L’anonimato (it/fr)

tumblr_mfashfHYQK1qjamt1o1_1280

«Allora io standogli accanto dissi al Ciclope tenendo con le mani una ciotola di nero: “su, bevi il vino, Ciclope, dopo aver mangiato la carne umana, perché tu sappia che bevanda è questa che alla nostra nave serbava. Te lo avevo portato in offerta, se mai impietosito mi mandassi a casa. Ma tu sei insopportabilmente furioso. Sciagurato, chi altro dei molti uomini potrebbe venire in futuro da te perché non agisci in modo giusto?”. Dissi così, lui lo prese e lo tracannò: gioì terribilmente a bere la dolce bevanda e me ne chiese ancora dell’altro: “dammene ancora, da bravo, e dimmi il tuo nome, ora subito, che ti do un dono ospitale di cui rallegrarti. Certo la terra che dona le biade produce ai Ciclopi vino di ottimi grappoli, e la pioggia di Zeus glielo fa crescere. Ma questo è una goccia di ambrosia e di nettare!”. Disse così, ed io di nuovo gli porsi il vino scuro.

Gliene diedi tre volte, tre volte lo tracannò stoltamente. Ma quando il vino raggiunse il Ciclope ai precordi, allora gli parlai con dolci parole: “Ciclope, mi chiedi il nome famoso, ed io ti dirò: tu dammi, come hai promesso, il dono ospitale. Nessuno è il mio nome: Nessuno mi chiamano mia madre e mio padre e tutti gli altri compagni”. Dissi così, lui subito mi rispose con cuore spietato: “per ultimo io mangerò Nessuno, dopo i compagni, gli altri prima: per te sarà questo il dono ospitale”. Disse, e arrovesciatosi cadde supino, e poi giacque piegando il grosso collo: il sonno, che tutto doma, lo colse; dalla strozza gli uscì fuori vino e pezzi di carne umana; ruttava ubriaco. E allora io spinsi sotto la gran cenere il palo finché si scaldò: a tutti i compagni feci coraggio, perché nessuno si ritraesse atterrito. E appena il palo d’ulivo stava per avvampare nel fuoco benché fosse verde era terribilmente rovente, allora lo trassi dal fuoco. I compagni stavano intorno: un dio ci ispirò gran coraggio. Essi, afferrato il palo d’ulivo, aguzzo all’estremità, lo ficcarono dentro il suo occhio; io, sollevatomi, lo giravo di sopra, come quando uno fora un legno di nave col trapano, che altri di sotto muovono con una cinghia tenendola dalle due parti, e sempre, senza sosta, essa avanzava; così giravamo nell’occhio il palo infuocato, reggendolo, ed intorno alla punta calda il sangue scorreva. Tutte le palpebre e le sopracciglia gli riarse la vampa, quando il bulbo bruciò: le radici gli sfrigolavano al fuoco. Come quando un fabbro immerge una grande scure o un’ascia nell’acqua fredda con acuto stridio per temprarla — ed è questa la forza del ferro — così sfrigolava il suo occhio attorno al palo d’ulivo. Lanciò un grande urlo pauroso: rimbombò intorno alla roccia. Noi atterriti scappammo. Dall’occhio si svelse il palo, sporco di molto sangue. Lo scagliò con le mani lontano da sé, smaniando: poi chiamò a gran voce i Ciclopi, che lì intorno in spelonche abitavano, per le cime ventose. Quelli, udendo il suo grido, arrivarono chi di qua chi di là e, fermatisi presso il suo antro, chiedevano cosa lo molestasse: “Perché, Polifemo, sei così afflitto e hai gridato così nella notte divina, e ci fai senza sonno? Forse un mortale porta via le tue greggi, e non vuoi? Forse qualcuno ti uccide con l’inganno e con la forza?”. Ad essi il forte Polifemo rispose dall’antro: “Nessuno, amici, mi uccide con l’inganno, non con la forza”. Ed essi rispondendo dissero alate parole: “Se dunque Nessuno ti fa violenza e sei solo, non puoi certo evitare il morbo del grande Zeus: allora tu prega tuo padre, Posidone signore”. Dicevano così, e rise il mio cuore, perché il nome mio e l’astuzia perfetta l’aveva ingannato».

Omero, Odissea

 

Fin dall’antichità non è mancato chi ha intuito e cantato la potenzialità dell’uso dell’anonimato. Solo se si è nessuno si può evitare di essere riconosciuti dai propri nemici. Si tratta di una sapienza greca che a quanto pare fa difetto agli anarchici della Cospirazione delle Cellule di Fuoco, alcuni dei quali — in un documento scritto in carcere, sottoscritto da un altro compagno detenuto ed inviato ad un incontro internazionale anarchico tenutosi a Zurigo lo scorso novembre — dedicano ampio spazio alle ragioni dell’utilizzo di un nome, di una sigla, di una identità ben precisa con cui rivendicare le proprie azioni di lotta.

Il loro è un testo particolare poiché, nonostante essi facciano parte del gruppo armato anarchico specifico forse più noto in questo momento, in un certo senso accoglie e fa propria gran parte della critica più diffusa al lottarmatismo, respingendo ogni separazione, ogni divisione di ruoli. Non esistono compagni che stanno in prima linea a maneggiare armi e compagni che stanno nelle retrovie a maneggiare carta, perché ogni mezzo è un’arma, si può impugnare uno striscione come una torcia, una pietra come la dinamite. L’acciaio è la materia prima sia delle pistole che delle penne. Non c’è nessuna gerarchia di mezzi, non c’è nessun feticismo tecnico. Tutti i compagni devono essere in grado di poter usare tutto. Fine dello specialismo. Perfetto. Resta però, insormontabile, la questione dell’identità. Di muoversi nell’oscurità, e non sotto le luci al neon, questi compagni greci non ne vogliono proprio sentir parlare.

Poiché hanno argomentato le proprie scelte, cosa che per anni molti altri anarchici che ne condividono il percorso non hanno ritenuto opportuno fare, rendendo quindi impossibile ogni dibattito sulla questione, e avendo inviato il loro testo ad un incontro anarchico, è evidente la loro intenzione di aprire finalmente una discussione su questi temi. Lieti della loro decisione, intendiamo qui apportare il nostro contributo.

 

Cominciamo dalla questione dei mezzi. Dopo aver precisato di non voler assolutamente porre limiti all’iniziativa anarchica e di voler generalizzare ogni conoscenza tecnica, scrivono questi compagni: «Crediamo sia necessaria la volontà che l’insorgenza anarchica diventi appropriabile, e che i mezzi non siano nient’altro che oggetti che le nostre mani e i nostri desideri sono in grado di scoprire. In tal modo eviteremo le separazioni fra “basso” e “alto” grado di violenza, e distruggiamo la riproduzione del mito sulla “specializzazione”. Un tipico esempio dell’azione anarchica multiforme è l’esperimento della FAI/FRI, i cui membri rivendicano sia striscioni di solidarietà e il blocco con colla delle porte di banche (in Perù e Bolivia), sia i colpi d’arma da fuoco contro l’amministratore di una industria nucleare in Italia o l’esecuzione di tre guardie municipali in Messico. Dopo tutto, in quanto Cospirazione delle Cellule del Fuoco, abbiamo iniziato anche noi più o meno così e questo senza cadere nella trappola dell’arroganza dei mezzi o di una loro gerarchia non ufficiale». Parole chiare, inequivocabili, ma… accompagnate da un esempio a dir poco assurdo. Perché è una vera follia che un’unica “sigla” rivendichi azioni così distanti — quanto a conseguenze — come l’esposizione di striscioni e l’omicidio di poliziotti. Il primo è un atto comune, alla portata di chiunque, a differenza del secondo. Di solito gli autori del primo gesto sono più facilmente rintracciabili, non richiedendo questo grandi precauzioni. Ma nell’esempio riportato essi rischierebbero di pagare le conseguenze anche del secondo, in particolare laddove entrambe queste azioni si verificassero nello stesso territorio. Oppure in Perù e in Bolivia gli anarchici della FAI/IRF si dovranno limitare sempre agli striscioni e alla colla? Oppure per compiere simili semplici atti dovranno avere le stesse attenzioni necessarie a ben altre forme di azioni?

Questi compagni greci trascurano completamente di prendere in considerazione alcuni meccanismi repressivi, come ad esempio l’uso del reato associativo, che paradossalmente e involontariamente si vedono favoriti dalla loro foga identitaria. Per chiarire quello che vogliamo dire, facciamo due esempi storici concreti. In Spagna, negli ultimi decenni del 1800, ci furono molte agitazioni sociali. Nella bassa Andalusia in particolare, si moltiplicavano gli incendi di vigneti e di raccolti, il taglio illegale di legna, il furto di bestiame, nonché gli omicidi. A differenza dell’anarchismo catalano, allora più vicino a posizioni legalitarie, gli anarchici andalusi mantennero una certa propensione verso l’azione diretta. In questo scenario fece la sua comparsa nel 1883 la “Mano Negra”, fantomatica organizzazione anarchica a cui le autorità attribuirono un complotto mirante ad uccidere tutti i proprietari terrieri della regione. Se è vero che essa suscitò le simpatie di molti anarchici andalusi, è anche vero che la stessa esistenza di questa organizzazione rimane dubbia. Ad esempio gli autori de L’incendio millenarista, i Cangaceiro francesi Delhoysie e Lapierre, scrivono: «È anche probabile che non sia mai esistito un gruppo o una setta segreta dal nome Mano Negra; questo nome è servito per indicare un insieme di azioni e di sette senza nome. In totale, l’insieme di processi intentati contro gli anarchici andalusi nell’ambito della Mano Negra si conclusero con 300 condanne al carcere». Al di là del dubbio se questa “firma” sia stata una pura invenzione poliziesca o una effettiva scelta da parte di alcuni compagni andalusi, è comunque certo che essa, da un lato inglobò tutte le azioni senza nome compiute in quel periodo, e dall’altro servì alla magistratura per distribuire pene altissime a chi aveva partecipato alle varie lotte sociali di quel periodo (oltre che per giustificare molte esecuzioni sommarie ai danni di sovversivi). Gli autori di innumerevoli piccole azioni si videro quindi braccati e condannati perché accusati di partecipazione a una banda armata di cui non avevano mai fatto parte (e che forse nemmeno esisteva).

Qualche decennio dopo, in Francia, si produsse un fatto analogo. Le azioni compiute da alcuni compagni individualisti vennero attribuite a una “banda Bonnot” che nacque solo nella fantasia di un giornalista. In realtà non ci fu nessuna banda strutturata, solo un ambiente di compagni attivo ed effervescente. Singoli individui si incontravano, si associavano per una azione, si lasciavano, senza alcuna omogeneità. Ma lo spettro di un “gruppo organizzato” venne agitato dalla magistratura e usato per incriminare decine di compagni per reati associativi che prevedevano pene maggiori, le quali sarebbero state impossibili da comminare senza la creazione di quel fantasma organizzativo collettivo.

Movimento sociale o “area” di movimento specifico, in entrambi questi due casi le piccole azioni compiute da singoli compagni, espressione di quella selva oscura che è l’anarchia, vennero fagocitate da una Organizzazione, da un Gruppo, reale o virtuale che fosse. Lo Stato ha tutto l’interesse che ciò avvenga. Da un lato, può diffondere l’idea che a combatterlo siano poche teste calde, che ogni tentativo insurrezionale sia solo il complotto di pochissimi sovversivi contro la volontà dei moltissimi cittadini consenzienti, privando così la sovversione del suo carattere sociale e generalizzabile. Dall’altro, può usare contro i suoi nemici la mano pesante, aumentando le condanne grazie all’uso del reato associativo.

I compagni greci non solo non tengono minimamente in conto questi aspetti, anche solo per meri motivi di sicurezza, ma li aggravano. Infatti sostengono che in effetti non c’è alcuna differenza fra chi espone striscioni e chi ammazza poliziotti. Possono e devono essere sullo stesso piano, appartenenti alla medesima organizzazione che rivendica le loro azioni, che le deve rivendicare se non vuole abbandonarle all’insensatezza. Musica per le orecchie della magistratura. Se la sigla-ombrello può funzionare con l’Alf è perché le azioni compiute in giro per il mondo dai suoi attivisti si assomigliano, trattandosi per lo più di liberazioni di animali. Ma gli esempi fatti dai compagni greci sono di natura ben diversa. Chi è così pazzo da farsi identificare per uno striscione, sapendo che potrebbe venir accusato di omicidio? Deve quindi progettare l’affissione di un pezzo di stoffa con le stesse cautele con cui progetterebbe l’eliminazione di un nemico? Alla lunga, la gerarchia dei mezzi fatta uscire dalla porta delle buone intenzioni di principio rientrerà dalla finestra delle dure necessità pratiche.

Purtroppo per questi compagni greci, c’è solo un modo per evitare tutti questi problemi: l’anonimato. Quanto detto fino ad ora lo suggerisce come precauzione, come scelta “strategica”. Ma questo è solo un aspetto supplementare della questione, a nostro avviso il meno importante. Di fatto, l’anonimato è anche e soprattutto il metodo che più corrisponde ai nostri stessi desideri. Non lo consideriamo solo utile e funzionale, lo consideriamo soprattutto giusto.

L’anonimato elimina il diritto di possesso dell’autore su ciò che ha fatto, spersonalizza l’azione liberandola dalla particolarità umana che l’ha commessa. In questo modo permette che l’azione diventi potenzialmente atto plurale (e pazienza se eccita la meschinità dei cripto-millantatori). L’azione anonima non ha proprietari, non ha padroni, appartiene a nessuno. Ciò significa che appartiene a tutti coloro che la condividono.

Oscuri fra gli oscuri, siamo tutti eguali. Nessuno è davanti a guidare, nessuno è dietro a seguire. Ciò che facciamo nell’oscurità, solo noi lo sappiamo. Tanto basta. L’oscurità ci protegge dai nostri nemici, ma ci protegge anche e soprattutto da noi stessi. Niente leaderismi, niente gregarismi, niente vanità, niente ammirazione passiva, niente competizione, niente da dimostrare a chicchessia. I fatti, nudi e crudi, senza mediazioni. Una banca è bruciata, una caserma è esplosa, un traliccio è stato abbattuto. Chi è stato? Non importa, non ha nessuna importanza. Che l’abbia fatto Tizio o Caio, che differenza fa? È successo, è possibile farlo, facciamolo! Nell’oscurità, l’azione parla da sola. Se non è comprensibile, non saranno certo roboanti comunicati inghiottiti dalla macchina propagandistica dello Stato a darle un senso. Come è già stato fatto notare, una azione seguita da un comunicato è come una barzelletta seguita da una spiegazione. Così facendo non si migliora affatto l’effetto, lo si banalizza, lo si rovina. Se una azione non parla da sola, non è accumulandoci parole sopra che si risolve il problema che, con tutta evidenza, si trova a monte, nella scelta sbagliata dell’obiettivo.

Le azioni di attacco non necessitano di alcuna giustificazione a posteriori. In un pianeta dilaniato dalle guerre, c’è bisogno di far sapere perché si attacca una base militare? In un mondo in preda alla speculazione, c’è bisogno di far sapere perché si attacca una banca? In una società corrotta dalla politica, c’è bisogno di far sapere perché si attaccano i partiti? No. Le ragioni sono sotto gli occhi di tutti e, laddove non lo siano, spetta al movimento intero farsi carico di diffondere quella critica sociale in grado di renderle comprensibili, e quindi condivisibili, e quindi riproducibili.

Tanto è umano, spontaneo, naturale e immediato il desiderio di attaccare il nemico, quanto è artificiale e calcolato l’impulso di farvi propaganda sopra, di assumersene la paternità, di attribuirsene il merito. Agli occhi di chi? Se gli autori di una azione si fanno avanti, è perché vogliono essere riconosciuti, perché vogliono distinguersi, ovvero perché vogliono essere ammirati e seguiti. Qui comincia lo spettacolo, qui si apre il bando di arruolamento. Chi si mette in luce finisce inevitabilmente per parlare per conto degli altri. Non può essere diversamente giacché su di lui sono puntati i riflettori, a lui è stato messo in mano il microfono. Gli altri, se non vorranno sentirsi usati, saranno costretti a fare a loro volta un passo in avanti; chi per seguire le orme dei primi, chi per distanziarsene. La fine dell’anonimato segna la fine dell’uguaglianza, l’inizio della rappresentazione. I media sono sempre disponibili ad amplificare le parole di chi bussa alle loro porte, di chi accetta le logiche dello spettacolo. Ed è gratificante questa amplificazione, che dà l’illusione della forza. Un atto anonimo, per quanto significativo, verrà con ogni probabilità fatto passare sotto silenzio, mentre un gesto anche banale ma “griffato” verrà sbandierato ai quattro venti — ecco, parlano di noi! visto come siamo forti?

Mentre nell’oscurità non ci sono nomi, non ci sono identità, c’è un movimento eterogeneo, magmatico, frammentario, convulso. Nessuno comanda, nessuno obbedisce. Gli atti, come le parole, valgono per il loro senso, per il loro contenuto, per le loro conseguenze. Non per la reputazione dei loro autori. Invece di invocare la fine dell’anonimato nelle azioni, bisognerebbe introdurlo anche nelle parole. Dare vita ad un movimento anarchico, autonomo, anonimo, deciso ad attaccare senza fornire alcuna spiegazione al nemico. Capace di portare avanti la teoria e la pratica senza costruire piedistalli per gli ambiziosi. Le ragioni delle azioni vengono espresse dai libri, dai giornali, dai manifesti, dai volantini, da tutte le teorie portate avanti dal movimento nel suo insieme. Le passioni delle idee vengono espresse dalle manifestazioni, dai sabotaggi, dagli incendi, dagli attacchi, da tutte le pratiche portate avanti dal movimento nel suo insieme.

I compagni greci scrivono che «il nome di ogni gruppo a cui partecipiamo è la nostra psiche, la nostra anima». Che bizzarra affermazione! Ma cosa c’è di più segreto, di più intimo, di più indicibile, della psiche e dell’anima? Chi vorrebbe vedere la propria psiche sbattuta in prima pagina, la propria anima vomitata dal tubo catodico? Il nome è solo una identità. Serve per farsi conoscere e per essere riconosciuti. Rifiutare il nome imposto dalla società della merce per sceglierne uno proprio, non fa poi molta differenza. Non si fa altro che lanciare un nuovo logo. Davanti al chiacchiericcio mediatico, a questo frastuono stordente, come davanti al nemico, non ci sono dubbi: il silenzio è d’oro. I media attribuiranno il significato che più fa loro comodo alle azioni anonime, distorcendole a proprio uso e consumo? Certo che lo faranno, è il loro mestiere. Ma l’uso di una sigla non cambia questa situazione di fatto. Anzi, in questo modo non si fa altro che partecipare a quest’opera di confusionismo. Ingenuo è chi pensa di poter parlare forte e chiaro all’interno dei media. In realtà, sono i media che parlano attraverso di lui.

E poi, che dire di questa idea che i gruppi informali possano e debbano discutere fra loro attraverso i comunicati di rivendicazione! Ma, ci chiediamo, a chi ci si vuole rivolgere? Alle persone della strada, agli sfruttati e quindi potenziali complici, che non capiscono il significato dell’azione? O ai compagni d’altrove per dialogare? Nel primo caso, oltre all’illusione di poter usare i media, non si capisce la presenza di tutti quei riferimenti a quanto accade nel movimento: messaggi trasversali, citazioni, allusioni, tutte cose che rendono le rivendicazioni incomprensibili agli occhi delle persone comuni. La loro reazione non può essere che l’indifferenza nei confronti della lotta di questi strani anarchici che nel momento dell’azione esprimono un universo mentale davvero striminzito, incapace di andare oltre la propria porta di casa. Gli anarchici contro lo Stato, lo Stato contro gli anarchici: tutta qui la guerra sociale? Nel secondo caso, invece, non si capisce il motivo per cui si ricorre ad uno strumento simile. Perché un dialogo, una discussione, un dibattito fra compagni, dovrebbe svolgersi attraverso i mass media anziché sui soli canali di movimento? Perché per affrontare certe questioni non dovrebbero bastare i giornali, le fanzine, le riviste, o anche i blog? E in cosa queste discussioni sono più interessanti e valide se a portarle avanti non sono tutti i compagni, magari anche quotidianamente, bensì i «militanti di organizzazioni combattenti» in occasione delle loro azioni? Nel frattempo che ci si scatena in questo gioco di pura auto-rappresentazione, sbirri e giornalisti leggono le nostre parole, imparano codici linguistici, annotano similitudini, decifrano riferimenti, ipotizzano rapporti, deducono responsabilità… e si preparano.

 

Come fatto notare proprio durante l’incontro a Zurigo da una compagna, nel corso degli anni 70 in Italia le varie organizzazioni armate rivendicarono centinaia di azioni di attacco contro lo Stato. Ma fuori da questo spettacolo politico, che tanto contribuì a creare una mitologia rivoluzionaria del tutto demenziale che continua ancora oggi a mietere vittime, di azioni ne avvennero migliaia. I media diedero ampio spazio alle prime, ma fecero di tutto per tacere le seconde. C’è davvero bisogno di spiegare ancora il motivo?

Ecco perché abbiamo letto con cura il documento di questi compagni greci, e siamo lieti che si siano espressi chiaramente in proposito. Ma fra l’ipotesi che l’azione radicale anarchica si aggreghi in Fronti Unici e Federazioni Anarchiche (magari con i loro patti associativi da sottoscrivere), oppure che si dissemini in piccoli gruppi d’affinità, noi continuiamo a non avere dubbi. Ed a preferire una rivolta anarchica, autonoma, anonima…

L’anonymat

Alors je m’approche du monstre, en tenant une coupe remplie d’un vin aux sombres couleurs, et je lui dis : « Tiens, Cyclope, bois de ce vin, puisque tu viens de manger de la chair humaine. Je veux que tu saches quel breuvage j’avais caché dans mon navire ; je te l’offre dans l’espoir que, prenant pitié de moi, tu me renverras promptement dans ma patrie. Cyclope, tes fureurs sont maintenant intolérables ! Homme cruel et sans justice, comment veux-tu que désormais les mortels viennent en ces lieux ? »

A ces paroles le monstre prend la coupe, et il éprouve un si vif plaisir à savourer ce doux breuvage, qu’il m’en demande une seconde fois en ces termes : « Verse-moi encore de ce vin délectable, et dis-moi quel est ton nom, afin que je te donne, comme étranger, un présent qui te réjouisse. Notre terre féconde produit aussi, du vin renfermé dans de belles grappes que fait croître la pluie de Jupiter ; mais le délicieux breuvage que tu me présentes émane et du nectar et de l’ambroisie. »

Il dit, et aussitôt je lui verse de cette liqueur étincelante : trois fois j’en donne au Cyclope, et trois fois il en boit outre mesure. Aussitôt que le vin s’est emparé de ses sens, je lui adresse ces douces paroles : « Cyclope, puisque tu me demandes mon nom, je vais te le dire ; mais fais-moi le présent de l’hospitalité comme tu me l’as promis. Mon nom est Personne : c’est Personne que m’appellent et mon père et ma mère, et tous mes fidèles compagnons. »

Le monstre cruel me répond : « Personne, lorsque j’aurai dévoré tous tes compagnons je te mangerai le dernier : tel sera pour toi le présent de l’hospitalité. »

En parlant ainsi, le Cyclope se renverse : son énorme cou tombe dans la poussière ; le sommeil, qui dompte tous les êtres, s’empare de lui, et de sa bouche s’échappent le vin et les lambeaux de chair humaine qu’il rejette pendant son ivresse. Alors j’introduis le pieu dans la cendre pour le rendre brûlant, et par mes discours j’anime mes compagnons, de peur qu’effrayés ils ne m’abandonnent. Quand le tronc d’olivier est assez chauffé et que déjà, quoique vert, il va s’enflammer, je le retire tout brillant du feu, et mes braves compagnons restent autour de moi : un dieu m’inspira sans doute cette grande audace ! Mes amis fidèles saisissent le pieu pointu, l’enfoncent dans l’œil du Cyclope, et moi, me plaçant au sommet du tronc, je le fais tourner avec force. — Ainsi, lorsqu’un artisan perce avec une tarière la poutre d’un navire, et qu’au-dessous de lui d’autres ouvriers, tirant une courroie des deux côtés, font continuellement mouvoir l’instrument : de même nous faisons tourner le pieu dans l’œil du Cyclope.

Tout autour de la pointe enflammée le sang ruisselle ; une ardente vapeur dévore les sourcils et les paupières du géant ; sa prunelle est consumée, et les racines de l’œil pétillent, brûlées par les flammes. — Ainsi, lorsqu’un forgeron plonge dans l’onde glacée une hache ou une doloire rougies par le feu pour les tremper (car la trempe constitue la force du fer), et que ces instruments frémissent à grand bruit : de même siffle l’œil du Cyclope percé par le pieu brûlant. Le monstre pousse des hurlements affreux qui font retentir la caverne ; et nous, saisis de frayeur, nous nous mettons à fuir. Le Cyclope arrache de son œil ce pieu souillé de sang, et dans sa fureur il le jette au loin. Aussitôt il appelle à grands cris les autres Cyclopes qui habitent les grottes voisines sur des montagnes exposées aux vents. Les géants, en entendant la voix de Polyphème, accourent de tous côtés ; ils entourent sa caverne et lui demandent en ces termes la cause de son affliction : « Pourquoi pousser de tristes clameurs pendant la nuit divine et nous arracher au sommeil ? Quelqu’un parmi les mortels t’aurait-il enlevé malgré toi une brebis ou une chèvre ? Crains-tu que quelqu’un ne t’égorge en usant de ruse ou de violence ? »

Polyphème, du fond de son antre, leur répond en disant : « Ô mes amis, qui me tue, non par force, mais par ruse ? Personne ! »

Les Cyclopes répliquent aussitôt : « Puisque personne ne te fait violence dans ta solitude, que nous veux-tu ? Il est impossible d’échapper aux maux que nous envoie le grand Jupiter. Adresse-toi donc à ton père, le puissant Neptune. »

A ces mots tous les Cyclopes s’éloignent. Moi je riais en songeant combien Polyphème avait été trompé par mon nom supposé et par mon excellente ruse.

Homère, Odyssée, chant IX

 

Depuis l’antiquité, il n’a certes pas manqué de monde pour avoir l’intuition et chanter les potentialités de l’usage de l’anonymat. Ce n’est que lorsqu’on est personne qu’on peut éviter d’être reconnu par ses ennemis. Il s’agit d’une sagesse grecque qui semble faire défaut aux anarchistes de la Conspiration des cellules du feu. Dans un texte écrit en prison par certains d’entre eux, signé également par un autre compagnon incarcéré, et envoyé à une rencontre anarchiste qui s’est tenue à Zurich en novembre dernier[1], ils développent amplement les raisons de l’utilisation d’un nom, d’un sigle et d’une identité bien précise avec lesquels revendiquer leurs actions.

Ce texte est particulier puisque, bien que ses auteurs fassent partie du groupe armé anarchiste spécifique peut-être le plus connu du moment, il recueille et s’approprie en un certain sens une grande partie de la critique la plus diffuse contre le luttarmatisme, en repoussant toute séparation et toute division des rôles. Il n’existe pas de compagnons qui sont en première ligne en train de manier des armes et des compagnons qui sont à l’arrière en train de manier du papier, parce que tout moyen est une arme, parce qu’on peut empoigner aussi bien une banderole qu’une torche, une pierre que de la dynamite. L’acier est autant la matière première des pistolets que des stylos. Il n’existe aucune hiérarchie de moyens, il n’y a aucun fétichisme technique. Tous les compagnons doivent être en mesure de pouvoir tout utiliser. Finie la spécialisation. Parfait. Mais la question de l’identité reste pourtant indépassable. De se mouvoir dans l’obscurité plutôt que sous les lumières des néons, ces compagnons grecs ne veulent vraiment pas en entendre parler.

Vu qu’ils ont argumenté leurs propres choix, ce que pendant des années beaucoup d’autres anarchistes qui en partagent le parcours n’ont pas trouvé opportun de faire, rendant donc impossible tout débat sur la question, et ayant envoyé leur texte à une rencontre anarchiste, il nous semble que leur intention d’ouvrir enfin une discussion sur ces thèmes est évidente. Ravis de leur décision, nous entendons ici apporter notre propre contribution.

 

Commençons par la question des moyens. Après avoir précisé ne vouloir en aucune façon mettre de limites à l’initiative anarchiste, et vouloir généraliser toutes les connaissances techniques, ces compagnons écrivent : « nous pensons que ce qu’il est nécessaire de s’approprier, c’est la volonté vers l’insurrection anarchiste elle-même, et les moyens ne sont rien d’autre que des objets que nos mains et nos désirs sont capables de découvrir. De cette manière, nous éviterons les distinctions entre basses et hautes intensités de violence, et nous détruirons la reproduction du mythe de l’expertise. Un exemple typique de l’action anarchiste polymorphe est l’expérimentation de la FAI/FRI, dont les membres ont aussi bien revendiqué des banderoles en solidarité ou le blocage d’entrées de magasins avec de la colle au Pérou et en Bolivie, que de tirer contre l’administrateur d’une compagnie nucléaire en Italie ou l’exécution de trois flics municipaux au Mexique. Après tout, en tant que Conspiration des cellules du feu, nous avons nous aussi commencé plus ou moins comme ça, et sans tomber dans la piège de l’arrogance des moyens ou de leur hiérarchie non officielle. » Ce sont des mots clairs, sans équivoque, mais… accompagnés d’un exemple pour le moins absurde. Parce que c’est une véritable aberration qu’un « sigle » unique revendique des actions aussi éloignées – en termes de conséquence – que le déploiement de banderoles et l’assassinat de policiers. Le premier est un acte commun, à la portée de tous, à la différence du second. En général, les auteurs du premier geste sont plus facilement repérables, vu qu’il ne nécessite pas de grandes précautions. Mais dans l’exemple reporté ci-dessus, ils risqueraient également de payer les conséquences du second, en particulier là où ces actions se dérouleraient sur un même territoire. Ou bien au Pérou et en Bolivie les anarchistes de la FAI/IRF devront-ils toujours se limiter aux banderoles et à la colle ? Ou bien pour mener des actes aussi simples devront-ils prendre les mêmes précautions que pour des formes d’actions bien différentes ?

 

Ces compagnons grecs négligent complètement de prendre en compte certains mécanismes répressifs, comme par exemple l’utilisation du délit associatif, que paradoxalement et involontairement ils encouragent dans leur fougue identitaire. Pour clarifier ce que nous voulons dire, donnons deux exemplaires historiques concrets.

En Espagne, dans les dernières décennies du XIXe siècle, il y eut beaucoup d’agitations sociales. Dans la Basse Andalousie en particulier, se multipliaient les incendies de vignobles et de récoltes, les coupes de bois illégales, les vols de bétail et aussi les assassinats. A la différence de l’anarchisme catalan, alors plus proche de positions légalistes, les anarchistes andalous maintenaient une certaine propension à l’action directe. C’est dans ce cadre que la Mano Negra fit son apparition en 1883, une fantomatique organisation anarchiste à laquelle les autorités attribuèrent un complot visant à tuer tous les propriétaires terriens de la région. S’il est vrai qu’elle suscita la sympathie de nombreux anarchistes andalous, il est vrai aussi que l’existence même de cette organisation reste ambiguë. Les auteurs de L’Incendie millénariste, les cangaceiros français Delhoysie et Lapierre écrivent par exemple : « ce nom a servi à désigner un ensemble d’actes et de sectes sans nom. Au total, l’ensemble des procès intentés contre les anarchistes andalous dans l’affaire de la Mano Negra se solda par 300 condamnations au bagne. » Au-delà de la question de savoir si cette « signature » a été le choix réel d’une partie des compagnons andalous ou pas, il est en tout cas certain qu’elle a englobé d’un côté toutes les actions sans nom accomplies au cours de cette période, et d’un autre côté a servi à la magistrature pour prononcer des peines extrêmement lourdes contre ceux qui avaient participé aux différentes luttes sociales (en plus de justifier de nombreuses exécutions sommaires de subversifs). Les auteurs des innombrables petites actions se virent donc traqués et condamnés parce qu’accusés de participation à une bande armée dont ils n’avaient jamais fait partie (et qui peut-être n’existait pas).

Quelques années plus tard en France, se produisit un fait analogue. Les actions menées par certains compagnons individualistes seront attribuées à une « bande à Bonnot » qui n’existait que dans l’imagination du journaliste qui l’a inventée. En réalité, il n’y a jamais eu aucune bande structurée, mais seulement un milieu actif et effervescent de compagnons. Des individus se rencontraient, s’associaient pour une action, se séparaient, sans aucune homogénéité. Mais le spectre d’un « groupe organisé » fut agité par la magistrature, et utilisé pour incriminer des dizaines de compagnons dans des délits associatifs qui prévoyaient des peines plus importantes, et qu’il aurait été impossible d’infliger sans la création de ce fantasme organisatif collectif.

Mouvement social ou « branche » du mouvement anarchiste, dans ces deux cas les petites actions accomplies individuellement par des compagnons, expressions de ce bois obscur qu’est l’anarchie, seront fagocitées par une Organisation, par un Groupe, qu’il soit réel ou virtuel. L’Etat a tout intérêt à ce que cela se produise. D’un côté, il peut diffuser l’idée qu’il n’y a que quelques têtes brûlées qui le combattent, que toute tentative insurrectionnelle n’est que le fruit du complot de rares subversifs contre la volonté de très nombreux citoyens consentants, ôtant ainsi à la subversion son caractère social et généralisable. D’un autre côté, il peut avoir la main lourde contre ses ennemis, augmentant les condamnations grâce à l’utilisation du délit associatif.

Non seulement les compagnons grecs ne prennent même pas minimalement en compte ces aspects, ne serait-ce que pour des questions de sécurité, mais ils les aggravent. Ils défendent en effet qu’il n’y a pas de différence entre ceux qui déploient une banderole et ceux qui tuent des policiers. Ils peuvent et doivent être sur le même plan, membres d’une même organisation qui revendique leurs actions, qui doit les revendiquer si elle ne veut pas les abandonner au non-sens. Douce musique pour les oreilles de magistrats. Si le sigle-chapeau peut fonctionner avec l’ALF, c’est parce que les actions accomplies à travers le monde par ses activistes se ressemblent, s’agissant généralement de libérations d’animaux. Mais les exemples donnés par les compagnons grecs sont de nature bien différente. Qui est assez fou pour se faire identifier à cause d’une banderole, sachant qu’il pourrait ensuite être accusé d’un assassinat ? Il doit donc envisager l’accrochage d’un morceau de tissu en prenant les mêmes précautions que celles qu’il se donnerait s’il envisageait d’éliminer un ennemi ? A la longue, la hiérarchie des moyens qu’on a fait sortir par la porte des bonnes intentions de principe rentrera par la fenêtre des dures nécessités pratiques.

Malheureusement pour ces compagnons grecs, il n’y a qu’une manière d’éviter tous ces problèmes : l’anonymat. Tout ce qui a été dit jusqu’à présent le suggère en tant que précaution, en tant que choix « stratégique ». Mais cela n’est qu’un aspect supplémentaire de la question, et c’est à notre avis le moins important. De fait, l’anonymat est aussi et surtout la méthode qui correspond le plus à nos propres désirs. Nous ne le considérons pas qu’utile et fonctionnel, nous le considérons surtout comme juste.

 

L’anonymat élimine le droit de propriété de l’auteur sur ce qu’il a fait, dépersonnalise l’action en la libérant de la particularité humaine qui l’a commise. Ce faisant, il permet que l’action devienne potentiellement un acte pluriel (et tant pis si elle excite la mesquinerie des crypto-vantards). L’action anonyme n’a pas de propriétaires, n’a pas de maîtres, n’appartient à personne. Cela signifie qu’elle appartient à tous ceux qui la partagent.

Obscurs parmi les obscurs, nous sommes tous égaux. Personne n’est devant pour guider, personne n’est derrière pour suivre. Ce que nous faisons dans l’obscurité, nous seuls le savons. Cela suffit. L’obscurité nous protège de nos ennemis, mais nous protège aussi et surtout contre nous-mêmes. Pas de leaderships, pas de grégarismes, pas de vanité, pas d’admiration passive, pas de compétition, rien à démontrer à qui que ce soit. Les faits, crus et nus, sans médiations. Une banque a brûlé, une caserne a explosé, un pylône a été abattu. Qui l’a fait ? Peu importe, ça n’a aucune importance. Que ce soit Pierre ou Paul, quelle différence y a-t-il ? C’est arrivé, c’est possible de le faire, faisons-le ! Dans l’obscurité, l’action parle d’elle même. Si elle n’est pas compréhensible, ce ne seront certainement pas les communiqués ampoulés avalés par la machine à propagande de l’Etat qui lui donneront du sens. Comme quelqu’un l’a déjà fait remarquer, une action suivie d’un communiqué est comme une blague suivie d’une explication. Ce faisant, on n’en améliore pas du tout l’effet, mais on le banalise, on le gâche. Si une action ne parle pas d’elle-même, ce n’est pas en accumulant des mots dessus que se résout le problème qui, d’évidence, se trouve en amont, dans le choix erroné de l’objectif.

Les actions d’attaque n’ont besoin d’aucune justification a posteriori. Sur une planète déchirée par les guerres, il y a besoin de faire savoir pourquoi on attaque une base militaire ? Dans un monde en proie à la spéculation, il y a besoin de faire savoir pourquoi on attaque une banque ? Dans une société corrompue par la politique, il y a besoin de faire savoir pourquoi on attaque les partis ? Non. Les raisons sont sous les yeux de tous, et là où elles ne le sont pas, c’est à l’ensemble du mouvement de se charger de diffuser cette critique sociale en mesure de les rendre compréhensibles, et donc partageables, et donc reproductibles.

Autant le désir d’attaquer l’ennemi est humain, spontané, naturel et immédiat, autant est artificielle et calculée l’impulsion de faire de la propagande dessus, d’en assumer la paternité, de s’en attribuer le mérite. Aux yeux de qui ? Si les auteurs d’une action se mettent en avant, c’est parce qu’ils veulent être reconnus, parce qu’ils veulent se distinguer, c’est-à-dire parce qu’ils veulent être admirés et suivis. Là commence le spectacle, là s’ouvre le bureau de recrutement. Ceux qui se mettent en lumière finissent inévitablement par parler au nom des autres. Il ne peut en être autrement, parce que c’est sur eux que les projecteurs sont braqués, c’est à eux qu’on passe le micro. Les autres, s’ils ne veulent pas se sentir utilisés, seront obligés de faire à leur tour un pas en avant ; les uns pour suivre les traces des premiers, les autres pour s’en distancier. La fin de l’anonymat marque la fin de l’égalité, le début de la représentation. Les médias sont toujours prêts à amplifier les paroles de ceux qui frappent à leur porte, de ceux qui acceptent les logiques du spectacle. Et cette amplification est gratifiante, elle donne l’illusion de la force. Un acte anonyme, aussi significatif soit-il, sera selon toute probabilité passé sous silence, tandis qu’un geste, même banal, mais « de marque », sera agité à tous les vents – écoute, ils parlent de nous ! Tu as vu comme nous sommes forts ?

Dans l’obscurité par contre, il n’y a pas de noms, pas d’identités, il existe uniquement un mouvement hétérogène, bouillant comme le magma, fragmentaire, convulsif. Personne ne commande, personne n’obéit. Les actes, comme les mots, sont valables pour leur sens, pour leur contenu, pour leurs conséquences. Pas en fonction de la réputation de leurs auteurs. Plutôt que d’invoquer la fin de l’anonymat des actions, il faudrait au contraire aussi l’introduire dans les mots. Donner naissance à un mouvement anarchiste, autonome, anonyme, décidé à attaquer sans fournir aucune explication à l’ennemi. Un mouvement capable de porter en avant la théorie et la pratique sans construire de piédestal pour les ambitieux. Où les raisons des actions seront exprimées par les livres, les journaux, les affiches, les tracts, par toutes les théories portées par le mouvement dans son ensemble. Où les passions des idées seront exprimées par les manifestations, les sabotages, les incendies, les attaques, par toutes les pratiques portées par le mouvement dans son ensemble.

 

Les compagnons grecs écrivent que « le nom de chaque groupe auquel nous participons est notre psyché, notre âme ». Quelle étrange affirmation ! Mais qu’y a-t-il de plus secret, de plus intime, de plus indicible, que la psyché et l’âme ? Qui voudrait voir sa psyché balancée en première page, son âme vomie par le tube cathodique ? Le nom n’est qu’une identité. Il sert pour se faire connaître pour être reconnus. Refuser le nom imposé par la société de la marchandise pour en choisir un à soi, ne fait pas grande différence. Cela ne fait que lancer un nouveau logo. Face au bavardage médiatique, ce vacarme étourdissant, comme face à l’ennemi, aucun doute : le silence est d’or. Les médias donneront le sens qui les arrangera le plus aux actions anonymes, en les distordant selon leurs besoins du moment ? Bien sûr qu’ils le feront, c’est leur métier. Mais l’utilisation d’un sigle ne change pas cette situation de fait. Mieux même, on ne fait ainsi que participer à cette œuvre de confusionnisme. Celui qui pense pouvoir parler de façon forte et claire dans le cadre des médias est bien ingénu. En réalité, ce sont les médias qui parlent à travers lui.

Et puis, que dire de cette idée que les groupes informels puissent et doivent discuter entre eux à travers les communiqués de revendication ! Mais, peut-on se demander, à qui veulent-ils s’adresser en réalité ? Aux personnes de la rue, aux exploités, et donc aux complices potentiels, qui ne comprennent pas le sens de l’action ? Ou aux compagnons d’ailleurs pour dialoguer ? Dans le premier cas, en plus de l’illusion de pouvoir utiliser les médias, on ne comprend pas la présence de toutes ces références à ce qui se passe à l’intérieur du mouvement : messages transversaux, citations, allusions, toutes ces choses qui rendent les revendications incompréhensibles aux yeux des personnes communes. Leur réaction ne peut alors être que l’indifférence par rapport à la lutte de ces étranges anarchistes qui, au moment de l’action, expriment un univers mental bien étriqué, incapables d’aller au-delà de la porte de leur maison. Les anarchistes contre l’Etat, l’Etat contre les anarchistes : c’est juste ça la guerre sociale ? Dans le second cas, par contre, on ne comprend pas la raison pour laquelle il est fait recours à un tel instrument. Pourquoi un dialogue, une discussion, un débat entre compagnons devrait-il se dérouler à travers les mass-medias plutôt qu’à travers les seuls canaux du mouvement ? Pourquoi pour affronter certaines questions, les journaux, les fanzines, les revues, ou même les blogs, ne suffiraient-ils pas ? Et en quoi ces discussions sont-elles plus intéressantes et valables si ce ne sont pas tous les compagnons qui les mènent, peut-être même au quotidien, mais plutôt les « militants des organisations combattantes » à l’occasion de leurs actions ? Pendant qu’on se déchaîne dans ce jeu de pure auto-représentation, les flics et les journalistes lisent nos mots, apprennent nos codes linguistiques, notent les similitudes, déchiffrent les ressemblances, font leurs hypothèses sur nos liens, déduisent des responsabilités… et se préparent.

 

Comme l’a justement fait remarquer une compagnonne lors de la rencontre de Zurich, les différentes organisations armées revendiquèrent des centaines d’actions d’attaque contre l’Etat au cours des années 70 en Italie. Mais en dehors de ce spectacle politique, qui a tant contribué à créer une mythologie révolutionnaire complètement démente qui continue encore aujourd’hui à faire des ravages, des actions, il y en avait des milliers. Les médias offrirent un large espace aux premières, mais firent tout pour étouffer les secondes. Il y a encore vraiment besoin d’en expliquer la raison ?

Voilà pourquoi nous avons lu avec soin le document de ces compagnons grecs, et que nous sommes ravis qu’ils se soient expliqués clairement sur le sujet. Mais entre l’hypothèse que l’action radicale anarchiste s’agrège dans des Front Unis et des Fédérations Anarchistes (peut-être avec leurs pactes associatifs à signer), ou qu’elle se dissémine en petits groupes d’affinité, nous continuons à ne pas avoir de doutes. Et à préférer une révolte anarchique, autonome, anonyme…

[1] Ndt : On peut trouver cette contribution en anglais sur contrainfo en date du 29 novembre 2012, sous le titre “Do not say that we are few… Just say that we are determined…”, et en français sur le même site en date du 12 décembre 2012

L’anonimato, traduit de l’italien de Indymedia Athènes, 31 août 2013

http://www.atabularasa.org/lib/anonimiteit-nl