Atene, Grecia: Testo di dieci anarchici detenuti nella quarta sezione del carcere di Koridallos

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In seguito ai recenti fatti avvenuti a Koridallos, crediamo sia necessario chiarire alcune questioni. Pensiamo sia importante non condannare o isolare politicamente la CCF nel suo insieme (ci riferiamo qui solo alle cellule dei prigionieri, dato che altre cellule firmano azioni compiute all’estero con la stessa sigla, e probabilmente non sono al corrente né sono responsabili delle azioni compiute da qualcun altro); meno che mai pensiamo che non si debba parlare di questi fatti per via dell’orientamento teorico della CCF. Condannare un’intera tensione anarchica per delle azioni e scelte che riguardano solo una parte di essa rappresenta la peggiore forma di politica. Che si tratti di anarco-sindacalisti o anarco-nichilisti, la critica dev’essere indipendente. Ciò di cui vogliamo parlare riguarda il comportamento autoritario che esiste all’interno del movimento anarchico, comportamento che spesso si esprime attraverso violenza fisica/verbale. Consideriamo la violenza una parte inseparabile della vita e dell’azione politica quando essa è diretta contro lo stato, il capitale e l’autorità; ma la consideriamo improduttiva, dannosa e auto-distruttiva quando viene usata come mezzo di mediazione nelle relazioni tra anarchici. Infatti l’obiettivo oggettivo della violenza è l’imposizione e l’instaurazione, nel modo peggiore possibile, di relazioni autoritarie tra persone che si suppone siano ostili a tutto questo. Gli unici risultati che tale uso della violenza ottiene sono trinceramento di posizioni, la distruzione della dialettica e l’annullamento pratico della nostra proposta anarchica.

Naturalmente tutto questo non è partenogenesi. Inoltre, un’inclinazione naturale all’autorità e all’imposizione esiste in tutti noi, così come esistono passione per la libertà e desiderio di uguaglianza nelle relazioni tra compagni. Spesso questa inclinazione sorge spontanea quale espressione di istinti contraddittori e si esplicita con o senza pretesti morali o politici, ma solitamente a causa di ovvie ragioni. Non è il caso qui di parlare della violenza manifestata per motivi personali all’interno di relazioni interpersonali, diremo solo che evitare tali metodi autoritari è una questione di coscienza e coerenza di valori.

Parleremo invece dell’uso della violenza come strumento di imposizione politica che, quando non diretto contro gli autoritari ma contro gli anarchici, distrugge letteralmente il significato della nostra visione anarchica: se, per esempio, l’uso della violenza viene esercitato durante una manifestazione contro compagni che scelgono una strategia di scontro con gli sbirri quando altri hanno una strategia diversa; oppure quando tale uso concerne una critica che qualcuno considera insultante o diffamatoria. Nel primo caso l’unica soluzione possibile è la sintesi di strategie diverse, e se questa non è possibile a causa di differenze di organizzazione, la soluzione è la creazione di traiettorie di lotta diverse. Nel secondo caso, le analisi abbondano. E’ luogo comune che una realtà qualsiasi viene vissuta diversamente da ciascuno in quanto le verità soggettive di ciascun compagno differiscono. Perciò, quando qualcuno muove una critica, è molto probabile che la persona oggetto di critica si senta calunniata. Il limite tra critica e diffamazione è molto sottile. L’unico modo di ripristinare la verità soggettiva della persona oggetto di critica è la parola. Nessuna imposizione violenta indica chi dice la verità, tale imposiziome indica solo chi ha più forza (fisica, organizzativa o armata).

In sostanza, comunque, l’invocazione di un codice d’onore che è stato oggetto di insulto o di un’immagine che è stata danneggiata non può avere nessuna relazione con il carattere iconoclasta della critica anarchica, la quale promuove un conflitto perpetuo desacrando il sacro e liberando lo spirito umano dall’anchilosi mentale.

Perciò, cercare di mettere fine a una controversia tra anarchici attraverso un atto di cruda violenza autoritaria può portare solo a due risultati: 1) lo scatenarsi di uno scontro-massacro ancora più violento tra anarchici, con abbondante versamento di sangue, saliva e inchiostro; 2) un assoggettamento di tutti ad un codice d’onore che produrrebbe l’annullamento della critica attraverso la paura e la conseguente soppressione dello strumento più importante dell’auto-evolversi dell’anarchia.

Certamente non ci illudiamo che il pestaggio del nostro compagno Giannis Naxakis fosse realmente dovuto all’esigenza di curare la “sifilide dell’introversione”. Leggendo tra le righe, poiché la CCF scrive che non c’è niente di giusto e niente di sbagliato ma che tutto è soggettivo, questa organizzazione potrebbe facilmente chiamare bugia la nostra verità e prenderci apertamente di mira quali diffamatori. Sapendo perciò che la minaccia di essere assassinati riguarda indirettamente anche noi, pensiamo anche che l’imboscata pianificata contro il nostro compagno sia stata il frutto di un piano politico-militare atto a imporre il silenzio su questioni riguardanti l’organizzazione in questione. Oltre al fatto che il ricatto in stile mafioso non ha nulla a che fare con i valori anarchici, esso è anche la dimostrazione di un comportamento estremamente autoritario e un’espressione di pericoloso totalitarianismo e feticizzazione della violenza, violenza che si ritrova potenzialmente rivolta contro chiunque. Tale piano si completa con un’altra minaccia contro il compagno: se non tiene bene a mente quello che è successo, avrà problemi in tutte le prigioni, finendo così in una sezione di isolamento/protezione.

E va da sé che il totalitarianismo altro non è che il risultato logico dell’uso della violenza come regolatrice della dialettica anarchica. E’ noto come dai ranghi del movimento rivoluzionario siano venuti fuori il terrorismo della ghigliottina democratica, la censura sanguinaria dello stalinismo e lo stesso fascismo. Possiamo perciò immaginare, per quanto possa sembrare un ossimoro, un’autorità ‘anarchica’ che esige l’accettazione della propria natura anarchica quale perequisito per non venire caratterizzati quali diffamatori del partito anarchico e finire nelle mani del boia. L’incubo peggiore per la proposta anarchica, nonché il pericolo che esso trovi spazio e si evolva nei pensieri delle persone, sono le azioni e le parole delle cellule della CCF detenute in prigione.

Ci sono tuttavia molte altre cose estremamente inquietanti nell’incidente in questione, come la scelta di rischiare lo scatenarsi di un ciclo di sangue tra quelli che sono considerati anarchici a Koridallos (all’interno dell’ambiente ostile della prigione), lasciando allo stato il ruolo di arbitro mentre dispensa ergastoli nelle celle bianche, e agli avvoltoi dei media quello di diffamare e indirettamente sminuire la nostra lotta di fronte al movimento anarchico, mettendo individui diversi in un insieme indivisibile, accusando tutti delle azioni compiute da uno o da pochi.

Il fatto che crediamo che nell’ambiente ostile della prigione non si debba ricorrere alla violenza autoritaria per contrastare altra violenza non significa assolutamente che accettiamo la via d’uscita strategicamente proposta nel testo delle CCF; al contrario romperemo definitivamente il silenzio che cercano di imporci con le minacce e saremo pronti ad affrontare le conseguenze di quello che diciamo.

Un altro aspetto dell’incidente che ci fa infuriare è che i picchiatori hanno usato la diffamazione come pretesto, un pretesto che già è stato usato anche contro di noi e contro altri progetti anarchici con i quali gli autori del pestaggio non concordano; e in questo essi hanno usato un linguaggio che mescola critica dura con empatia e aggressività. Per non parlare del fatto che quando hanno risposto alla critica (poco chiara e perciò atta ad essere fraintesa, secondo noi) del compagno Naxakis (che la rivolge anche contro di noi), critica che non voleva cercare una separazione ma solo esprimereun’opinione diversa, essi lo hanno diffamato pesantemente. L’argomento privo di sostanza secondo cui il compagno ha criticato le CCF per ottenere un trattamento più lenitivo in tribunale, inciampa sul fatto che il suddetto compagno ha deciso di rifiutare completamente la difesa. Nello stesso tempo, le accuse che gli si rivolgono, di egoismo e falsità, vengono smentite dal suo costante atteggiamento di sfida nei confronti dell’amministrazione carceraria. Il ricorso alla violenza fisica quale mezzo per imporre opinioni all’interno del movimento anarchico/anti-autoritario è precisamente la conseguenza del fatto che discussioni di piazza e ostilità personali vengono trasformate in dichiarazioni politiche, il che potrebbe essere dovuto a pigrizia mentale o vanagloria. La violenza verbale, che per anni è stata tollerata e reiterata nel movimento anarchico, sradica alcuni fondamentali valori anarchici – quali rispetto reciproco e comprensione – ed apre la strada al ricorso a tali pratiche violente.

In conclusione, la questione per noi non è raccontare un’altra pagina nera nella storia della lotta anarchica, né quella di isolare tendenze politiche o organizzazioni anarchiche; la questione è eliminare una volta per tutte un atteggiamento che denigra la sostanza della nostra lotta. Naturalmente non pretendiamo di essere vergini sante, molti di noi sono stati coinvolti in incidenti di violenza endo-anarchica.

Le celle della CCF attualmente in prigione ci hanno dato un esempio da non seguire, un esempio che rivela lo sviluppo di una cultura di violenza. E’ il caso di andare oltre.

Non si tratta, inoltre, di applicare un mezzo di misura anarchico o di giudicare se e quanto anarchico ciascun prigioniero sia. Questa logica porta facilmente a trasformare dei compagni in obbiettivi di attacco. Si tratta invece dell’intensità della violenza adottata (un braccio e una gamba rotti) come mezzo di pressione, volta a fare accettare le parole della CCF, e questo ci preoccupa non poco in quanto fa retrocedere quei valori anarchici di sensibilità e comprensione che ci hanno per primi portati ad essere disgustati dal sistema autoritario e a combatterlo.

Per sradicare una volta per tutte la violenza come strumento di imposizione endo-anarchica e rivolgerla invece contro lo stato e l’autorità.

Perché la “sifilide dell’introspezione” si può affrontare solo con l’azione contro il vero nemico e non in dimostrazioni machiste di forza.

Perché la verità oggettiva appartiene solo agli inquisitori. Chi sceglie la rivolta contesterà sempre l’idea di verità oggettiva, accettando il peso delle proprie scelte.

Gli anarchici:
Giannis Michailidis
Babis Tsilianidis
Andreas-Dimitris Bourzoukos
Dimitris Politis
Tasos Theofilou
Alexandros Mitroussias
Grigoris Sarafoudis
Giorgos Karagiannidis
Argyris Ntalios
Fivos Harisis

PS: Questo scritto rappresenta la nostra posizione riguardo l’agguato pianificato contro il nostro compagno. Abbiamo deciso di non trattare le questioni sollevate da Giannis rispetto all’atteggiamento delle cellule prigioniere della CCF, un atteggiamento che si manifesta da molto prima che accadessero i recenti incidenti e che uscissero gli ultimi comunicati. Abbiamo deciso di non farlo perché pensiamo che questo sia controproducente e non opportuno in questo momento. In ogni caso, sappiamo che la nostra esperienza personale è più facilmente fraintesa che compresa.

Traduzione di Actforfreedomnow!

 

http://it.contrainfo.espiv.net/2014/01/22/atene-grecia-testo-di-dieci-anarchici-detenuti-nella-quarta-sezione-del-carcere-di-koridallos/