Luigi Fabbri
Questo eroe dell’azione e del pensiero occupa un posto che non gli spetta nella storia contemporanea, almeno in quella storia conosciuta per tale dai più, illustrata ed insegnata nella nostre scuole e scritta nei libri che hanno maggiore diffusione. Ciò fa sì che di Carlo Pisacane si sappia da tutti il nome, da pochi la vera essenza; — da molti si sappia come visse, che cosa fece e come morì; da quasi nessuno come pensò, perchè agì e quale idea lo conducesse a morire sotto i colpi ignobili dei villani nei dintorni di Sapri.
Carlo Pisacane, che Victor Hugo disse più simpatico ancora di Garibaldi, ha dettato ai poeti romantici e patriottici versi gentili ed a qualcuno ha fatto anche tentare il poema; la sua figura è stata idealizzata, né questo è un male. Chi non ricorda i facili e leggiadri versi del Mercantini?
Dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro
Un giovin camminava in mezzo a loro…
Ma, nascosto entro la nube dell’idealismo patriottico, il «bel capitano» dei trecento caduti a Sapri, una delle Termopili della unificazione d’Italia, ai nostri tempi, di positivismo e di ricerche scientifiche, non appaga più, completamente il nostro desiderio di sapere. Nonostante, c’è come una congiura — c’è stata, almeno, rotta appena da qualche tentativo mal riuscito — per non lasciar fuggire l’eroe dalla sua nube di poesia e di romanticismo; se pure non si vuol tener conto che gli amici delle odierne istituzioni, così maniaci nel voler ingombrare tutte le piazze ed i trivi del bel Paese con statue erette a quanti, bene o male, prepararono ad essi la cuccagna del potere, che questi uomini, dico, di Carlo Pisacane hanno taciuto quanto più era loro possibile, e più hanno taciuto di ciò che di fronte ai lavoratori del braccio e della mente è dell’eroe di Sapri il monumento imperituro: il suo pensiero.
La poesia e la leggenda è dimenticata presto; la vita materiale, sia pure eroica, d’un uomo perde coll’andar del tempo sempre più la sua importanza agli occhi dei futuri. Ciò che resta è l’idea che ha fatto vibrare la poesia, che ha dato anima all’azione dell’eroe; e la vita dell’eroe e la poesia che la circonda a un sol patto conservano imperitura la freschezza dei ricordi e dell’entusiasmo dinanzi ai posteri, a patto che se ne scorga chiara la relazione col pensiero che ha guidato l’eroe sul suo cammino terreno; e che questo pensiero contenga in sé una promessa ed una speranza precorritrice dei tempi. Eroe e martire della rivoluzione politica, Carlo Pisacane fu anche uno dei più grandi precursori della rivoluzione sociale, uno dei primi che alle odierne aspirazioni delle società umane hanno dato una base ed un contenuto positivo. Come italiani dobbiamo essergli riconoscenti per ciò che ha fatto onde non fossimo più sottoposti alla ferula borbonica, al mordacchio papalino ed al bastone tedesco; come uomini che combattono per la fratellanza internazionale dei popoli, per la vera uguaglianza economica e per la libertà integrale di tutti, anche maggiore riconoscenza gli dobbiamo; a lui, che mentre ci insegnava con l’esempio come si lotta e si muore per una idea, ci dettava fin da allora le prime parole della nostra idea socialista e libertaria.
Guardiamo dunque a Carlo Pisacane, come a Maestro del pensiero e dell’azione.
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Carlo Pisacane nacque a Napoli il 22 agosto 1818 dal Duca Gennaro di San Giovanni e da Niccolina Basile De Luna. Avendo perduto all’età di 6 anni il padre, sette anni dopo la morte di questo fu rinchiuso in collegio (1831), e precisamente nel Collegio Militare della Nunziatella. Quivi si distinse subito per il suo ingegno svegliato, specialmente nelle matematiche, ciò che rivelava la praticità insieme e l’acutezza della sua mente. Ancora collegiale, per quattro anni visse alla Corte di Napoli, come paggio del Borbone, rimanendo però sempre di costumi morigerati ed alteri. Nell’anno 1839, dopo aver superato splendidamente gli esami, uscì di collegio. Aveva 21 anni.
Fra i suoi concittadini salì presto a una certa rinomanza come ingegnere, sopratutto ingegnere militare; ed il governo lo adibì alla costruzione della ferrovia fra Napoli e Caserta. Dopo un certo tempo partì per gli Abruzzi, dove passò un circa 15 mesi; e ritornato quindi a Napoli, fu promosso dall’autorità militare al grado di sottotenente. Qui la sua vita trascorse senza incidenti notevoli, se ne togli che una sera nel rincasare venne assalito e ferito a morte da un ladro che tentava di derubarlo. Guarito, ebbe dal capitano Gonzales incarico di andare a dirigere la costruzione di una strada all’Antignano.
Intanto, da qualche tempo la sua attenzione era stata richiamata sugli avvenimenti politici che si andavano succedendo; e la sua mente non poteva non occuparsi delle questioni più urgenti in quel tempo. Il suo temperamento, la educazione ed istruzione che si era andata man mano impartendo da se stesso, non tardarono a fargli accettare le idee politiche più avanzate, a farne in una parola un rivoluzionario. Così si sviluppò in lui il desiderio d’una patria unita e della libertà, insieme ad un odio profondo per il regime «paterno» dei Borboni. Fu così che, desideroso, come sempre si dimostrò in seguito, di essere coerente a se stesso, l’8 febbraio 1847 rinunciò al suo impiego ed al suo grado ed emigrò a Londra.
Prima di seguirlo nella via avventurosa e battagliera dell’esilio dobbiamo accennare alla parte intima ed affettiva della vita di Carlo Pisacane. Egli fin dall’età di 12 o 13 anni, prima cioè di entrare in collegio, s’era invaghito d’una fanciulla sua coetanea; e quando uscì la trovò già sposata. Ciò non valse agli occhi suoi, ed anzi il tempo aveva raddoppiato il suo amore, che, condiviso dalla donna amata con pari intensità, spinse questa a lasciare il marito per seguire l’amante. Noi non faremo certo i puritani a questo proposito. Si sa come in quel tempo, e in certi ambienti anche presentemente, si combinavano i matrimoni: la donna quasi sempre era gettata nella braccia e sul letto d’un uomo prima d’allora appena conoscIuto e quasi mai amato. Questa donna aveva quindi il diritto di ribellarsi ad una unione che era stata forse un mercato, alla quale non era in grado di consentire scientemente. Di questo diritto si valse la signora D. che divenne da allora in poi la fida compagna di Carlo Pisacane, da cui ebbe una figlia, Silvia, adottata dopo la morte del padre e della madre da Giovanni Nicotera. Questa donna seguì Pisacane dappertutto, nella buona e nell’avversa fortuna, sua consolatrice.
E il nostro rivoluzionario, rimanendo a lei fedele fino alla morte, dimostrò con l’esempio la superiorità della unione libera determinata dall’amore, sulla unione legale forzata basata in interessi estranei al sentimento.
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Dopo breve soggiorno a Londra, Carlo Pisacane partì per Parigi, dove sollecitò il permesso di entrare nella legione straniera per addestrarsi alla vita militare, in vista degli avvenimenti che da un giorno all’altro potevano richiamarlo in Italia. Bisogna ricordare che a quel tempo, non risolta ancora per tutte le nazioni europee la questione politica, questa incombeva su tutti e ne determinava le attitudini. In un tempo in cui dalla sorte delle armi dipendevano molti problemi, anche nell’interesse della libertà era d’uopo essere alle armi addestrati per non essere inadatti anche in tempo di guerra a fare il proprio dovere rivoluzionario.
Entrato Pisacane nella legione straniera come sottotenente, il 5 dicembre 1847 fu mandato in Africa a combattere contro gli Arabi. E quivi si distingueva pel suo valore e coraggio, quando gli avvenimenti d’Italia lo richiamarono in patria. Il 12 gennaio 1848 Palermo era insorta, e l’11 febbraio susseguente il Borbone era costretto a largire al popolo la Costituzione. Tutta l’Italia era in fiamme — anzi tutta Europa — e Carlo Pisacane non poteva certo rimanere in Africa ad azzuffarsi cogli Arabi, che alla fin dei conti combattevano anch’essi per la propria libertà.
Ottenuto il congedo, egli tornò in Italia mentre si preparava la guerra contro l’Austria. Corse a Milano, e subito si arruolò fra i volontari della legione Borra, coi quali combatté poi valorosamente nel Tirolo. A Milano conobbe Carlo Cattaneo e gli altri animosi eroi delle Cinque Giornate; e fu per incarico appunto del Cattaneo ch’egli scrisse in quel tempo la sua memoria sul Momentaneo ordinamento dell’esercito lombardo del 1848, in cui mostrò fin da allora l’estensione e la profondità delle sue cognizioni e vedute tecniche in materia guerresca e rivoluzionaria.
Ma intanto a Napoli il Borbone affogava nei giorni luttuosi del 14 e 15 maggio la Costituzione nel sangue. Ogni alito di libertà fu soffocato in tutto il reame con le stragi del giugno in Calabria e con quelle del settembre in Sicilia, la cui resistenza ultima fu vinta. A Milano pel tradimento dei moderati e dei monarchici tornarono gli Austriaci, vinti già dalla rivoluzione, ma vincitori d’un esercito regio da cui lo spirito rivoluzionario era bandito. Carlo Pisacane si rifugiò in Svizzera. Qui per la prima volta egli vide e conobbe Giuseppe Mazzini, che gli pose subito grande stima, malgrado il disaccordo evidente di metodi e di idee fra i due uomini. Desideroso di moto e di lotta sul campo dell’azione, sulla fine del 1848 Pisacane entrò in Piemonte per arruolarsi nell’esercito sardo, che doveva continuare la guerra all’Austria.
Ma non appena si seppe della sollevazione di Roma del febbraio 1849, egli prese congedo e volò a Roma a portare alla giovane repubblica l’aiuto del suo polso d’acciaio, del suo ingegno e della sua esperienza nelle cose di guerra, su cui aveva fatti seri e profondi studi. Infatti dal governo repubblicano fu subito nominato membro della Commissione di guerra; e come tale egli fu che diede il migliore ordinamento alle milizie rivoluzionarie di Roma. Però desideroso come sempre di unire l’azione al pensiero ed al consiglio, l’esser egli uno dei capi tecnici dell’esercito dei volontari non gl’impedì di combattere a fianco di Garibaldi di persona con l’armi alla mano, e di prender parte a quasi tutti gli scontri col nemico.
Giuseppe Mazzini gli continuò anche allora la sua stima, benché fosse l’avversario accanito che tutti sanno delle idee razionaliste e socialiste del Pisacane; e lo fece colonnello. A proposito di Garibaldi, non torna inopportuno riferire il pensiero del nostro Pisacane, pensiero di positivista e di libertario, sull’entusiasmo dei volontari per l’Eroe dei due mondi. «Guai — egli diceva — allorché le masse giungono a credere all’infallibilità ed inviolabilità d’un uomo! Guai allorché le masse si avvezzano alla fede e non alla ragione! è questo il segreto sul quale fino ad ora si è basata la tirannide, che ha trovato facile la strada del conseguimento dei suoi disegni; dappoiché il pensare è fatica dalla quale rifuggono le moltitudini corrive sempre al credere.
Vinta la repubblica romana dalle armi francesi mandate dal Bonaparte, Carlo Pisacane fu prima imprigionato e quindi espulso da Roma. Ed egli se ne andò in Svizzera, a Losanna, da dove collaborò assiduamente nel giornale che Giuseppe Mazzini ed altri avevano fondato colà, L’Italia del Popolo. In questo giornale egli svolse le sue idee contro gli eserciti assoldati e permanenti, e sui fatti di Roma dal punto di vista militare. Dopo tre mesi di permanenza in Svizzera passò per Londra; e fu appunto a Londra che, datosi con maggior ardore agli studi delle questioni sociali, approfondì le sue idee in proposito ed accentuò ancor più la differenza delle opinioni sue da quelle di Mazzini e dei patrioti italiani.
Tornò quindi daccapo nel 1850 in Svizzera, e andò questa volta a Lugano, dove scrisse la sua memoria sulla Guerra combattuta in Italia nel 1848-49. In quest’opera le sue idee rivoluzionarie ed antiautoritarie si determinano ancor più: in esse dice che non bisogna avere alcuna fiducia nei principi e nella diplomazia per il trionfo della libertà, e combatte il principio della disciplina che suole essere imposta ai militari. Fedele ai suoi principi razionalisti e socialisti, sostiene che «la miseria e la religione sono i primi ausiliarii dei despoti», che «non si salvano le nazioni marciando alla guerra sotto l’insegna del privilegio e del cattolicismo », che la religione è l’ostacolo più potente che si opponga al progresso dell’umanità».
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Sulla fine del ‘800 Carlo Pisacane tornò in Italia, recandosi a Genova, dove, prima di ottenere il permesso di soggiornarvi liberamente, dovette restare per qualche tempo nascosto; ottenuto questo permesso si diede con maggiore entusiasmo allo studio indefesso dei problemi politici e sociali, che gli erano prediletti e non aveva mai abbandonati. Per essere anzi più tranquillo si ritirò ad abitare sul vicino colle di Albaro, in una specie di romitaggio. Intanto, nel 1851 l’editore G. Pavesi gli pubblicava la sua opera scritta a Lugano, La guerra combattuta in Italia nel 1848-49.
Logico, franco, integro, d’una fedeltà a tutta prova alle sue idee, non arrestò, come molti fanno, la coerenza con queste al di fuori della sua vita intima, ma la mantenne anche dentro l’ambito della propria famiglia. Quando nel 1853 gli nacque la sua bambina, non volle battezzarla, e solo ne fece una notifica per atto notarile al solo scopo di non privare la figlia dei diritti suoi dinanzi alle leggi civili.
Fu nel suo romitaggio di Albaro che Carlo Pisacane scrisse l’opera più importante della sua vita che completò nel 1855, e cioè i Saggi storici-politici-militari sull’Italia, libro che si divide in quattro parti: 1° Cenni storici. 2° Cenni storici-militari. 3° La rivoluzione. 4° Ordinamento dell’esercito italiano. Il libro non trovò subito editori, e solo fu pubblicato quando l’eroica morte del suo autore richiamò la generale attenzione sul suo nome, nel 1858-1860. Oltre questo libro, e l’altro accennato sopra, Pisacane ha scritto altre cose di minore importanza, fra cui una polemica col generale Rosselli sui fatti militari di Roma nel ‘49 nel giornale La voce della libertà, uno scritto per combattere le pretensioni della famiglia di Murat al trono di Napoli, «Italia e Murat» nel n. 225 del Diritto, ed un altro scritto «Murat e i Borboni» pubblicato nel n. 263 dell’Italia del Popolo.
Mentre il pensatore elaborava le idee, l’uomo d’azione non rimaneva ozioso. Carlo Pisacane continuò sempre a mantenersi in relazione coi suoi amici politici, specialmente col Comitato Nazionale di Napoli e col barone Giovanni Nicotera che risiedeva allora in Torino. Quando credette opportuno il momento di seguir più dappresso gli avvenimenti, lasciò Albaro (1856) e tornò a Genova.
II
Prima di seguire la vita del nostro rivoluzionario fino al suo epilogo, al sacrificio generoso di se stesso sull’altare della libertà all’ultimo martirio, arrestiamoci un istante a considerare la sua opera di pensatore e di filosofo.
Nel 1856, quando lasciò il romitaggio di Albaro, la elaborazione delle sue idee era in certo modo compiuta. Da allora fino alla morte, e non vi fu intervallo che di pochi mesi, tutta la sua energia la dette all’azione, fedele al suo principio che la miglior predicazione si fa con l’esempio, che la miglior propaganda è quella che si fa col fatto. A proposito della propaganda col fatto egli scriveva appunto che «la sola opera che può fare un cittadino per giovare al paese, è quella di cooperare alla rivoluzione materiale… Il lampo della baionetta di Agesilao Milano fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti dai dottrinari» (Testamento Politico). Seguendo questo suo concetto egli s’avviò al sacrificio.
Per comprendere, ripeto, l’importanza dell’azione di Pisacane, occorre saperne il pensiero. Ed il pensiero suo egli disse sopratutto nelle due opere principali da lui scritte e da noi sopra citate: La guerra combattuta in Italia nel 1848-49, e i Saggi storici-politici-militari.
Di queste due opere, certo gran parte non è più di attualità. Molte cose hanno perduto d’interesse, parecchie sono state smentite da una susseguente esperienza. Com’era naturale, si riscontra in esse una evidente contraddizione fra il teorico che vede tempi ancora lontani e l’uomo d’azione costretto a maneggiare armi non sue, ad accettar temporaneamente metodi non approvati. Così, egli nemicissimo delle sette e delle congiure, dovette congiurare ed insegnare agli altri a congiurare; nemico del militarismo, fu per quasi tutta la sua vita un militare e scrisse opere di guerra e di milizia; nemico d’ogni principio d’autorità, fu autorità egli stesso e capitano d’uomini anco andando a morire; negatore del patriottismo ed internazionalista, combatté tutta la sua vita per la liberazione della patria contro lo straniero… Ma la contraddizione è più apparente che reale; e fu in ogni modo contraddizione dei tempi, non dell’uomo, causata dal fatto che mentre altre nazioni avevano conquistata l’unità della patria e s’erano quindi date ad elaborare le nuove idee del socialismo e di emancipazione del quarto stato, in Italia c’era ancora il terzo stato schiavo, c’era ancora il principio di nazionalità da riaffermare. «Ripassin l’Alpe e tornerem fratelli!» gridava fra un momento e l’altro di paura il buon Manzoni.
Carlo Pisacane subì l’imposizione dei tempi, mai però lasciando di affermare le sue idee, e, individualmente, mai ad esse facendo oltraggio con la menzogna. Come dice il Colaianni «era, a giudizio di Pisacane, utile, era necessario che si sperimentasse la vanità della ricostituzione della nazione!». E soddisfacendo alla vanità del suo tempo, seppe combattere e morire, insegnando come si sarebbe dovuto combattere e morire per le idee da lui, fra i primissimi in Europa, enunciate in una forma razionale e scientifica.
Queste idee, sparse un po’ dappertutto nel suoi libri ed articoli di giornali, sono in special modo condensate ed esposte ampiamente e difese nella terza parte dei suoi Saggi, precisamente in quello che ha per titolo: La rivoluzione.
Il Saggio sulla rivoluzione ai tempi nostri, in cui in Italia si sente il bisogno di ricorrere agli stranieri per attingere idee e metodi di lotta, merita di essere additato come il libro in cui sono, alcune adombrate ed altre sviluppate, tutte le idee moderne di filosofia della storia, di socialismo e di rivoluzione sociale. Non che una verità non sia ugualmente tale se importata dall’estero invece che rivelata la prima volta al di qua delle Alpi. Ma a me sembra che sia una cosa molto poco «scientifica» presentare per nuova una teoria già vecchia, e aspettare ch’essa ci venga in forma astrusa non consentanea alla indole del nostro ingegno, tradotta e debitamente condensata e ridotta in pillole dal di fuori, quando in forma migliore e più consentanea alle nostre menti meridionali potremmo apprenderla da un libro di penna italiana, sol che ci affannassimo a scartabellare qualche catalogo delle nostre biblioteche.
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Chi legge il Saggio sulla Rivoluzione del Pisacane prova una grande soddisfazione unita a sorpresa, quella sorpresa che faceva gridare di gioia: Eureka! Eureka! Ho trovato gli scritti di Pisacane! al nostro Carlo Cafiero, che ritrovava nel libro d’un italiano le idee da lui in parte esposte poco prima nel suo compendio del Capitale di Marx, il primo compendio dell’opera del pensatore tedesco che si sia fatto in Italia.
Infatti, il concetto marxista della massima importanza della questione economica in rapporto alla minima di quella politica, si trova affermato e delucidato in Pisacane allo stesso modo se non più che nei libri di Carlo Marx e dei marxisti. L’interpretazione materialistica della storia è sviluppata (non importa che le parole materialismo storico non vi siano pronunciate, dal momento che ce n’è l’idea) nel Saggio sulla rivoluzione più che non sia accennata nel celebre Manifesto dei comunisti di Marx ed Engels. Perfino la teoria della concentrazione del capitale, ormai dimostrata inesatta e che ha fatto tanto furore fino a poco tempo fa, e della miseria crescente, è detta da Pisacane in pagine che, afferma il Colaianni, sembrano stralciate da Henry George. Così la stessa modernità di idee in Pisacane si riscontra quando scrive della fatalità delle rivoluzioni, della minima influenza della propaganda delle idee e della massima pressione dei bisogni.
Pisacane, pur professando la massima stima, affetto e rispetto per Giuseppe Mazzini, molto prima di Michele Bakunin criticò aspramente le dottrine del Maestro repubblicano ligure, sopratutto le idee religiose ed i metodi autoritari.
«Nel Saggio sulla rivoluzione, infine, — continua a dire Napoleone Colaianni nella prefazione succitata — si rinviene nettamente delineata la teoria anarchica col considerare il governo come un’ulcera, nel ritenere che una società si livella da sé e che la libertà non si apprende dagli educatori; nel combattere le leggi perchè riescono sempre a beneficio dei privilegiati che le fanno, nel giudicare che dev’essere spontanea la reciproca limitazione tra i diritti di tutti e legittima la soddisfazione di tutti i bisogni e delle inclinazioni di tutti; nel propugnare la formula: Libertà e Associazione, da sostituirsi a quella mazziniana: Dio e Popolo, e all’altra francese: Libertà, Uguaglianza e Fratellanza, che ai tempi di Pisacane erano in onore tra i rivoluzionari italiani». (Op. cit., pag. VII, VIII).
Di mettere in luce le idee rivoluzionarie, razionalistiche, socialiste e libertarie di Carlo Pisacane aveva in animo, prima che la malattia tremenda che lo condusse al manicomio e quindi alla tomba lo assalisse, il nostro Carlo Cafiero. Altri ne hanno parlato più o meno, fra cui gli amici Saverio Merlino in un opuscolo pubblicato a cura della Plebe in Milano nel 1878 (se non erro), Domenico Spadoni in un articolo o due della Critica Sociale di Milano di qualche anno fa, Niccolò Converti in diverse puntate della Questione Sociale di Paterson del 1895-96. Questo, senza parlare di altri autori, di altri articoli di giornali e di riviste in Italia e all’estero. Manca però ancora lo studio coscienzioso, che senza settarismo rimetta ancor più in onore la figura del Pisacane, come filosofo oltre e più che come eroe. Tale studio ci mostrerebbe Carlo Pisacane come uno dei più grandi ed acuti precursori della rivoluzione, come il primo pensatore e teorico del socialismo anarchico. Egli infatti, lungi dalle astruserie metafisiche e paradossali di Max Stirner come dal confusionismo e dal praticismo opportunista di G. P. Proudhon, fu il primo a fare una critica ragionata del principio d’autorità e del privilegio di proprietà individuale, che coonestò l’idea della libertà individuale a quella della socializzazione del capitale, che vedendo inseparabile la questione politica da quella economica, disse non potervi essere libertà laddove c’è privilegio, e che più forte e più nocivo dei privilegi è quello che fa dei pochi i padroni di tutto, e dei molti i servi di pochi.
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Un altro dei suoi meriti è quello di essere stato molto meno unilaterale di molti socialisti venuti dopo e che si sono chiamati da se stessi scientifici. Più scientifico di tutti, e meno dogmatico, assegnando a ciascuno dei problemi che agitano il pensiero contemporaneo il suo valore, non trascurò a profitto di uno solo tutti gli altri lati della questione sociale. Così, dando al lato economico della questione la più grande importanza, non trascurò il lato politico, e disse che l’uguaglianza economica non avrebbe potuto essere garantita che da una eguaglianza radicale in politica, e cioè dalla libertà individuale, non inceppata da leggi o governi, di ciascun associato.
Lungi dal trascurare la questione religiosa, ne affermò la grande importanza, ed ateo egli stesso, cercò di dimostrare la iniquità di tutte le religioni, e soprattutto quella del cattolicesimo. Molta parte del primo capitolo del suo libro su La Rivoluzione intende demolire l’ipotesi religiosa e deista della creazione. Nonostante, il suo ateismo non è una specie di bigottismo a rovescio come quello di molti nostri anticlericali, e non è neppure l’apriorismo dogmatico di molti materialisti alla Büchner. Da buon positivista egli non immagina, non afferma a priori. Sentite:
«Chi ha creato il mondo? Nol so. Di tutte le ipotesi la più assurda è quella di supporre l’esistenza di un Dio. E l’uomo creato a sua immagine; questo Dio, l’uomo l’ha creato ad immagine propria, e ne ha fatto il Creatore del mondo; e così una particella è diventata creatrice del tutto».
Sviscerando la storia e interrogandone la filosofia, Carlo Pisacane rintraccia le origini religiose di tutte le tirannie e di tutti privilegi, dimostra la enorme influenza perniciosa di tutte le religioni, e, preludendo agli ultimi moderni studi critici sul cristianesimo, nega che questo abbia portato alcun beneficio all’umanità, smentendone altresì la leggenda d’una origine libertaria ed egualitaria.
«Se qualche aspirazione alla fratellanza v’è stata, dice Pisacane, l’avvenire immaginato dai cristiani in tale aspirazione sarebbe stato la trasformazione del mondo in un convento… Per contro le dottrine dei moderni socialisti, fra le loro massime, non avvenne alcuna che dissolva o avvilisca; gli uomini oggi si associano non già per pregare e soffrire, ma per prestarsi vicendevole aiuto, lavorando per acquistare maggior prosperità e per combattere; l’aspirazione del socialismo non è quella di ascendere in cielo, ma di godere sulla terra. La differenza che passa tra esso e il Vangelo è la stessa che si riscontra fra la rigogliosa vita di un corpo giovane, ed il rantolo di un moribondo». (Saggio sulla rivoluzione, edizione citata, pag. 69-70).
Come si vede, Carlo Pisacane non sottintende la sua fede socialista; socialista si dichiara ed il socialismo difende a spada tratta. Già nella prima parte dei suoi saggi (Cenni storici) aveva affermato che «la proprietà, primo errore dell’umano istinto, era la più potente, se non la sola cagione della cancrena sociale». E prima ancora, nel libro La guerra combattuta in Italia nel 1848-49, aveva detto che «il progresso mira ad uguagliare tutte le classi, ed a proclamare la sovranità del diritto»… nel senso di un «socialismo fondato sull’utile di ciascuno, e non sull’abnegazione e sul sacrificio…». Nella medesima opera egli aveva già fatto il processo alla borghesia(*) nel modo più severo, ma sempre sopra un terreno eminentemente scientifico. La frase celebre di Prampolini «La miseria non nasce dalla malvagità dei capitalisti», con quel che segue di buono, ma non con l’ultima illazione pessima, era stata già detta da Carlo Pisacane nel La guerra combattuta: · «Egli è una verità incontrastabile, che i mali delle nazioni non dipendono dagli uomini, i quali non sono che i frutti delle loro costituzioni sociali, e da cui non bisogna attendere un’abnegazione sinora sognata per mancanza di principii». In qualche modo si direbbe che Pisacane precorre il venturo socialismo marxista anche nelle sue esagerazioni fataliste.
Così pure egli enuncia la teoria della lotta di classe applicata alla storia nel modo più moderno, seguendo l’evoluzione del proletariato nella triplice fase della schiavitù, del servaggio e del salariato, proclamando la necessità che anche quest’ultimo giogo sia scosso e che gli operai innalzino la bandiera che sventolò a Lione nel 1833, su cui era scritto: Vivre en travaillant, ou mourir en combattant, il motto cioè che Filippo Turati ha tradotto nel suo inno col ritornello:
O vivremo del lavoro,
O pugnando si morrà.
(*) Ecco il giudizio che Pisacane dà della borghesia: La borghesia, impotente per sé medesima, in Europa è tirannica ove regna, e demagoga ove è serva (La guerra combattuta, ecc.).
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Affermando che «l’Italia non ha altra speranza che nella grande rivoluzione sociale» (Saggio sulla rivoluzione, edizione citata, pag. 265) Carlo Pisacane si augurava che sorgesse anche nel nostro paese un partito socialista, che della coscienza dei propri mali sorta nel popolo si facesse bandiera. Scopo dell’azione di questo partito avrebbe dovuto essere, come appare evidente da tutto il complesso dell’opera del Pisacane, il socialismo anarchico.
Già, ne La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49, egli aveva detto che «l’era nuova verso cui ci avviciniamo a gran passi, ridurrà l’immensa e putrida macchina governativa alla sua più semplice espressione; il popolo non delegherà più né potere, né volere… Il genio è destinato a servire il popolo coi suoi lumi, ed ottenere non altro compenso che l’accettazione delle sue idee».
Ed il tipo di società verso cui secondo Pisacane gli uomini devono avvicinarsi è… «quella in cui ciascuno fosse nel pieno godimento dei propri diritti, che potesse raggiungere il massimo sviluppo di cui sono suscettibili le proprie facoltà fisiche e morali, e giovarsi di esse senza la necessità o d’umiliarsi innanzi al suo simile, o di sopraffarlo; quella società, insomma, in cui la libertà non turbasse l’eguaglianza; quella in cui in ogni uomo il sentimento fosse d’accordo con la ragione; e in cui niuno fosse mai costretto di operare contro i dettati di questa, o soffocare gli impulsi di quello. In tal caso l’uomo manifesterebbe la vita in tutta la sua pienezza… (Saggio sulla rivoluzione, edizione citata, pag. 2).
Or che cosa è questa se non l’anarchia degli anarchici odierni? Con i quali Carlo Pisacane va molto d’accordo, per esempio, nella critica al matrimonio e all’attuale organizzazione della famiglia. «Tutte le leggi, egli dice, sono scaturite dalle dipendenze che la violenza e l’ignoranza stabilì fra gli uomini; ed in tal guisa il matrimonio risultò dai ratti, che i più forti fecero delle più belle, per usurparne il godimento. La natura, per contro, sottopone l’unione dei sessi alla sola legge dell’amore, e se un’altra regola, qualunque siasi, interviene, l’unione cangiasi in contratto, in prostituzione… L’amore adunque, nel nostro patto sociale, sarà la sola condizione richiesta a rendere legittimo il congiungimento dei due sessi» (Saggio sulla rivoluzione, ed. cit., pag. 241).
Così, comune agli anarchici socialisti, Pisacane ha la relazione e filiazione che egli stesso trova delle sue teorie dalle idee dell’utopista Fourier; comune cogli anarchici ha il concetto della rivoluzione e della espropriazione, la critica al suffragio universale (che chiama amara delusione), al parlamentarismo ed al costituzionalismo. Ai repubblicani egli dice parole che sembrerebbero tolte ad un giornale socialista di oggi: «…i repubblicani dicono di non accettare il formalismo, ma combattono il comunismo, temono dichiararsi socialisti, propugnano il vangelo, in una parola negano la rivoluzione e vogliono la rivoluzione. Quali sono le riforme da essi desiderate? Si ignora, l’ignorano essi medesimi, e pretendono che il popolo, per conquistare questo futuro incognito, compia la rivoluzione, ed attenda che Iddio comunichi le tavole della legge ad un nuovo Mosè» (La guerra combattuta, ecc.). Chiama «strano ed assurdo argomento» quello dei dottrinari che sostengono che «bisogna educarsi al vivere libero, ottenere la libertà per gradi e non per salti, ed accettare una mezzana libertà come sgabello all’intera, come pegno di migliore avvenire» (Saggio sulla Rivoluzione, ediz. cit., pag. 93). «La libertà non ammette restrizioni di sorta alcuna, né fa d’uopo d’educazione o di tirocinio per gustarla; essa è il sentimento innato nell’umana natura» (Idem, pag. 98). Si dichiara contrario alle dittature rivoluzionarie (Idem, pag. 197 e seguenti), e parlando degli eroi delle rivoluzioni, da buon positivista sostiene che non questi fanno i loro tempi, ma sono i tempi, le circostanze e l’ambiente che creano gli eroi.
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Insomma, i libri del Pisacane sono una vera e propria miniera di idee per il socialista, per l’anarchico, per il rivoluzionario, per il sociologo. E — insisto nel notarlo — non si tratta di idee utopistiche fondate sul sentimento più che sulla ragione; non si tratta di concezioni astratte d’un immaginoso e generoso riformatore di uomini, come potevano essere i Moro, i Campanella, i Saint-Simon, i Fourier, gli Owen, i Cabet, ecc., ma di tutta una serie di osservazioni, di argomentazioni e di illazioni solide, positiviste e scientifiche, che il lettore, sorpreso, trova di aver lette e sentite mille volte in forma meno concisa e meno chiara, da autori vissuti parecchio dopo il Pisacane, più di questo saliti in fama di scienziati del socialismo.
Certo, molte idee da Carlo Pisacane appena accennate, sono state poi ampliate e precisate meglio, incanalate per le vie da lui non provvedute, per le diverse condizioni politiche dell’Italia di allora e per l’assenza di un partito socialista, e sopratutto per l’assenza del proletariato come classe militante. Ciò spiega le contraddizioni del nostro autore, quando dalle idee volendo passare a dar consigli pratici, come nel capitolo ultimo, non sa spastoiarsi di tutte quelle medesime istituzioni che ha criticato tanto aspramente.
Ma questo è naturale in un precursore a cui mancava la collaborazione della più piccola minoranza, che non aveva sotto gli occhi e sotto mano l’elemento principale per un’azione veramente socialista, il proletariato, e su cui influivano potentemente le condizioni politiche diversissime del proprio paese, le quali esigevano attenzioni ed azioni politiche più che sociali. Eppoi si sa bene c’è sempre incertezza in sul primo elaborarsi d’una idea; e Carlo Pisacane fu il primo (e forse il solo veramente originale, prima di Antonio Labriola) in Italia, e dei primi in Europa, a dare al socialismo un contenuto scientifico e veramente rivoluzionario. Forse che lo stesso Marx, lo stesso Bakunin, e tutti gli internazionalisti della prima ora, autoritari e libertari, non vagarono in principio in una quantità di incertezze, maggiori anche di quelle di Pisacane; prima di formulare un completo ed organico programma di azione? E c’è del resto anche oggi questo programma? È lecito dubitarne.
Ma Carlo Pisacane ha elaborato una dottrina più che un programma, ed un programma massimo più che un programma minimo. Una azione socialista era allora impossibile, e per aprire a questa la via c’era bisogno dell’azione rivoluzionaria politica. Carlo Pisacane comprendeva bene questa necessità, e non si ritirò perciò sul Monte Sacro a sognare il socialismo e ad aspettare che il tempo venisse di poter agire socialisticamente. Egli agì con gli altri rivoluzionari politici italiani perché questo tempo arrivasse più presto, ed agì in modo da insegnare con l’esempio ai socialisti d’oggi come si combatte e si muore per una idea.
Abbiamo visto come Carlo Pisacane fu un filosofo ed uno scienziato del socialismo; or vediamo come seppe essere un eroe della rivoluzione.
III
Ritornato Carlo Pisacane nel 1856 dal romitaggio di Albaro in Genova, dagli studi scientifici e sociali all’azione rivoluzionaria politica, molti stenti dovette durare per campare la vita. Insegnava privatamente matematiche, e non erano molto numerose le lezioni trovate, tanto che dovette, si può dire, soffrire letteralmente la fame, insieme alla sua compagna ed alla figliuola.
Mantenutosi sempre in relazione coi comitati rivoluzionari di Torino e di Napoli, queste relazioni fece più vive; e sui primi di maggio del 1857 si recò di persona in Torino a trovare Giovanni Nicotera, per proporgli senz’altro una spedizione insurrezionale nel Napoletano. A viva voce e per lettera, sentito anche il parere dei lontani, fu presto tutto combinato. Sorta una idea, Pisacane non tergiversava affatto prima di porla in azione, e correva diritto alla mèta. Fu stabilito che Carlo Pisacane, per essere del paese e sopratutto per le sue cognizioni tecniche e militari, avesse il comando supremo della spedizione. Egli infatti si mise subito all’opera, recandosi clandestinamente a Napoli, dove si abboccò con gli amici più fervorosi del Comitato nazionale, fra i quali ricordiamo Giuseppe Fanelli, il futuro internazionalista amico di Bakunin; e tutti gli assicurarono che uno sbarco sul suolo di Napoli di emigrati politici sarebbe stato seguito da una insurrezione generale. Vedremo poi come questa assicurazione fosse avventata e fallace.
Tornato a Genova, Pisacane fissò la partenza della spedizione per i lidi partenopei per il giorno 13 giugno 1857. Come si vede, non aveva perduto tempo. Ma un contrattempo fece rimandare di qualche giorno la partenza dei volontari; Rosolino Pilo, l’eroe della rivoluzione siciliana che doveva morire vicino a Palermo nel 1860 a capo dei picciotti insorti in aiuto di Garibaldi, incaricato di portare in alto mare una barca di armi, fu sorpreso da una tempesta, e costretto a gettare il prezioso carico in acqua a poche miglia da Genova. Dopo questo fatto Enrico Cosenz si rifiutò dì prender parte all’impresa, come aveva promesso; e allora Pisacane col passaporto di quegli ritornò daccapo a Napoli per concertarsi meglio, e non far avvenire un moto fuori tempo. Ne ritornò, dopo aver prese tutte le precauzioni e aver tutto provveduto, celermente, e stabilì insieme agli altri di partire da Genova di nuovo con i volontari della spedizione, il 25 giugno, dieci giorni dopo aver lasciato Napoli.
Alla vigilia della partenza, il 24, Carlo Pisacane scrisse il suo testamento politico, in cui dichiarava di credere «che il socialismo, nella formula libertà e associazione, sia il solo avvenire non lontano dell’Italia e forse dell’Europa». Affermava in esso di non avere alcuna fiducia per il risorgimento d’Italia nei regimi costituzionali, neppure in quello del Piemonte, che anzi credeva più dannoso all’Italia di quello borbonico. Vantava altresì la superiorità dei fatti sulle idee: «Le idee risultano dai fatti, non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero». E da questo concetto deriva la superiorità della propaganda coi fatti, cui abbiamo accennato più sopra, e la necessità della iniziativa rivoluzionaria individuale con queste parole: «Alcuni dicono che la rivoluzione deve farla il paese; ciò è incontestabile. Ma il paese è composto di individui, e poniamo il caso che tutti aspettassero il paese senza far nulla, la rivoluzione non scoppierebbe mai; invece se tutti dicessero: la rivoluzione deve farla il paese di cui io sono una particella infinitesimale, epperò ho anche la mia parte infinitesimale da compiere, e la compio, la rivoluzione sarebbe immediatamente gigante»(*). Diceva essere sua opinione che la spedizione sarebbe riuscita, ma che in caso contrario disprezzava coloro che avrebbero detto folle il suo tentativo, poiché nessuno farebbe nulla di ardito se prima aspettasse l’approvazione delle maggioranze; e concludeva di trovar premio solo dalla propria coscienza, e dal cuore dei suoi amici e cooperatori; e che del resto, se nessun bene fosse venuto all’Italia dal suo sacrificio, sarebbe stata sempre una gloria per lei aver trovata gente volenterosa d’immolarsi al suo avvenire.
(*) Questo Testamento Politico di C. Pisacane ha avuto una infinità di edizioni in Italia ed è conosciutissimo. Perciò mi sembra inutile ripubblicarlo intero. Esso è stato inserito in fondo al Saggio sulla Rivoluzione (edizione citata) a pag. 266, ed è stato pubblicato, per ciò che ricordo io, nella vita di Carlo Pisacane dall’on. Felice Visconti Venosta, senatore del Regno, e poi a cura del Lucifero in Ancona, e dell’Uguaglianza sociale in Marsala.
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Finalmente, il 25 giugno 1857, Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera, Battistino Falcone ed altri ventidue s’imbarcarono in Genova sul piroscafo Cagliari, diretto in Tunisia, toccando la Sardegna; e si imbarcarono alla chetichella, come passeggeri che non si conoscessero l’un l’altro. Però, appena lontani dal lido, a un segno convenuto si lanciarono tutti sui marinai e sul capitano. Li fecero prigionieri con la forza e li rinchiusero sotto coperta. Si unì a loro, benché non fosse della partita, anche qualche passeggero, e perfino un cameriere del piroscafo. Nominato capitano uno dei loro, a 20 miglia dalla spiaggia si aspettava Rosolino Pilo che doveva anche questa volta con una barca portare un carico di armi ai volontari. Ma sventuratamente una folta nebbia impedì a Pilo di veder il piroscafo, finché s’imbatté nella sua barca un piroscafo del governo sardo, l’Ichnusa, che la catturò. I congiurati in alto mare, capito che non v’era più da sperare su quell’aiuto, vollero proseguire lo stesso: «Impareranno i moderati — disse Pisacane — come poche anime generose sappiano iniziare grandi fatti, armati d’un pugnale soltanto».
Fortuna volle però che, navigando verso Ponza, si scoprisse che nel naviglio c’era già una cassa di 150 schioppi da caccia diretti a un armaiolo di Tunisi. Figuratevi l’allegrezza dei volontari! Per tutto il viaggio, da allora, non fecero che fabbricar cartucce e fonder palle adatte a quei fucili, che naturalmente, credettero bene di appropriarsi come diritto di guerra.
Il giorno 27 giunsero a Ponza, isola dell’arcipelago napoletano, in cui il governo borbonico teneva relegati molti condannati politici. Oggi in un muro dell’unica strada dell’isola si possono leggere in una lapide alcuni nomi di quei relegati. Il governo italiano non ha voluto in questo esser da meno del governo borbonico, ed anche lui ha mandato a più riprese a Ponza ed in altre isole del meridionale, relegati col nome di coatti, i socialisti e gli anarchici che con la loro azione politica lo disturbavano. Ma torniamo a Pisacane ed ai suoi amici.
Questi, giunti nella rada di Ponza, con un’astuzia attirarono a bordo ed imprigionarono il capitano di porto e qualche altra autorità del luogo più ingenua. Quindi in quattordici scesero a terra, assaltarono e disarmarono il porto doganale e la guardia dei veterani. I 300 soldati di fanteria che erano nell’isola di guardia, non sapendo di tanta inferiorità di numero, si arresero quasi senza colpo ferire. Pisacane impose loro la consegna delle chiavi delle prigioni, e quindi corse a liberare tutti i prigionieri politici, un migliaio circa. Uno di questi, per ricompensa si fece traditore dei suoi liberatori. Si chiamava De Leo. Istigò gli altri suoi condetenuti a non seguire Pisacane, che li aveva già tutti ingaggiati, e riuscì a distoglierne da lui quasi seicento. E mentre Pisacane e i suoi compagni stavano per partire con gli altri quattrocento rimasti fedeli, il De Leo su una barca si recò a Gaeta ad avvertire le autorità borboniche.
Intanto, nella notte, il piroscafo Cagliari con i rivoluzionari faceva strada verso il continente, e vi giunse innanzi che il giorno sorgesse. Carlo Pisacane ed i suoi marciarono precisamente dove s’era convenuto col comitato di Napoli, vicino al villaggio di Sapri. Qui però nessuno li aspettava; i soccorsi promessi non vennero, e nessuno rispose al loro appello di libertà. Venuto il giorno, gli abitanti in cui si imbattevano fuggivano spaventati, e dopo aver aspettato tutta la giornata del 28 pernottarono a Sapri, donde partirono l’indomani internandosi. A mezzodì del giorno 24 i volontari, che ormai possiamo chiamare i volontari della morte, giungevano a Torraca. Nessun volto amico neppure qui: attorno a loro silenzio, paura, abbandono, fuga. Perfino il barone Gallotti, che si sapeva liberale, corse dalle autorità a scagionarsi d’ogni solidarietà coi rivoluzionari sbarcati a Sapri. Giunti a Padula, un altro paesetto, 30 giugno, la cosa si ripeté: la gente fuggì atterrita o si nascose, come fossero arrivati i briganti, tanta era l’ignoranza di quella popolazione ed il loro feticcio attaccamento ai Borboni.
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Intanto il governo, avvertito, spediva battaglioni su battaglioni sui passi degli insorti, cercando di attorniarli. Contemporaneamente la guardia urbana di Sapri, di Torraca e di altri paesi dei dintorni si armò contro gli sbarcati dal Cagliari. Il Cagliari presto veniva raggiunto dalle navi borboniche e catturato, e presi prigionieri tutti i marinai e le persone rimastevi.
Abbiamo detto della guardia urbana; ma non si creda che questa fosse qualche cosa come la guardia civica o nazionale, che si istituiva durante le rivoluzioni del 1848 nelle varie città d’Italia. Era essa una guardia civica a rovescio, composta di tutti gli oziosi e le canaglie dei vari luoghi, assoldati dalla polizia in servizio della reazione. Era gente brutale, manesca, analfabeta, ignorante, quasi sempre rea di delitti comuni, attaccata ai borboni come l’ostrica allo scoglio. Circa 800 di queste guardie urbane, insieme a 200 gendarmi, s’imbatterono il primo luglio con i rivoluzionari, e attaccarono battaglia con essi. I rivoluzionari ebbero la vittoria, sbandando, dopo uno scontro accanito, le guardie e i gendarmi borbonici. Malgrado la vittoria però, gli insorti erano in tristi condizioni; stanchi e trafelati dopo tre giorni di cammino, e dopo un combattimento, non potevano trovar modo di riposarsi e tanto meno di rifocillarsi. Mancava loro pane ed acqua; e nessuno voleva darne. Tutte le porte venivano ad essi chiuse in faccia; e forse è deplorevole che i rivoluzionari non si prendessero con la forza ciò che loro veniva negato, chiesto con le buone e col denaro alla mano. La sete sopratutto che soffrirono fu terribile.
Mentre dopo la vittoria essi riposavano alla meglio sotto gli alberi, giunsero altre truppe nemiche. Questa volta erano otto compagnie regolari di Cacciatori borbonici, comandati dal tenente colonnello Ghio, il medesimo che nel ’60 doveva ignominiosamente fuggire davanti a Garibaldi.
Per giudicare dell’entità delle forze giunte all’improvviso sugli insorti, basterà dire che ciascuna compagnia Napoletana si componeva di 150 o 160 uomini. Mille e duecento soldati regolari e bene armati contro appena trecento volontari (che tanti eran rimasti) con munizioni scarsissime e con poveri fucili da caccia. Era il principio della fine…
La battaglia durò più di due ore, ma alla fine mancarono le cartucce ai volontari, e si dovette pensare ad una risoluzione disperata. O internarsi ancora nei monti, o morire battendosi alla meglio fino all’ultimo. Carlo Pisacane era del secondo parere, ma Nicotera lo dissuase, persuadendolo invece a battere in ritirata e ripiegare con gli altri verso il Cilento. Così cominciò la dolorosa ritirata — il Calvario. Nell’attraversare Padula il volgo si scagliò contro di loro, assalendoli di fianco, a tergo, gettando sul loro capo pietre e masserizie dalle finestre, uccidendone alcuni, altri facendone prigionieri, e assassinando anche cinque di questi. Il manipolo di generosi, assottigliato già nei precedenti scontri, si assottigliò così anche di più; erano rimasti in 96 da 400, attorno a Pisacane, Nicotera e Falcone.
Percorsero insieme, internandosi ancora, la pianura, e giunsero alle falde delle montagne di Buonabitacolo. Ahi! che non fu abitacolo buono per quei generosi! Stanchi, digiuni, assetati, tutti negavano loro asilo, acqua, pane. Smarriti, non sapevano ove andare: e solo un pastore si offerse loro di guidarli verso il villaggio Sanza. Credete voi che vi andassero per ottenerne ristoro materiale? No! Ancora la speranza di far insorgere quelle terre non era spenta in loro, e di nuovo baldanzosi, benché pochi e disarmati, entrarono il 2 luglio nel villaggio di Sanza a bandiere spiegate, Carlo Pisacane alla testa, gridando a gran voce: Viva l’Italia! Viva la libertà! Ma miglior sorte neppur qui doveva loro toccare.
Il popolaccio del luogo, mentre gli altri si nascondevano, tutt’altro che seguirli, si scagliò pur esso furibondo contro gli sventurati. Si armarono in un batter d’occhio di scuri, di forche, di falci e di bastoni, e li rincorsero fuori del villaggio, guidati dai preti e dai frati; e più furenti di tutti eran le donne!
L’ultima carneficina così cominciò. Alcuni degli ex relegati di Ponza si dispersero, cercando di sfuggire all’eccidio correndo via per la campagna e per i monti. Non rimasero che in dodici attorno a Pisacane, Nicotera e Falcone. La strage continuò su loro. Falcone presto cadde in un lago di sangue, e Carlo Pisacane, circondato da ogni parte, già ferito, fu mortalmente colpito da un fendente di scure, e tutti gli altri villani gli si lanciarono sopra finendolo a colpi di forche e di falci.
Così l’eroe finì la sua vita gloriosa e laboriosa, spesa, tutta nel pensiero e nell’azione per la libertà, a soli 39 anni, il 2 luglio 1857.
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Che cosa avvenne poi? Giovanni Nicotera stava per raccogliere e trascinar via il cadavere di Carlo Pisacane, quando una palla lo ferì alla destra ed altri colpi di scure lo stramazzarono a terra. Egli fu preso prigioniero, insieme agli altri, e trascinato via ignudo, fra gli insulti, le beffe, gli sfregi della plebaglia. Si fece contro loro e i complici e pretesi tali un gran processo a Salerno. Poche furono le assoluzioni, e molte le condanne più feroci. Giovanni Nicotera si portò valentemente in quel processo; con l’astuzia salvò dalla condanna i pochi che infatti furono assolti, ed al Procuratore fiscale che lo tacciò di mentitore, ricacciò in gola l’insulto scaraventandogli contro in piena udienza il calamaio di ferro del cancelliere.
Notiamo con rammarico questo contegno fiero del Nicotera; poiché pensiamo che molti anni più tardi, liberato dalla prigionia perpetua nel fosso di Favignana, cui l’aveva condannato il Borbone, e giunto al potere a capo dell’Italia una, cambiò siffattamente di pensiero e di sentimento da minacciare a una commissione operaia di lanciare la cavalleria sulle donne ed i fanciulli dei lavoratori, durante la manifestazione del Primo Maggio. Indegno davvero quel giorno si rese d’aver adottata ed ospitata in sua casa la figlia del socialista e rivoluzionario mortogli a fianco a Sanza! A tanto può giungere l’influenza pervertitrice e corruttrice del potere!
La compagna di Carlo Pisacane morì qualche tempo dopo del suo amico. Il primo che andò, è bene ricordarlo, ad annunziarle che il padre della figlia sua era stato ucciso, fu un giudice del governo sardo, recatosi a perquisirne la casa insieme al vice console del governo borbonico al quale, con atto di poliziesca deferenza, fu fatta prender visione di tutte le carte rimaste in casa del Pisacane. E verità storica vuol che si dica che chi quel giorno trattò più gentilmente e umanamente la vedova desolata, e la confortò di buone parole, fu il funzionario borbonico; per sola intercessione del quale, anzi, il villano giudice sardo non sfrattò in nome del governo piemontese dalla casa dell’eroe la sua compagna e la figlia.
Or l’iniquità dei tempi ha voluto che il desiderio di Carlo Pisacane non si sia avverato, che il risorgimento d’Italia non sia avvenuto com’ei voleva. Pensi la generazione che sorge a realizzare dell’eroe di Sapri l’alto ideale, quello che preconizzava non lontano, per gli uomini affratellati di tutte le patrie, un avvenire di vero benessere e di integrale libertà.
[1904]