli o nipoti.
Il rivoluzionario non può dunque identificarsi nella figura del «genitore», di colui che si batte per «dare un futuro ai propri figli», ma proprio in quella del «bambino», di colui che non ha ancora rinunciato a preferire il sogno alla realtà, ciò che vuole a ciò che gli dicono che è possibile. E questo bambino deve sapersi guardare attorno e capire chi e che cosa tenta di costringerlo a diventare adulto, a sottomettersi alle regole asfissianti di ciò che è ragionevole, modesto e sensato. E se gli viene il capriccio di prosciugare il mare, cominciare a farlo.
Il mare
Il mare è ciò di cui i nostri occhi non vedono la fine. Il mare è il potere, la sopraffazione, lo sfruttamento, tutto quello che «è sempre stato» e perciò «sempre ci sarà», che esiste da quando l’uomo ha memoria della propria vita e che è dunque pura utopia sperare di veder scomparire. Un’argomentazione, questa, in verità troppo semplicistica, che può far presa solo su chi non aspetta altro che una scusa qualsiasi per continuare a vegetare nella stupidità più assoluta. Noi rivoluzionari sappiamo non solo che il potere ha avuto un inizio, ma anche che dovrà avere una fine: in fondo, anche il mare, osservato da un punto di vista un po’ più ampio, non è altro che un grande lago salato. Non si tratta perciò di aver dubbi sulla possibilità della distruzione dello stato di cose esistenti (magari ognuno con la propria ricettina, ma sappiamo tutti di potercela fare…), quanto di decidere cosa è in realtà necessario eliminare per impedire che quello che abbiamo cacciato fuori dalla porta si riaffacci subdolamente alla nostra finestra, scherzo di pessimo gusto al quale l’esperienza ci ha purtroppo abituati.
E l’aspetto più tragico di questo problema è che le nuove forme di autorità, molto spesso, non sorgono tanto dalle ceneri di ciò che si è appena raso al suolo, ma dalle file degli stessi realizzatori della rivoluzione. La Russia, appena liberata dal tallone degli zar, non dovette soccombere ai tentativi restauratori dei generali bianchi, ma alla nuova volontà di dominio di coloro che si presentavano come i suoi liberatori. Ed in Spagna si è dovuto addirittura assistere al dramma di anarchici costretti a piegarsi di fronte alle «ragioni» e al «buon senso» di altri anarchici.
È in queste condizioni che anche i più volenterosi tra noi cominciano a dubitare della possibilità di riuscire mai a prosciugare veramente il mare del potere. Possibile dunque che la logica dell’oppressione sia tanto diffusa che neppure i suoi nemici dichiarati, messi alla prova dei fatti, riescono a trovare un’alternativa che non ne perpetui i disastri? Possibile che le «esigenze reali» ci costringano sempre a negare la nostra volontà, i nostri desideri, i nostri sogni?
Il problema, credo, è un po’ diverso. Scrive Nietzsche che «se guardi a lungo un abisso finirà che l’abisso guarderà dentro di te», vale a dire, per essere più espliciti, che a forza di convivere, benché nolenti, col potere, di osservarne l’apparenza spettacolare, di avere a che fare con le sue manifestazioni quotidiane più consuete, di misurarci con lui sul piano che lui stesso ci impone, di accettarne le regole di combattimento, ovvero, in poche parole, a forza di accettare le regole del gioco politico, noi stessi finiamo per assimilarci ai suoi meccanismi di funzionamento.
Anche se è ben lontano da noi il delirio leninista che pretenderebbe di conservare intatta la macchina dello stato per «asservirla» alle necessità del comunismo, non di meno anche noi anarchici, troppo spesso, accettiamo di prendere parte ad una partita in cui la fregatura non sta nel vincere o nel perdere, ma già nel partecipare. Non solo, ma dalle nostre stesse file ogni tanto sbuca fuori qualcuno che, col tono grave e il cipiglio duro, tira le orecchie e redarguisce aspramente gli «sventati» che si rifiutano di stare al gioco: «Compagni, questo non è politico», «bisogna essere più tattici, bisogna saper cogliere anche nelle posizioni altrui gli spunti libertari che contengono», «se fate così la gente non ci capirà mai, non verrà mai con noi», «certe cose, anche se si fanno, non si devono dire» e via di questo passo.
Non è certo una gran novità, ma varrà la pena di ripeterla: o si rifiutano le regole del gioco politico, oppure si è destinati a giocare in eterno un ruolo subalterno alla logica del potere, a non essere altro dei raccattapalle che rimettono continuamente in gioco le palle uscite dai limiti del campo.
Ci sono compagni anarchici che ritengono, senz’altro in buona fede, di far cosa utile alla rivoluzione accettando il confronto col nemico sul piano del dibattito, illudendosi che sia sufficiente riuscire a dimostrare di «aver ragione» per aver compiuto qualche passo avanti, mentre invece i loro interlocutori se la ridono bellamente del proprio «torto» e continuano tranquillamente a sfruttare l’unica ragione che interessi loro, quella della forza.
Ci sono compagni anarchici che sono convinti che sia sufficiente mettere le azioni altrui sul tavolo delle analisi, squartarle, vivisezionarle, portarne alla luce tutti i bubboni autoritari che ne impestano le fibre, per aver automaticamente fornito una alternativa a quel modo di agire, mentre nella pratica non solo niente viene fatto per essere noi ad attaccare lo stato «nel modo giusto», ma neppure un solo atto viene compiuto che ponga i sedicenti rivoluzionari autoritari di fronte alle proprie concrete contraddizioni.
Ci sono compagni anarchici che, senza probabilmente rendersene conto, basano le loro analisi, le loro riflessioni, le loro affermazioni, sugli stessi dati e sulle stesse metodologie usate dal potere per spacciare le sue «verità» prefabbricate, rivestendole semplicemente di una terminologia rivoluzionaria e portandone all’estremo le conseguenze logiche, e così facendo si limitano in realtà a portare il loro piccolo tributo all’altare della pretesa «scientificità», della cosiddetta obiettività, sul quale altare viene quotidianamente sacrificata ogni follia rivoluzionaria.
È tempo di chiarire, una volta per tutte, che non si può essere rivoluzionari anarchici alla stessa maniera in cui si può essere socialdemocratici, eurocomunisti, marxisti-leninisti o trotzkisti- posadisti, che la nostra non può essere una (magari la più «estrema») delle tante posizioni politiche, che non si può lottare e combattere per l’anarchia (cioè, non dimentichiamolo, per la negazione di ogni potere) con lo stesso distaccato fair-play con cui ci si batte per l’affermazione del mao-tse-tung-pensiero o con la stessa tranquillità con cui si affronta una tavola rotonda sul riflusso degli ex sessantottini.
Nostro compito, nostro desiderio, non è di redimere i «cattivi amministratori» del potere, ma di distruggerlo fino nelle sue più minuscole terminazioni e nel far ciò ce la dobbiamo vedere col suo cinico apparato di violenza non meno che con la sua capacità di protendere i suoi tentacoli fin dentro i nostri cervelli. Per questo dobbiamo essere capaci di combattere contro i suoi mercenari così come contro noi stessi, contro le sue armi così come con i nostri dubbi, con la sua capacità di recupero così come con le nostre certezze. E tutto questo con lo svantaggio di non avere alcun modello al quale ispirarci, ma col vantaggio della consapevolezza che, essendo totalmente estranei alle regole del suo gioco, non possiamo esserne sconfitti.
Solo se riusciamo a raggiungere un punto tanto distante da lui da comprendere tutto il mare nel nostro sguardo e da distinguerne i confini, solo allora vedremo e capiremo che nessun mare è troppo grande da non poter essere prosciugato, prima o poi.
La conchiglia
Sant’Agostino, o chi per lui, guarda il mare che abbiamo davanti, poi guarda la conchiglia che teniamo tra le mani e sorride con aria di sufficienza: non potremo mai farcela, è un problema di proporzioni, un problema di efficacia e sembrerebbe, «ragionevolmente», aver buoni motivi per deriderci. In realtà è solo la sua immensa ottusità che lo fa sorridere.
Di emuli di Sant’Agostino, ne ho già accennato, è pieno il mondo e ne sono, purtroppo, piene le nostre file. Tutti coloro che si sono accinti di buona lena a qualche compito, specie se questo consisteva nella distruzione dello stato di cose esistenti, hanno prima o poi incontrato sulla loro strada l’esperto di turno che, molto pazientemente, ha spiegato loro che non era quello il modo, che gli strumenti usati erano inadeguati, insufficienti, inefficaci e dunque tanto valeva lasciar perdere. Perché il bello di questi esperti sta proprio qui: nella quasi totalità dei casi, tutte le loro raffinate dissertazioni sui mezzi mirano ad un’unica e immutabile conclusione: convincerci a lasciar perdere. Se vi suggeriscono che un muro non si abbatte con un punteruolo, ma con un piccone, mai una volta che si abbia la soddisfazione di vederli impugnare quel piccone: si limitano a togliervi il punteruolo dalle mani e a girarvi le spalle tutti contenti. Oppure, nello sporadico caso in cui si assumano il disturbo di dimostrare in pratica l’efficacia degli strumenti da loro suggeriti, sopportano con evidente fastidio la vicinanza di chi, non pensandola come loro, si accinge alla stessa opera nel modo che gli pare più rapido o piacevole, e dicono e fanno di tutto per convincerlo a togliersi di torno, lui e le sue idee balorde, e a lasciarli lavorare in pace, che loro sanno come si fa. Da quando poi, con l’avvento dell’epoca consumistica, la rivoluzione è divenuta un bene voluttuario presente sul catalogo di tutti i supermercati, gli esperti in rivoluzione spuntano folti come i funghi nel bosco dopo la pioggia.
Escludiamo ora il caso che l’accanimento con cui tanti compagni si dedicano a convincerne altri a lasciar perdere sia dettato da mala fede, ammettiamo cioè che tutti coloro che si definiscono rivoluzionari siano realmente interessati a prosciugare una volta per tutte il mare del potere. Per la verità, sappiamo che non è così, sappiamo che esistono personaggi che amano vestire i panni degli incendiari solo per far colpo in società, mentre in realtà si trovano perfettamente a loro agio nella situazione esistente, forse proprio perché gli consente di atteggiarsi a spaccamontagne con poco rischio e poca spesa. Ma ammettiamo pure che questo fenomeno non esista, sia per semplicità di ragionamento, sia perché con gente di questo tipo c’è ben poco da discutere: sono nemici al pari degli altri e anche dei più subdoli.
Ciò che ci interessa invece capire è perché anche tra i sinceri rivoluzionari abbondino coloro che spendono tanta parte delle loro energie a tentare di convincere altri sinceri rivoluzionari a cessare i propri sforzi, ad abbandonare la strada intrapresa. E si badi bene che questa strana abitudine non è esclusiva di un tipo particolare di compagno, la si ritrova, anche se con frequenza maggiore o minore, tra i sostenitori della lotta armata come tra coloro che propugnano la disobbedienza civile, tra gli assertori del sabotaggio come tra chi si dedica ad interventi pedagogici. Se da un lato le Brigate Rosse sostengono che solo il Partito Comunista Combattente potrà portare il proletariato alla vittoria e tutto il resto non è che retaggio piccolo-borghese, dall’altro canto un mucchio di rivoluzionari non perdono occasione per ricordarci che, al di là di ciò che sia necessario fare da oggi al «dì fatato» dell’insurrezione, chiunque impugni un’arma prima della fatidica «ora x» non è altro che un provocatore, un folle o, nella migliore delle ipotesi, un suicida.
Il fatto è che molti di noi tendono ad innamorarsi dei propri progetti e delle proprie realizzazioni sino al punto da considerarli come gli unici degni di essere salvaguardati, o si invaghiscono a tal punto delle proprie analisi da stabilire, in base a quelle, rigorose tabelle di marcia verso la rivoluzione che devono essere rispettate alla lettera, o ancora investono tanto della propria soggettività nelle strutture organizzative di cui fan parte, da considerarle il centro del mondo e la pietra di paragone con la quale misurare l’intero universo sociale.
I progetti, le realizzazioni, le analisi e le forme associative altrui non vengono viste, non dico come possibilità alternative alle proprie, ma neppure come fattori concomitanti che, dirigendosi ad un medesimo scopo, possano aiutare, sia pur in misura minima, la realizzazione di quel compito finale che è anche il nostro.
Se non si è d’accordo con l’uso di un certo strumento, non si considera quello che di buono altri compagni possono trarne, ma solo la misura in cui può danneggiare la nostra particolare strategia o i rischi ai quali può esporre le nostre persone o la nostra organizzazione. In questo modo, il nemico diventa sempre meno il potere che ci sta di fronte e sempre più il compagno col quale non siamo d’accordo e che cercheremo allora di screditare, di svilire, di demonizzare. Rendendo con ciò un eccellente servizio allo stato.
Non ci accorgiamo così che lo strumento specifico che usiamo in un certo momento ha un valore che gli viene dato solo dalla nostra coscienza, dalla nostra passione rivoluzionaria, dalla nostra determinazione distruttrice e dalla nostra volontà creatrice. Separato da tutto ciò torna ad essere un oggetto inanimato, un pezzo di carta, di legno o di metallo, privo di significato per noi come per coloro contro i quali vorremmo rivolgerlo. Non ci accorgiamo che non esiste in realtà un mezzo privilegiato del lavoro rivoluzionario, se non la nostra soggettività antagonista e che solo la determinazione di scagliarla contro il potere rende validi e utili tutti i mezzi che più sembrano adatti alla nostra fantasia, alla nostra rabbia, alla nostra lucidità.
Se siamo convinti di questo, allora perdono di senso e si riducono a semplici masturbazioni intellettuali anche tutti i contorti ragionamenti sulla corrispondenza tra mezzi e fini, che si basano quasi sempre su un più o meno involontario equivoco, cioè che fra gli strumenti che abbiamo oggi a disposizione ne esista qualcuno che non sia in qualche modo inquinato dall’esistenza dello sfruttamento e dell’oppressione. Mi pare che non si possa negare che tutti i mezzi che abbiamo oggi a nostra disposizione sono prodotti dal potere, proprio come tutte le conchiglie sono gettate sulla spiaggia proprio dal mare.
Una pistola, di per sé, non è né buona né cattiva, e non è certo in grado di far male a qualcuno se non c’è chi la impugni. Non c’è dubbio che nelle mani dello stato e dei suoi servi si trasformi in un efficace strumento di oppressione, così come non v’è dubbio che nelle mani di un compagno possa salvare più vite umane di quanto non ne distrugga. Alla stessa stregua, una macchina da scrivere non è in grado di insegnare o raccontare alcunché, se non c’è chi la usa e chi sa (o vuole) leggere quello che ha scritto. Non v’è dubbio che nelle mani di un Indro Montanelli si trasformi in un micidiale mezzo di rincoglionimento, di oppressione e di asservimento, capace forse di provocare più vittime di un mitra, così come non v’è dubbio che nelle mani di un compagno possa servire ad aprire gli occhi a molta gente (o per lo meno a qualcuno).
I problemi sorgono, invece, quando gli strumenti acquistano, nelle nostre mani e nei nostri cervelli, vita autonoma e cominciano ad assumere i connotati di un fine da raggiungere e difendere ad ogni costo. Questa metamorfosi la vediamo svolgersi ogni giorno sotto i nostri occhi e non certo con frequenza maggiore se si tratta di armi anziché di una rivista gestita da rivoluzionari e se siamo costretti a continuare ad assistervi, nonostante tutti i buoni propositi uditi tante volte, è nuovamente perché dimentichiamo (o preferiamo dimenticare) che solo in noi stessi, nelle nostre persone, nelle nostre individualità sta l’inizio e il fine, la causa e lo scopo della lotta per la libertà.
Quando la nostra tensione autocritica si assopisce, quando le difficoltà quotidiane sembrano sovrastarci, quando la realtà si rifiuta di combaciare coi nostri desideri, quando la passione lascia il posto all’abitudine, allora è comodo trasferire sugli oggetti, sugli strumenti le nostre responsabilità, e le nostre colpe. Quando la nostra mano e la nostra mente sono stanche di togliere acqua dal mare, allora è facile dire che la conchiglia è troppo piccola.
E ancora, quando ci illudiamo di essere arrivati ad un punto fermo, dimenticando che la vita umana non può conoscere staticità senza trasformarsi in sopravvivenza da zombie, e ci scopriamo improvvisamente sorpassati dal corso degli eventi, imbrogliamo solo noi stessi cercando di convincerci che non siamo stati noi a volerci fermare, ma le nostre scarpe che si rifiutavano di andare avanti.
Solo se siamo abbastanza forti e sinceri con noi stessi da saper ogni volta rimetterci in discussione, da riuscire ogni volta a bruciare alle nostre spalle i ponti che ancora ci collegano a ciò che è passato, a ciò che è morto, solo allora eviteremo che sia lo strumento a guidare la nostra mano e non viceversa. Dobbiamo aver ben chiara la coscienza che nella battaglia tra libertà e oppressione, tra vita e sopravvivenza, tra rivoluzione e potere, ciò che è essenziale è continuare a portare colpi contro il nemico, da ogni parte, con ogni strumento e qualunque sia la forza delle nostre braccia, perché il più debole, il più confuso, il più arruffone dei combattenti è più utile del migliore dei critici che, comodamente sprofondati nella loro poltrona davanti al video, continua a commentare, scuotendo la testa: «Così non va, non sapete come si fa, state sbagliando tutto, lasciate perdere…».
Sant’Agostino e tutti i suoi emuli variamente mascherati possono andare all’inferno: nessuna conchiglia è troppo piccola per prosciugare il mare, se ognuno di noi si dedica a quest’opera con tutta la sua volontà, la sua intelligenza, la sua rabbia, la sua passione.
[Anarchismo, n. 35, aprile 1981]
http://individualismoanarchico.blogspot.com/2013/10/il-bambino-il-mare-e-la-conchiglia.html