Rivalutazione della polizia

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 Alfredo M. Bonanno

 

La concezione moderna della polizia, per quanto strano possa sembrare, è tale proprio perché regge un significato restrittivo, cioè si chiude all’interno della pubblica sicurezza, della sicurezza dei cittadini. Oggi si parla di polizia proprio perché è diventato possibile staccare un’attività politica di natura differente, cioè come organizzazione del potere statale in senso più ampio e sufficientemente astratto. Non è senza interesse guardare all’evolversi di questa distinzione, anche perché essa potrebbe avere ormai fatto il suo tempo e si potrebbero ripresentare, come di fatto si annunciano, tentativi di accorpamento tra le due attività di potere.

I Greci non possedevano una polizia, né avevano l’idea di un sistema organizzato di pubblica sicurezza. Anche i Romani ne mancavano e vi supplivano con la medesima struttura politica dello Stato, da cui l’antico termine politica, ricalcato dal greco politeia. In epoca moderna, per trovare teoricamente una concezione della polizia nel senso della sicurezza interna occorre arrivare all’epoca dei teorici della Ragion di Stato, cioè Botero e altri. Nel secolo scorso, in Italia, il Tommaseo poteva addirittura considerare come assente dalla lingua italiana il termine polizia e valutar ne l’uso come qualcosa di scorretto, un grechismo da condannare. Frattanto, di fronte ai problemi linguistici, la pratica dei delegati di polizia andava diffondendosi e, il fatto, come sempre succede, sostituiva la teoria. Gli Inglesi si preoccupavano, nel Settecento, di distinguere tra police, intesa come governo di una città, di un luogo, e policy, l’arte del governo di un regno o del “commonwealth”, dove la distinzione si ripercuote anche dalle nostre parti con quelle due attività che vennero precisate reciprocamente come “bassa e “alta” polizia.

Di queste incertezze pratiche e teoriche, dove non era secondario il problema della virtù da ricercarsi nell’alta polizia, mentre nella bassa ogni commercio di manutengoli veniva tollerato, si vede ancora l’eco moderna nelle incertezze teoriche che si collegano al termine politica. L’antica politeia ignorava il problema della sicurezza pubblica, perché poteva limitarsi alle regole e alle formule in base alle quali si vive insieme in una comunità. ricca certamente di conflitti, ma dove i conculcati avevano uno stato loro irrimediabile, la schiavitù, che non poteva far pensare a ribellioni se non talmente estreme da attenere direttamente alla guerra civile. Né custodia di beni e persone potevano far sorgere problemi attuali, quando la maggior chiarezza della distribuzione di classe permette di identificare consistenti masse di persone fortemente in credito di beni, e quindi vogliose di rimettere la bilancia in pareggio, in qualsiasi modo. E la paura che questa pressione enorme ha provocato non ha fatto solo allargare le viuzze medievali (dove ci si difendeva agevolmente dai saccheggiatori e dai pirati, e poco agevolmente da una sommossa popolare), ma ha creato corpi permanenti di pubblica sicurezza.

Lo Stato moderno, astrattamente, giustifica se stesso come unico garante della condizione “civile” che consente ai cittadini la certezza della propria esistenza fisica, priva da attacchi ingiustificati. Questa finzione trova, di volta in volta, limiti di applicazione mutevoli in conseguenza dei rapporti di forza consentiti dallo scontro di classe, comunque, al di là di questi mutamenti, trova anche un limite concreto nell’istituzione poliziesca. Il fondamento fittizio non sta tanto nella pretesa di garantire. perché lo Stato in effetti garantisce mediamente qualcosa e non solo ai benestanti, ma nella pretesa di indicare, nello sviluppo storico progressivo delle istituzioni di sicurezza, un miglioramento certo della convivenza civile. La polizia, come attività statale non è sfuggita, nei moderni Stati democratici, a questa illusione storicista, per cui oggi sembrerebbe potersi concludere, e di fatto in questo modo si conclude ad ogni nuovo attacco fuorilegge, che tanto più si sviluppa la polizia, tanto più aumenta la sicurezza, equazione che si dimostra errata non appena viene posta con un minimo di correttezza non ideologica.

Nelle linee di sviluppo attuale dello Stato, nell’ambito delle grandi potenze postindustriali, sembrerebbe legittimo individuare movimenti riorganizzativi delle attività di polizia in senso stretto, cioè di pubblica sicurezza, e ciò al di là delle istituzioni specifiche che queste attività svolgono diciamo da un secolo e mezzo a questa parte. Sono due i corpi statali che sembra stiano per essere coinvolti: l’esercito e le comunità locali dei cittadini. Quest’ultima espressione della vita in comune, su cui si hanno poche considerazioni che non siamo macchiate di preconcetti deterministici, andrebbe studiata a fondo e non ne possiamo trattare qui in dettaglio. Voglio solo dire che strutture, poniamo, come i sindacati e i partiti, o come i comitati di quartiere, per finire nelle parrocchie o nei gruppi polisportivi di zona, sono di già mature per assumere un ruolo preventivo poliziesco, supportando nei fatti le attività repressive dirette. La televisione, integrandosi con i programmi di coinvolgimento in atto nelle scuole e in tutte le altre attività sussidiarie del tempo libero, sta a poco a poco rendendo possibile tutto ciò.

L’esercito, da parte sua, sta velocemente trasformandosi in corpo di polizia in terno. Sulle modificazioni riguardanti l’assetto politico internazionale, verificatesi in questi ultimissimi anni, tutti siamo sufficientemente edotti, quindi non vale la pena fornire dati, ma pochi penso stiano riflettendo a fondo sul significato di una trasformazione del militarismo tradizionale nel senso poliziesco vero e proprio. Le preoccupazioni di pubblica sicurezza si allargano, nello stesso momento in cui i compiti tradizionali dell’esercito si restringono all’interno in quanto fattispecie poliziesca. Ne risulta che questa restrizione che potrebbe fare mugugnare qualche vecchia pelle nostalgica delle parate militari, corrisponde di fatto ad un allargamento delle funzioni militari e per un altro verso, ad una forma tutta moderna e impensabile appena qualche anno fa, di militarizzazione della società.

Ciò fa apparire inadeguato il discorso antimilitarista cosi come l’abbiamo impostato fino ad oggi. raffrenato nell’antagonismo fittizio verso simboli e divise, bandiere e giaculatorie. Come spesso accade, più si sta attenti agli effetti esteriori, meno si capisce dove ci stanno indirizzando senza farcene accorgere. La finzione di polizia torna a diventare implicita al termine professionale della politica, e lo Stato che correva il rischio di apparire stupidamente repressore, se ne viene fuori rifondandosi completamente tutto sulla repressione, ma di nuovo conio.

La tutela della società intesa come “bene comune” serve, ancora una volta, a contrabbandare la tutela esclusiva degli interessi di una parte della società contro le pretese dell’altra parte.

Le trasformazioni produttive della società postindustriale rendono quindi indispensabili altrettante modificazioni nel complesso istituzionale delle forze armate di un paese democratico di considerevole importanza e di una certa dimensione. La funzione di polizia interna, quindi di ordine pubblico, rimbalza direttamente a livello internazionale, producendo interventi di polizia nei riguardi di Stati che si trovano in una posizione economica subalterna e che quindi possono presentare elementi di instabilità politica ed economica. Cambia la mentalità militare, come cambia la formazione del complesso industriale e militare. Adesso gli eserciti non si proiettano più nella fase classica di difesa. ma cercano di prevenire possibili movimenti interni ed esterni, ponendo le basi per interventi ortopedici anche a medio termine. Il concetto stesso di difesa si allarga e viene a sovrapporsi a quello di interessi produttivi del singolo paese o dei diversi gruppi di paesi che si fronteggiano in una mai sopita concorrenza economica.

Lo spazio per la circolazione di una determinata tecnologia, corrisponde più o meno esattamente a quel primitivo e arcaico modo di concepire lo spazio vitale che a suo tempo dette vita all’ avventura hitleriana verso Est. Ciò riporta allo scoperto i legami che esistono tra le maggiori aziende industriali e le forze armate, legami che si concretizzano sia nella rotazione delle commesse, come nella collaborazione reciproca, scambi di personale, interventi politici, autorizzazioni, funzioni esecutive di controllo e tutela interna ed esterna. I processi produttivi finiscono così per compenetrarsi con gli interessi e le prospettive militari, con assumere decisioni in contemporanea, in quanto eventuali valutazioni errate potrebbero danneggiare le intenzioni e i progetti di una delle due componenti, per concludere con una gestione coordinata anche delle condizioni di allarme in cui bisogna tenere la società allo scopo di rendere legittime e possibili non solo le decisioni produttive, ma anche le coperture militari spacciate come strumenti per mettere fine a quell’allarme.

L’antica ipotesi, cara alla sociologia americana degli anni Trenta, di uno Stato guarnigione, dove tutta la vita sociale è dominata da ideali e provvedimenti di tipo militare, risulta assolutamente lontana dalla realtà degli Stati capitalisti avanzati di oggi. Ma, osservando bene, lo Stato guarnigione sussiste, anche se ha smesso, almeno nelle sue manifestazioni più odiose, di suonare tamburi e calpestare selciati al passo dell’oca. E questo permanere degli ideali militaristi si è incrementato, proprio perché più nascosto, quindi più cosciente e più astuto, per cui più difficile da denunciare. Il dominio si trova di fatto, in queste formazioni statali, nelle mani di una minoranza unificata, in cui l’espressione economica, militare ed esecutiva sono se parate solo formalmente. Senz’altro oggi non ci sarebbe un’industria avviata a sostituire le proprie strutture con la conversione al terziario, se non ci fossero stati gli investimenti e le ricerche belliche, per cui a ben ragione possono dire i fautori del progresso pompato dalla guerra, che se questo è progresso, esso e stato determinato dal preparare e dal fare, senza soluzione di continuità, guerre e ancora guerre. Ma tutto questo è progresso? Pensiamo di no.

Sarebbe interessante studiare i passaggi che si stanno realizzando tra le vecchie collocazioni produttive, dovute ad un rapporto diretto tra grande industria – dotata di impianti fissi – e commesse militari; tra queste commesse e i progetti tecnologici di guerra; e, infine, tra la guerra moderna, così come l’abbiamo vista in atto nei Golfo, qualche anno fa, e il passaggio dalla produzione industriale a quella postindustriale. Resta da vedere se l’antica ideologia militare scomparirà del tutto, trattando si di una zavorra fra le più pesanti da buttare via. Di questo i tecnocrati al potere sono convinti, meno convinti sono i militari stessi che temono, buttando a mare le stellette e i simboli uniformati, di vedersi privati di alcune prerogative secolari che fanno comodo e che in tempi di formalismi grami tornano utili come si irrogato di risultati economici più concreti, risultati che nella logica della spartizione ineguale non sempre riescono ad accaparrarsi. Un passo in questa direzione sta avvenendo a livello d’istruzione tecnica fornita ai quadri militari dirigenti. Questi frequentano in sostanza gli stessi master dell’economia e della politica e ricevono, più o meno, la medesima istruzione privilegiata. Tutto ciò, con un pizzico in meno di tradizionalismo potrebbe fare avanzare di molto il dominio sostanziale del complesso militare, per mettendogli una migliore integrazione nell’insieme della formazione politica ed economica dei grandi Stati democratici di oggi.

E, per dirla con Tacito, sine ira et studio, sarebbe bene andare un po’ oltre le nostre analisi sul problema militare.

“Anarchismo”, n. 69, giugno 1992. Ora in “Dissonanze V”, ed. Anarchismo.