Fawda (2002) it/en

Fawda

“Ricordiamoci in che modo gli altri popoli ci hanno trattato e come ci trattano ancora dappertutto, come stranieri, come inferiori. Guardiamoci dal considerare e dal trattare quale cosa inferiore ciò che ci è estraneo e non abbastanza noto! Guardiamoci dal fare noi quello che ci è stato fatto”.
Martin Buber, 1929
Nel momento in cui scriviamo queste righe, tutto il mondo guarda ai fatti che insanguinano il Medio Oriente trattenendo il respiro. Non sappiamo se, nel momento in cui leggerete queste righe, la tensione provocata dall’occupazione militare dei territori palestinesi da parte delle truppe israeliane sarà ancora così alta, o se la pressione delle cancellerie internazionali sarà riuscita a raffreddare i bollenti spiriti militaristi del governo Sharon.

Ciò che sappiamo, ciò che ci preme dire, non può esaurirsi nei facili atteggiamenti umanitari della condanna e dell’indignazione. Di fronte a quanto è accaduto, a quanto sta accadendo e a quanto si sta preparando in quei luoghi apparentemente lontani, proviamo solo ripugnanza per chi vive nell’angoscia che la sacralità della basilica di Betlemme possa venire profanata, nella preoccupazione che la divina mangiatoia possa essere lordata dal sangue arabo; o per chi taccia di antisemitismo tutti coloro che protestano contro l’operato dello Stato israeliano, come se quest’ultimo fosse sinonimo di popolo ebreo; o per chi pretende la nostra commozione per la mancanza di luce e viveri a un palestinese aspirante capo di Stato rinchiuso nel suo bunker, circondato dai suoi nemici-rivali; o per chi cerca di mettere sullo stesso piano la violenza indiscriminata della disperazione e la violenza indiscriminata delle istituzioni, al fine di giustificare la seconda come forma di difesa dalla prima; o per chi, semplicemente, non vede l’ora che tutto questo finisca per poter continuare a rifornire di carburante la propria automobile senza spendere troppo.
Ammettiamolo. Nell’apprendere le notizie che arrivano dai territori palestinesi, la parola che ci esce continuamente dalla bocca non è quella che ci viene per prima in mente. Tutt’al più la nostra lingua dice sterminio – distruzione o soppressione spietata e talvolta metodica di un gran numero di persone – mentre il nostro cervello pensa genocidio – metodica distruzione di un gruppo etnico, razziale o religioso, compiuta attraverso lo sterminio degli individui e l’annullamento dei valori culturali. Il genocidio è molto più dello sterminio. Ma questo è un termine che in qualche modo ci rifiutiamo di usare, perché un suo utilizzo in un contesto simile minerebbe alle fondamenta molte delle certezze su cui abbiamo costruito il nostro mondo, la sua quiete e la sua prosperità.
Come possiamo chiamare genocidio quello che sta intraprendendo il governo Sharon, dopo esserci detti e ripetuti tante volte che il genocidio è una atrocità del passato, frutto del peggiore oscurantismo, che non può trovare legittimità in una democrazia occidentale moderna (come è, in fin dei conti, quella di Israele)? E poi, essendo stati vittime del genocidio compiuto dai nazisti, avendo subìto infami persecuzioni, come possono oggi gli ebrei che si riconoscono in Israele indossare i panni dei carnefici e fare ad altri ciò che in passato sono stati costretti a subire?
Tutto ciò si scontra con le nostre sicurezze, con il nostro bisogno di ordine, con la nostra stringente logica da ragionieri che determina la nostra quieta esistenza da ragionieri. La tranquillità del nostro sonno e dei nostri affari lo esige, la propaganda statale lo conferma: non c’è nessun genocidio in corso nei territori palestinesi, c’è sola una caccia senza quartiere nei confronti di crudeli terroristi che, per tragiche quanto fatali circostanze, si sta ripercuotendo duramente anche nei confronti della popolazione civile. Ma, se le cose stanno così, che dire del numero tatuato sui prigionieri palestinesi, agghiacciante riproposizione di una delle più nauseanti pratiche naziste? Che dire della distruzione di case e interi villaggi, anche questa praticata un tempo contro gli ebrei (nello specifico, dai soldati inglesi)? Che dire di tutti quei morti – bambini, donne, vecchi – che non possono rientrare di certo nello stereotipo mediatico del terrorista fanatico inneggiante alla guerra santa? Come si vede, non ci sono molte alternative di fronte al massacro in atto: o il silenzio del consenso, al tempo stesso risultato e garanzia della pace sociale, o l’interrogativo del dissenso. Ma questo interrogativo, se portato fino in fondo, fino alle sue estreme conseguenze, che cosa ci riserverà? Saremo in grado di ascoltare le risposte?
Se pure il genocidio nazista nei confronti degli ebrei è stato il primo ad essere condannato giuridicamente, tuttavia non è stato il primo ad essere perpetrato. La storia dell’espansione colonialista occidentale nel XIX secolo – che ha portato alla creazione di grandi imperi da parte dei maggiori e più potenti Stati europei – è innanzitutto una catena di sistematici massacri di popolazioni indigene (il maggiore dei quali è stato il genocidio delle popolazioni amerinde avvenuto dopo il 1492).
In poche parole, il genocidio è una arma da sempre impiegata dagli Stati. E sarebbe un grosso errore pensare che il ricorso allo sterminio di massa da parte dello Stato potesse avvenire solo in tempi passati, quando l’ambizione di conquistare nuovi mercati economici spingeva le teste coronate europee a lanciare i propri sudditi in avventurose imprese al di fuori dei propri confini. In realtà, sebbene durante l’espansionismo coloniale la pratica del genocidio risultasse più facilmente visibile, essa si verificava – come avviene tuttora – anche all’interno dei confini che uno Stato si era dato, nel corso della sua costituzione così come del suo consolidamento.
La storia degli Stati Uniti è in tal senso esemplare. Anche i gloriosi e democratici Stati Uniti sono nati da un genocidio, quello dei nativi americani, compiuto da un esercito mandato a proteggere coloni di origine europea in nome di una “libertà” ottenuta distruggendo villaggi e trucidando intere popolazioni di indiani (scatenandone naturalmente la resistenza che, a volte, assunse toni feroci anche contro la popolazione civile). Tutti sappiamo come è andata a finire: il governo statunitense si è impadronito di tutto il territorio un tempo posseduto dagli indiani, mentre ai pochi sopravvissuti è stato concesso di vivere in anguste ed insalubri riserve, storditi da svariati generi di consumo degli occidentali, ridotti a fenomeno folcloristico e ad attrazione turistica.
Gli stessi Stati europei, prima di conoscere la relativa omogeneità odierna, hanno dovuto fare i conti con la resistenza di numerose minoranze etniche. Se la questione basca o quella irlandese sono ancora di una certa attualità, è solo perché la lotta di questi popoli è riuscita a prolungarsi fino ai giorni nostri.
Ma cos’è che rende lo Stato intrinsecamente genocida? È la sua pretesa di costringere in una sorta di fittizia unità ciò che di fatto è separato. La soppressione delle differenze rientra nel naturale funzionamento della macchina statale, la quale procede sistematicamente all’uniformazione dei rapporti sociali: lo Stato non riconosce individui diversi fra loro, ed in quanto tali unici, ma solo cittadini uguali davanti alla sua autorità, perciò identici. Uno Stato si può dire costituito, e proclamarsi detentore assoluto ed esclusivo del potere, solo laddove e quando la popolazione sulla quale esercita il proprio dominio parla la sua lingua, rispetta le sue leggi, segue le sue usanze, usa la sua moneta, pratica il suo credo religioso. Quando questa riduzione, questa omologazione, non può essere imposta con metodi formalmente “pacifici”, lo Stato esercita la violenza. Attraverso il genocidio lo Stato non fa che portare a termine l’eliminazione dell’Altro, momento indispensabile per imporre la propria autorità e realizzare così l’unità che gli è necessaria.
Se già nell’antichità lo Stato era genocida, le cose non sono di certo cambiate con l’avvento del capitalismo, il quale, fondato sulla ricerca continua del profitto, tende a spostare sempre in avanti i propri confini. La tanto denunciata globalizzazione, cioè il capitalismo transnazionale che sta trasformando l’intero pianeta in un unico immenso ipermercato, ne è un perfetto esempio. Al giorno d’oggi, anziché sterminare fisicamente le popolazioni indigene, si preferisce convertirle culturalmente, dopo averle sottomesse economicamente e politicamente: laddove è possibile, al genocidio si preferisce l’etnocidio. La società capitalista non è solo il più formidabile meccanismo di produzione mai creato dall’uomo, è anche la più terrificante macchina di distruzione e livellamento. Cultura, società, individuo, spazio, natura…: tutto viene sfruttato, tutto deve essere sfruttato. Ecco spiegato perché lo Stato non dà tregua a organizzazioni sociali che abbandonano il mondo alla sua tranquilla improduttività originaria. Il fatto che immani risorse giacciano non sfruttate è intollerabile per la cultura occidentale, che nel corso della storia ha imposto alle altre culture il consueto dilemma: o incamminarsi sulla strada della produttività oppure sparire.
La civiltà del capitale destruttura e distrugge tutte le forme sociali non-capitaliste, imponendo ovunque il modello del cittadino atomizzato – fondamento della democrazia – incapace di possedere una esistenza sociale al di fuori della mediazione astratta ed omologante del denaro, del lavoro e dello Stato. Se oggi i soldati israeliani si comportano con i palestinesi più o meno nello stesso modo in cui sessant’anni fa i soldati tedeschi si comportavano con gli ebrei non è perché, come vorrebbe una becera propaganda antisemita, ebrei e nazisti si assomigliano tra loro, ma perché in tutte le epoche i soldati si assomigliano. È compito dell’esercito distruggere tutto ciò che potrebbe causare la rovina dello Stato. Hitler riteneva che gli ebrei rappresentassero una minaccia per la Germania, e per questo li voleva sterminare. Sharon pensa che i palestinesi costituiscano una minaccia per Israele, e per questo li vuole sterminare. Ieri il problema non era il popolo tedesco, ma il suo Stato. Oggi il problema non è il popolo ebreo, bensì lo Stato di Israele. Domani, se le cose dovessero ipoteticamente rovesciarsi, il problema non sarà il popolo palestinese, ma il suo Stato (che, se ne avrà la possibilità, cercherà probabilmente di sterminare gli ebrei). In altre parole, non si riuscirà mai a trovare una soluzione al conflitto ebraico-palestinese finché si rimarrà all’interno delle logiche istituzionali, delle mediazioni politiche, dei trattati fra Stati.
Dopo gli attentati dello scorso 11 settembre – giacché nell’immaginario del mondo occidentale il “kamikaze arabo” incute lo stesso terrore che alla fine dell’ottocento suscitava lo “scotennatore pellerossa” – il governo di Israele ha deciso di approfittare della situazione che si è venuta a creare per fare un ulteriore passo in avanti verso la soluzione finale della questione palestinese. Se gli Stati Uniti, in nome della lotta al terrorismo arabo, bombardano l’Afghanistan, perché mai Israele, in nome della lotta al terrorismo arabo, non potrebbe radere al suolo i territori palestinesi?
Si capisce meglio come i governi occidentali non possano che pendere a favore dello Stato israeliano. Come impedirgli di fare ciò che loro stessi hanno fatto (contro i nativi americani, contro gli amerindi, contro gli abitanti delle Indie, contro i neri africani, contro gli algerini, per non parlare delle belle abissine con le loro faccette nere)? Come proibirgli di fare ciò che loro stessi stanno facendo? Come possono i governi occidentali condannare lo Stato ebraico dopo tutto quello che i loro predecessori hanno fatto agli ebrei?
Nessun impedimento, nessuna condanna, quindi, solo inviti alla moderazione e blande critiche. Alla peggio, l’applicazione di qualche sanzione: “se sterminate un popolo, si potrebbe magari sospendere temporaneamente l’importazione dei vostri pompelmi”. Ma poiché il tentativo di genocidio dei palestinesi è in corso e nessuno può ignorarlo, ai vari governi occidentali non resta che una strada da percorrere. Salvare la Palestina trasformandola in Stato, offrire ai palestinesi lo stesso risarcimento offerto agli ebrei dopo la seconda guerra mondiale. Che un governo stermini fino all’ultimo esponente una popolazione non sottomessa è cosa giustificabile ed ampiamente giustificata dalla ragione di Stato: la storia, come abbiamo visto, abbonda di esempi analoghi. Ma nel mondo contemporaneo non è consentito il cannibalismo fra Stati (il che spiega la fretta dimostrata da Sharon di “sgomberare” definitivamente i territori occupati… dai palestinesi). Se vogliono sopravvivere, insistono i democratici occidentali, i palestinesi devono diventare simili a loro. Bisogna aiutarli in modo che anch’essi abbiano il proprio parlamento, la polizia, la magistratura, le fabbriche, i centri commerciali, i McDonald’s, il campionato di calcio, la televisione con tante belle soap-opera e, perché no?, magari il proprio Festival della canzone.
Due popoli, due Stati” è l’aberrante slogan che sta circolando in questi giorni, come panacea del conflitto in corso. In questa maniera i palestinesi si trovano fra l’incudine ed il martello: o spariscono dalla faccia della terra soccombendo sotto il bastone dell’esercito israeliano, o si convertono alla civiltà capitalista mangiando la carota delle diplomazie statunitense ed europee. In entrambi i casi, il risultato non cambia: i palestinesi non possono scegliere da soli come vivere.
È qui che entra in scena Arafat, il leader dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, che da accorto politico sta lavorando da decenni alla costituzione di uno Stato palestinese. Malgrado l’odio che nutrono nei suoi confronti i dirigenti israeliani (ed anche alcuni arabi) e l’ostracismo di quelli statunitensi, Arafat continua ad avere un ruolo centrale nel percorso verso la normalizzazione. Non a caso tutti i governi del mondo hanno invitato Sharon a non toccarlo. Hanno ragione. Così come un padrone illuminato preferirà sempre discutere con dei sindacalisti piuttosto che vedersela con un’orda di scioperanti arrabbiati, allo stesso modo i dirigenti occidentali più intelligenti preferiscono trattare con un borghese illuminato come Arafat piuttosto che con una banda di scalmanati ribelli alla ragione moderna. Nonostante tutto, egli rimane il leader della sola organizzazione capace di inquadrare la popolazione palestinese in rivolta.
L’Olp trae la propria forza dalla sua natura ambigua. Con le sue armi, la potenza finanziaria della diaspora palestinese, i suoi appoggi internazionali ed i suoi uffici alle Nazioni Unite, l’Olp è un embrione e una caricatura dello Stato, con tutto ciò che questo comporta di sordidi appetiti, di lotte tra funzionari e, nelle zone che amministra, di oppressione diretta e di repressione feroce dei dissidenti. Ma essa è anche l’organizzazione politica al cui interno – non essendosi ancora costituita in Stato-Nazione – i rapporti umani conservano il segno di un’antica solidarietà. Un suo dirigente, che nel futuro Stato palestinese non sarà null’altro che un politicante avido di potere, riesce a mantenere ancora oggi un rapporto diretto con i combattenti che si riconoscono in lui. Ciò che è vero per l’Olp lo è ancor di più per l’organizzazione che si è data sul posto la popolazione: i quadri dei comitati popolari sono il più delle volte costituiti da militanti usciti dai diversi partiti o simpatizzanti dell’Olp, ma l’insieme dei compiti (sorveglianza dei movimenti dell’esercito, approvvigionamento, prime cure mediche…) viene svolto da tutti, giovani e vecchi, uomini e donne, e la mistica della morte in battaglia serve da cemento.
Malgrado sia vista con diffidenza dagli stessi ribelli palestinesi, e sempre più dopo l’arresto di numerosi estremisti come segnale di buona volontà lanciato verso l’opinione pubblica occidentale, l’Olp rimane tuttavia il punto di riferimento identitario centrale per la popolazione palestinese.
Per noi, nemici di ogni Stato e di ogni patria, è facile cadere nella tentazione di opporre radicalmente il sollevamento delle masse palestinesi alle trattative ed anche alle azioni armate condotte dai vari gruppi legati all’Olp, cioè distinguere il popolo palestinese dai racket che pretendono di rappresentarlo. In realtà è innegabile che la rivendicazione nazionalista occupa il cuore dei ribelli palestinesi, così come è difficile nascondersi che le azioni militari più eclatanti hanno contribuito a creare, in tutta la popolazione ed in particolare fra i più giovani, quella mistica del martirio che ha contribuito ad eccitare gli animi e a generalizzare quel coraggio che si è potuto vedere all’opera nella prima intifada (quella delle pietre), e che ora nutre la seconda. Ciò non toglie che l’esistenza di una simile mistica è, al tempo stesso, uno dei segni più evidenti dei limiti di questa rivolta di stampo nazionalista dall’anima sociale.
Si può comprendere come lunghi decenni di tirannia e la mancanza di ogni prospettiva di vita possano trasformarsi in amore per la morte in battaglia. Ma comprendere non significa condividere. L’atto di farsi esplodere in mezzo ad un supermercato, non porta solo al suicidio di qualche singolo combattente, porta al suicidio dell’intera lotta dei palestinesi per la libertà. Oltre ad essere eticamente ripugnante, è tatticamente deleterio.
Non siamo fra quelli che affermano che il suo errore è di scatenare la repressione dell’esercito israeliano, che non ha certo bisogno di simili pretesti per manifestare la propria violenza, né di fare fallire le trattative di pace, poiché non ci può essere pace laddove regna l’oppressione; è piuttosto quello di annullare e mistificare le ragioni della lotta palestinese, che sono universali malgrado le bandiere e i testi sacri in cui vengono avvolte, dietro alla rabbia della disperazione. La disperazione è cieca, capace di forza inaudita ma priva di sbocco. Il terrorismo palestinese – a differenza di quello israeliano, espressione di potere – è sinonimo di impotenza, nell’immediato perché non è in grado di distruggere lo Stato israeliano, in prospettiva perché finirà con l’allontanare la solidarietà dei ribelli sparsi per il mondo, compresi quelli presenti in Israele. Quando fanno strage fra i passeggeri di un autobus o fra i frequentatori di un mercato, quei palestinesi non colpiscono affatto lo Stato di Israele, bensì la popolazione. Dando corpo ad una violenza indiscriminata, non fanno che confermare le accuse di antisemitismo che viene loro attribuito, rinchiudendosi sempre più in un vicolo cieco nazionalista.
Ottenebrati da un comprensibile odio, centinaia di palestinesi sono pronti a morire senza domandarsi né come, né perché, né contro chi, né per che cosa. La cecità sui metodi rende ciechi anche sulle finalità della lotta, per cui si diventa o soldati dell’esercito palestinese (Olp), o devoti al Partito di Dio (Hezbollah), oppure strumenti di uno sceicco e del suo ardore (Hamas). Ciò non è dovuto affatto ad una presunta “natura” degli arabi, considerazione che vorrebbe celare il suo razzismo – gli arabi, si sa, sono reazionari! – dietro al riconoscimento delle differenze culturali.
La Palestina è stata per secoli un crocevia di popoli, luogo dalle mille culture che sapevano coabitare senza sbranarsi a vicenda. Se è diventata la terra del fanatismo più oltranzista, è perché questa situazione rispondeva a determinati interessi. E mentre una ragazza di sedici anni va a farsi saltare in aria, i leader politici e religiosi che l’hanno indottrinata aspettano di riscuotere questi interessi, frutto anche del suo sacrificio. Il terrorismo palestinese finisce dunque per essere funzionale solo allo Stato: a quello israeliano perché gli consente di demonizzare i palestinesi, a quello futuro palestinese perché invoca il proprio riconoscimento come unico mezzo per scongiurare il terrore.
Tra il potenziale di rivolta contro l’insieme di un mondo che ha prodotto le insopportabili condizioni di esistenza dei palestinesi, e gli sforzi di strappare, a partire da questa rivolta, una nicchia all’interno di questo mondo (lo Stato palestinese), esiste naturalmente una linea di frattura.
Ma questa linea è sottile ed in continua modificazione. Si snoda all’interno delle organizzazioni di base, dei gruppi sociali, dei momenti di lotta ed attraversa gli stessi individui, i loro pensieri, i loro sentimenti e le loro attività. Ma per adesso, inutile nasconderlo, questa frattura non ha molte possibilità di verificarsi, vista la mancanza di movimenti sociali non-nazionalisti a cui collegarsi. A pesare è soprattutto l’assenza di ogni prospettiva di lotta comune con gli sfruttati israeliani. Sarebbe un errore infatti pensare ad Israele come ad una società omogenea e monolitica. In realtà, la sua struttura è fortemente differenziata.
Dietro alla bella retorica sull’unità del popolo ebraico, si nasconde ad esempio la divisione fra ebrei sefarditi ed ebrei askenaziti (per non parlare degli israeliani arabi, all’ultimo gradino della piramide sociale). I primi sono quelli originari dai paesi del Mediterraneo, e costituiscono le fasce più povere della popolazione, i secondi sono quelli originari dall’Europa occidentale e dagli Stati Uniti, e costituiscono l’elite politica ed economica. A quale di queste due classi appartengono i coloni ebrei che attualmente vivono sui confini dei territori occupati e che sono i più esposti alle rappresaglie palestinesi? Sono ebrei sefarditi, naturalmente. Come nei secoli passati il colonialismo serviva egregiamente agli Stati europei anche come metodo per stornare le tensioni sociali presenti al loro interno, creando una valvola di sfogo esterna, così oggi lo Stato di Israele trova la sua unità nazionale nella lotta contro i palestinesi.
Finché gli sfruttati ebrei e quelli palestinesi non riconosceranno la loro reciproca condizione, cioè non si riconosceranno tra di loro, la lotta di entrambi risulterà monca, priva della possibilità di incidere in senso rivoluzionario nel conflitto in corso. Quanto a noi, nell’affermare la nostra solidarietà con gli oppressi palestinesi, non abbiamo alcuna intenzione di romanticizzare la loro condizione bensì di mostrare ciò che c’è di universale nella loro resistenza e opporre al pacifismo che vuole una dolce transizione verso il silenzio eterno dei mercati, la guerra sociale contro tutti coloro che sostengono il genocidio dei palestinesi (lo Stato di Israele in primo luogo, i cui interessi non sono poi così lontani da noi) o il loro civile addomesticamento istituzionale (tutti gli altri Stati, compreso l’Olp).
Come si vede non si tratta affatto di sostenere lo Stato palestinese. Non vogliamo scoprirci un giorno solidali con antiche vittime divenute carnefici, con un capitalismo nazionale che opprime per proprio conto i proletari, con dirigenti che furono compiacenti nei confronti dell’intifada poi trasformatisi in burocrati sfruttatori e torturatori. Non vogliamo sostenere uno Stato palestinese che, seguendo l’esempio di quello israeliano, tragga dal costante ricordo delle sventure del passato la giustificazione delle sue atrocità future. La questione quindi non è quella di costringere lo Stato di Israele a rispettare i diritti dei palestinesi, né di sostenere la costituzione di un nuovo Stato, quello palestinese; bensì di cominciare a praticare la diserzione, il rifiuto, il sabotaggio, l’attacco, la distruzione di ogni autorità costituita, di ogni potere, di ogni Stato.
Che la Chiesa di Betlemme venga pure rasa al suolo, se questo servirà a liberare i palestinesi; che Arafat crepi di fame e di sete, se questo segnerà la fine dell’autorità palestinese; che la disperazione si scateni con rabbia, se saprà indirizzarsi sull’esercito israeliano; che le nostre automobili rimangano ferme in mezzo alla strada, se questo sconvolgerà la nostra rassegnata complicità con il genocidio in corso. Che la questione ebraico-palestinese che accende gli animi in Medio Oriente diventi la questione sociale capace di divampare in tutto il pianeta, se questa è la sola possibilità di farla finita con la schiavitù imposta ovunque dal denaro e dal potere.
Amici di Al-Halladj
[Tratto da Guerra Sociale, aprile 2002]
=========================================================

fawda

APRIL 2002

“Let’s remember the way other people have treated us and how they still treat us everywhere, as foreigners, as inferiors. Let’s guard against considering what is foreign and insufficiently known as inferior! Let’s guard against doing ourselves that which was done to us.”

Martin Buber, 1929

At the time in which we are writing these lines, the whole world is watching the events that stain the Middle East with blood with baited breath. We don’t know if the tension caused by the military occupation of Palestinian territory by Israeli troops will be so high by the time you read these lines, or if the pressure from international chancelleries will have managed to cool the boiling militaristic spirit of the Sharon government.

That which we know, that which urges us to speak, cannot be exhausted in the facile humanitarian attitude of blame and indignation. In the face of all that has happened, is happening and is being prepared in these apparently distant places, we feel only repugnance for those who live in anguish that the sanctity of the basilica of Bethlehem could be profaned, worried that the divine manger could be soiled by Arab blood; and for those who accuse all who protest against the operations of the Israeli state of anti-semitism, as if this state were synonymous with the Jewish people; and for all those who lay claim to our shock for the lack of light and life of an aspiring Palestinian head of state enclosed within his bunker; and for those who try to place the indiscriminate violence of desperation and the indiscriminate violence of institutions on the same level, with the aim of justifying the latter as a form of defense against the former; and for those who simply want this all to end so that they can continue to fill their cars with fuel without having to spend too much.

 

Let’s admit it. Upon hearing the news that comes out of the Palestinian territories, the word that continually comes out of our mouth is not the same one that first comes to our mind. At most, our tongues say extermination – ruthless and sometimes methodical destruction and suppression of a large number of people – while our brain thinks genocide – the methodical destruction of an ethnic, racial or religious group, carried out through the extermination of individuals and the annihilation of cultural values. Genocide is much more than extermination. But this is a term that we somehow refuse to use, because its use in such a context would undermine the foundations of many of the certainties on which we have built our world, its tranquility and its prosperity.

How can we call that which the Sharon government has undertaken genocide after being told over and over again so many times that genocide is an atrocity of the past, fruit of the worst obscurantism, that could not find legitimacy in a Western democracy (as, in conclusion, Israel is)? And then, having been victims of the genocide carried out by the Nazis, having suffered infamous persecution, how could Jews today, who recognize themselves in Israel, wear the butcher’s apron and do to others what they were forced to suffer in the past? All this comes into conflict with our security, with our need for order, with our cogent bookkeeper’s logic that determines our quiet bookkeeper’s existence. The tranquility of our sleep and of our affairs requires it, state propaganda confirms it: there is no genocide under way in Palestinian territories, there is only a hunt without quarter in the face of cruel terrorists that, due to circumstances that are as tragic as they are fatal, is having harsh repercussions for the civilian population as well. But if this is how things are, what can be said about the numbers tattooed on Palestinian prisoners, a chilling reiteration of one of the most nauseating Nazi practices? What can be said of the destruction of houses and entire villages, again something that was practiced against the Jews (specifically, by English soldiers)? What can be said about all the dead – women, children, old people – that could surely not be included in the media stereotype of the fanatical terrorist extolling holy war?

As is clear, there are not many alternatives in the face of the massacre that is going on: either the silence of consent, which is at the same time the result and the guarantee of social peace, or the questioning that springs from dissent. But, if it is carried to its conclusion, to its extreme consequences, what will this questioning leave us? Will we be able to listen to the answers?

 

Actually, if the Nazi genocide against the Jews was the first to be judicially condemned, nevertheless it was not the first to be perpetrated. The history of western colonial expansion into the 19th century – that led to the creation of great empires on the part of the largest and most powerful European states – is first of all a succession of systematic massacres of indigenous populations (the greatest of these being the genocide of the Native American populations that occurred after 1492).

In a few words, genocide is a weapon that the state has always used. And it would be a gross error to think that recourse to mass extermination on the part of the state could only have happened in the past, when the ambition to conquer new economic markets goaded the crowned heads of Europe to launch their subjects on adventurous enterprises beyond their borders. In reality, although the practice of genocide was more readily visible during colonial expansion, it also occurred – and still occurs – within the borders that a state gave it self in its formulation as well as its consolidation.

The history of the United States is exemplary in this sense. Even the glorious and democratic United States was born through genocide, that carried out against the Native Americans by an army sent out to protect colonists of European ancestry in the name of a “freedom” obtained by destroying villages and slaughtering entire populations of Indians (naturally arousing their resistance that sometimes assumed ferocious hues even against the civilian population). We all know how it ended: the United States government took possession of all the territory once possessed by the Indians, while it allowed the few that survived to live on cramped and unhealthy reservations, bewildered by various kinds of western consumption and reduced to folkloristic phenomena and tourist attractions.

The European states themselves were the first to know the relative homogeneity of today, but they also had to come to terms with the resistance of numerous ethnic minorities. If the Basque or the Irish question still has some currency, it is only because these people’s struggles have managed to extend themselves to our times.

But what is it that makes the state intrinsically genocidal? It is its pretence of forcing that which is in fact separate into a fictitious unity. The suppression of difference is part of the normal functioning of the state machine, which systematically proceeds to standardize social relationships. The state does not recognize individual with differences between them and thus unique, but only citizens who are equal before its authority and therefore identical. A state can only claim to be formed and proclaim itself absolute and exclusive holder of power only where and when the population over which it exercises its dominion speaks its language, respects its laws, follows its customs, uses its money, practices its religious faith. When this reduction, this homogenization cannot be carried out through formally peaceful methods, the state uses violence. Through genocide, the state merely brings the elimination of the Other to term, and indispensable moment for imposing its authority and thus realizing the unity it needs.

If the state was genocidal already in antiquity, things certainly didn’t change with the advent of capitalism, which tends to always extend its borders in the ongoing search for profit. The globalization that is so frequently denounced, in other words, the transnational capitalism that is transforming the entire planet into a single, giant supermarket, is a perfect example of this.

Nowadays, instead of physically exterminating an indigenous population, it is preferable to culturally convert it after having economically and politically vanquished it. Capitalist society is not only the most formidable mechanism of production ever developed by humankind. It is also the most terrifying machine of destruction and standardization. Culture, society, individual, space, nature…everything is exploited; everything must be exploited. Here it is made clear why the state gives no rest to social organizations that leave the world to its tranquil, native unproductiveness. The fact that tremendous resources lie unexploited is intolerable for western culture, which in the course of history has imposed the customary dilemma: either start walking on the path of productivity or disappear. Capitalist civilization deconstructs and destroys all non-capitalist social forms, everywhere imposing the model of the atomized citizen – basic to democracy – incapable of possessing a social existence outside of the abstract and homogenizing mediation of money, work and the state. If Israeli soldiers today behave in more or less the same way toward Palestinians as German soldiers behaved toward Jews sixty years ago, it is not because Jews and Nazis are the same as boorish anti-semitic propaganda would have it, but because in every era, soldiers are alike. It is the task of the army to destroy everything that might cause the ruin of the state. Hitler held that Jews represented a threat to Germany and therefore tried to exterminate them. Sharon thinks that Palestinians constitute a threat to Israel and therefore wants to exterminate them. Now the problem is not the Jewish people, but rather the state of Israel. Hypothetically, if things were to be reversed tomorrow, the problem would not be the Palestinian people, but its state (that would probably try to exterminate the Jews if it were given the opportunity). In other words, a solution to the Jewish-Palestinian conflict will never be able to be found if it remains within institutional logic, political mediation and treaties between states.

 

After the attacks of September 11, 2001 – since now in the imaginary of the western world, the “Arab kamikaze” inspires the same terror as the “scalping redskin” provoked at the end of the 19th century – the government of Israel has decided to take advantage of the situation that has been created in order to take another step forward toward the final solution to the Palestinian problem. If the United States bombs Afghanistan [and soon maybe Iraq] in the name of the struggle against Arab terrorism, why shouldn’t Israel raze Palestinian territories to the ground in the name of the struggle against Arab terrorism?

One can understand how the western states could not help but lean toward favoring the Israeli state. How could they forbid it from doing what they themselves have done (against the Native Americans, the inhabitants of the Indies, the black Africans, the Algerians, not to mention the beautiful Ethiopians with their black faces)? How could the western states condemn the Jewish state after all that their predecessors have done to the Jews?

Not one impediment, not one condemnation. Only the requests for moderation and mild criticism. At worst, the application of a few sanctions. “If you exterminate a population, the importation of your grapefruits may possibly be temporarily suspended.” But since the endeavor of genocide against the Palestinian people is in course and no one can ignore it, there is only one path left for the western governments to follow. To save the Palestine by transforming it into a state, to offer the Palestinians the same compensation offered to the Jews after the second world war. When a government exterminates an insubordinate population down to its last member, this is a matter that can be justified and is amply justified by the reason of the state. History, as we have seen, abounds with analogous examples. But in the contemporary world, cannibalism between states is not permitted (which explains the haste shown by Sharon to definitively “clear out” the occupied territories…of Palestinians). If they want to survive, the western democrats insist, the Palestinians must become like us. It is necessary to help them in such a way that the will have a proper parliament, police, a magistrature, factories, shopping centers, McDonalds, soccer championships, television with so many fine soap operas and – why not? – perhaps its own music festival.

“Two people, two states” is the aberrant slogan that is going around these days as the panacea for the current conflict. In this way, the Palestinians find themselves between the devil and the deep blue sea; either they disappear from the face of the earth or they dying under the Israeli army’s stick, or they convert to capitalist civilization eating the carrot of American and European diplomacy. In either case, the outcome is the same: the Palestinians cannot choose for themselves how to live.

This is where Arafat, the leader of the Palestinian Liberation Organization enters the scene, who has been working as a shrewd politician for a decade on the formation of a Palestinian state. Despite the hatred that the Israeli rulers (as well as some Arabs) nurture toward him and the ostracism by American rulers, Arafat continues to have a central role in the path toward normalization. It is no accident that all the governments of the world have urged Sharon not to touch him. They have reason. Just as an enlightened boss will always prefer to negotiate with union leaders rather than meet with angry strikers, in the same way, the more intelligent western rulers prefer to deal with an enlightened bourgeois like Arafat than with a band of excited rebels against modern reason. Despite everything, he remains the leader of the only organization capable of enclosing the Palestinian in revolt within a framework.

The PLO draws its strength from its ambiguous nature. With its weapons, the financial power of the Palestinian diaspora, its international support and its offices in the United Nations, the PLO is an embryo and a caricature of a state, with all that this entails in terms of sordid appetites, struggles between functionaries and direct oppression and fierce repression of dissidents in the zones that it administers. But since it has not yet formed a nation state, it is also the political organization within which human relationships conserve the signs of an ancient solidarity. One of its leaders, who will be nothing but a power-hungry politician in the future Palestinian state, still manages to maintain a direct relationship with combatants who acknowledge him today. What is true of the PLO is even truer for the organizations to which the population has dedicated itself on the spot. The cadres of the popular committees are generally made up of militants from the various parties or sympathizers of the PLO, but the totality of the tasks (surveillance of the movements of the army, provisioning, medical first aid) is carried out by all, young and old, men and women, and the mysticism of death in battle serves as the cement.

Despite being viewed with viewed with distrust by the Palestinian rebels themselves, and increasingly so after the arrest of numerous extremists as a sign of good will launched toward western public opinion, the PLO nonetheless remains the central identifying point of reference for the Palestinians people.

 

For us, as enemies of every state and fatherland, it is easy to fall into the temptation of setting the uprising of the Palestinian masses in radical opposition to the negotiations and even the armed actions carried out by the various groups linked to the PLO, in other words, to distinguish the Palestinian people from the rackets that claim to represent them. In reality, it is undeniable that the nationalist demand lives in the hearts of the Palestinian rebels, just as it is undeniable that the more spirited military actions have contributed to creating the mystique of the martyr in the entire population and particularly among the youth, which has helped to excite the minds and generalize the courage that could be seen at work in the first intifada (that of the stones), and that now feeds the second. This does not remove the reality that the existence of such a mystique is, at the same time, one of the clearest signs of the limits of this revolt in nationalist form for the social spirit.

One can understand how long decades of oppression and the lack of any prospects for living could be transformed into the love of death in battle. But understanding does not mean sharing this feeling. The act of blowing oneself up in the middle of a supermarket doesn’t only lead to the suicide of a single combatant, it leads to the suicide of the entire struggle of the Palestinians for freedom. Beyond being ethically repugnant, it is tactically harmful. We are not among those who say that its error is that it provokes repression by the Israeli army, which certainly has no need for such pretexts in order to carry out its violence, or that it causes the peace treaties to fail, since there can be no peace where oppression reigns. Rather its error is above all in annulling and adulterating the reasons for the Palestinian struggle behind the rage of desperation. Despite the flags and sacred texts in which they get wrapped, these reasons are universal. The desperation  is blind, capable of great strength, but deprived of an outlet. Palestinian terrorism – unlike that of Israel, which is an expression of power – is synonymous with impotence, in the immediate sense because it is not is not capable of destroying the Israeli state, and in the long run because it will end up alienating the solidarity of rebels through out the world including those in Israel. When they wreak havoc among bus passengers or market-goers, they are not, in fact attacking the Israeli state, but rather the population. Giving substance to an indiscriminate violence only corroborates the accusation of anti-semitism that is attributed to them, enclosing them more and more in a nationalist dead-end. Clouded by an understandable hatred, hundreds of Palestinians are ready to die without asking themselves how or why or against whom or for what. The blindness of the method renders them blind with regard to the purpose of the struggle as well. This is why one becomes either a soldier of the PLO or a devotee of the Party of God (Hezbollah) or the tool of a sheikh and his zeal (Hamas). This is not, in fact, due to any supposed “nature” of the Arabs, a conception that tries to hide its racism – Arabs, you know, are reactionary! – behind the recognition of cultural differences.

For centuries, Palestine has been a crossroads for people, site of thousands of cultures that were able to live together without tearing each other to bits by turns. If it has become the land of the most extreme fanaticism, it is because this situation responds to specific interests. And while a sixteen-year-old girl blows herself into the sky, the political and religious leaders who indoctrinated her expect to collect these interests, fruit of this sacrifice as well. Palestinian terrorism thus ends up being useful only to the state: the Israeli state because it allows this state to demonize the Palestinians, and the future Palestinian state because it invokes the recognition of this state as the only way to avert the terror.

Naturally, there is a line of rupture between the potential for revolt against the totality of a world that has produced unbearable conditions of existence for the Palestinians and the attempt to snatch a niche within this world (the Palestinian state) from this revolt. But this line is subtle and continually changes. It uncoils inside the base organizations, the social groups, the moments of struggle and through the individuals themselves, their thoughts, their feelings and their activities. But for now, there is no use in hiding it, doesn’t have much possibility of taking place considering the lack of non-nationalist social movements with which to associate. Above all, the absence of any possibility for common struggle with Israeli exploited must be considered. It would be a mistake to think of Israeli as a homogenous and monolithic society. In reality, its structure is forcefully differentiated. For example, behind the beautiful rhetoric about the unity of the Jewish people hides the division between the Sephardic and the Ashkenazi Jews (not to mention the Israeli Arabs, the lowest rank on the social pyramid). The former are those who originate in Mediterranean lands and form the poorest sector of the population; the latter are those with origins in western* Europe and the United States and form the political and economic elite. To which of these two classes do the Jewish colonists who currently live within the occupied territories and are most exposed to Palestinian reprisals belong? They are Sephardic Jews, of course. Just as in past centuries colonialism also served the European states splendidly as a method for averting social tensions that existed within them, creating an external safety valve, so today the state of Israel finds its national unity in the struggle against the Palestinians.

As long as the exploited Jew and Palestinians will not acknowledge their shared condition, that is to say, will not acknowledge it together, both of their struggles will be crippled, deprived of the possibility of intervening in the ongoing conflict in a revolutionary direction.

As for ourselves, in affirming our solidarity with the oppressed Palestinians, we have no intention of romanticizing their condition. Instead, we intend to show what is universal in their resistance and to oppose the pacifism that wants a smooth transition toward the eternal silence of the market with the social war against all those who support the genocide of the Palestinians (first of all, the Israeli state which has interests that are not so far from us) or their institutional civil domestication (all other states including the PLO).

As is evident, it is not a question of supporting a Palestinian state. We do not want to find ourselves one day united with old victims who have become butchers, with a national capitalism that oppresses the proletariat on its own account, with rulers who were indulgent in the face of the intifada and later transformed themselves into bureaucrats, exploiters and torturers. We don’t want to support a Palestinian state that follows the example of the Israeli state by drawing the justification of its future atrocities from the substantial memories of the misfortunes of the past. Thus, it is not about forcing the Israeli state to respect the rights of Palestinians, nor supporting the formation of a new Palestinian state. Rather it is a question of starting to practice desertion, refusal, sabotage, attack, destruction against every constituted authority, all power, every state.

May the Church of Bethlehem get razed to the ground if this will serve to free the Palestinians. May Arafat die of hunger and thirst, if this will signal the end of the Palestinian authority. May the desperation break loose with rage, if it will know how to direct itself against the Israeli army. May our automobiles remain stalled in the middle of the streets, if this will overturn our resigned complicity with the genocide that is going on. May the Jewish-Palestinian dispute that enflames the Middle East change into the social dispute capable of blazing throughout the planet, if this is the only possibility for putting an end to the slavery that is imposed everywhere by money and power.

the Friends of Al-Halladj

When and How It Started

   For centuries, the Jews have experienced the Diaspora, their dissemination throughout the entire world. Lacking a territory in which to root themselves, where their institutions could solidify, the Jews had no state, but formed a community in continual motion. Their attachment to their cultural and religious traditions was such that it rendered their integration into the societies where they settled difficult, if not impossible. In a certain sense, one could say that the Jews were strangers wherever they found themselves, something that contributes not a little to creating diffidence in their interactions (let’s consider what happens even now to another nomadic population that is the victim of persecution, the gypsies).

 

   At the end of the 19th century, Zionism was born. Started by Theodor Herzl, it was a movement that wanted to give the Jews a national seat that could provide a refuge from anti-semitism and injustice. Thus, Zionism sought to offer the Jews who were scattered throughout the world a common fatherland in Palestine under the protection of the great European colonial powers.

 

   There were a few problems however. At that time, the Palestinian territory was under the rule of the Ottoman Empire and was already inhabited primarily by Arabs. Zionism began to be supported by European state, England in particular, because it served as a point of support for opposing Turkish hegemony in the region. It is also said that behind the façade of noble proposals, the founders of Zionism pursued goals that were not exactly philanthropic. Their intention was primarily to preserve the stability acquired by the western European Jews of which they were a part, which was threatened at the time by the migration of Jews coming from the east.

 

   In other words, Zionism was a nationalist movement that originated in class considerations; it was the attempt of the rich Jewish bourgeoisie that was concentrated in Western Europe to defend itself against the influx of the Jewish proletariat – concentrated in the east – that was crossing borders in search of fortune and to save themselves from the pogroms. Quite quickly, these poor Jews began to constitute a problem for the rich Jews, because their progressive increase – as well as their strongly socialist ideas – began to enrage public opinion and western rulers, in a certain ways fomenting anti-semitism, So it was necessary to put a restraint on this migration, to find another place for all these people to go. The choice of Palestine naturally imposed itself, given the survival of a cultural tradition among the eastern Jews based on the messianic hope of a return to the land of Israel.

 

   This is why oppressed Jews have experienced Zionism as a movement of emancipation, not conquest. One could say that, from the beginning, the Zionist enterprise has been distinguished from all the others by its extraordinary good conscience that carried it forward, because the myth of the return to the promised land added its exultant representations to the more classic ones of civilized colonialism. Many of the Jewish colonists who set their poor feet in Palestine were undoubtedly animated by noble proposals, being for the most part either survivors of persecution who only desired to be free or convinced socialists inclined to build the “new world” without having to wait for a social revolution that never seemed to keep its promise of liberation. The price to pay for the enthusiasm that arose for Israel with its kibbutzim and its pioneering mentality was a kind of bungling ignorance that has struck generations of colonists. For a century, the Zionists have resorted to every kind of denial, mystification and lie in order to hide what leapt before their eyes from the beginning: there were already people living in the place where they had settled.

 

   The Jewish colonists who arrived at the beginning of the 20th century began building Israel on an ancient myth: the desert. Their slogan was: “A people without land for a land without a people.” This does not mean that the Zionists arrived in Palestine believing that they would find no one there, but rather that they were the product of a particular culture. Where there were non-Europeans, this culture saw emptiness; where there were Bedouins, it saw a desert to make bloom; where there were stubborn villages, it saw a land to liberate.

 

   The discovery of the Arab inhabitants of Palestine, their agricultural and commercial structures, their cities, their villages, their culture and, above all, their national aspirations, was an unpleasant surprise for the Jews. Initially, when their presence in Palestine was not nearly so massive, their relations with the Arab inhabitants were mainly those of mere exploitation. With money from the Zionist coffers, the Jews had acquired the lands of the owning sheikhs and made the Palestinian peasants work for them. But this labor force, however convenient became superfluous once thousands and thousands of Jews began to flow into the fatherland that had finally been recovered, still under the goad of anti-Semitic persecution. In 1904, the influence of the socialist tendency, which was against the exploitation of Arab labor, became preeminent within Zionism. The colonists could no longer force Arabs to work while underpaying them, but rather had to work themselves in their kibbutzim with a wage equal to that of qualified European workers. Paradoxically, the socialist politics of work developed directly by the Jews put an end to the initial exploitation of the Arabs, but also caused the exclusion of the Palestinians from the Jewish economy, a prelude to their expulsion from the land. The Jews had bought the land; the Jews worked it. So there were now too many Arabs. The relations between Jews and Arabs, which had been tense up to that time, collapsed definitively with the first world war, when the interests of the British empire were revealed in the light of day.

 

   In 1914, the Ottoman Empire entered the war, allying itself with Germany. In 1915, England promised independence and sovereignty to the Arabs in exchange for a revolt against Turkish domination. In 1916, unknown to the Arabs, England made arrangements with France and Russia for the partition of the Ottoman territories in the Middle East. In 1917, the famous Balfour declaration was issued in which the English Minister of Foreign Affairs promised British support for the formation of a Jewish national seat in Palestine to Edmond de Rothschild. In 1918, Palestine was occupied by British troops who came there to allow the British administration as established by the League of Nations. Three years later, in 1921, the Balfour declaration was embodied in the British Mandate over Palestine.

 

   At this point, the situation could only get worse. The Arabs felt betrayed by the English who had not only not granted the promised independence, but who were furthermore supporting the Jewish settlements that grew larger every day. From their side, the Jews saw nothing more that a form of anti-Semitism in Arab hostility, since they had paid for these lands and managed to make them bear fruit through hard work. For the Arabs, the Jews were nothing more than invaders protected by the British. For the Jews, the Arabs were nothing more than uncivilized and fanatical anti-Semites. Nationalism began to spread on both sides. The few discordant voices, like those of the Jewish anarchists, who supported a bi-national Judeo-Arab movement on the basis of kibbutz socialism, or those of the Palestinian communist party that favored proletarian internationalism, were not heeded and were quickly drowned out by the chauvinistic hysteria. Violence became increasingly commonplace and brutal on both sides. The rights of both only left space for wrongs. The more time passed, the clearer it became that the land was much two small for the two peoples to be able to live there: one of the two had to vanish in order to allow the other to survive.

 

   With the end of the second world war and the defeat of nazism, the Zionists succeeded in getting all of the democratic states to share their vision of the future of Palestine, playing off the bad conscience of the rulers and the populace who – especially in Germany, Italy and France – had compromised themselves by spreading anti-Semitism. The creation of the state of Israel, at the expense of the Palestinians, was the compensation due to the Jews for the suffering that they endured. The proclamation of the state of Israel occurred on May 15, 1948. The creation of the state of Israel, at the expense of the Palestinians, was carried out through the same methodology used by other capitalist states at the time of their formation. The creation of the state of Israel, at the expense of the Palestinians, was useful to western interests that preferred a certain instability in the Middle East to forestall a possible unification of the Arab world. The creation of the state of Israel, at the expense of the Palestinians, made the rich, well-fed Jewish communities existing in the West happy, with all that this entailed in economic terms. Thus, the state of Israel was recognized by all the western democracies as on of their kind.

 

   As the supreme representative of the victims of the supreme anti-democratic horror – nazism – Israel could thus administer a symbolic capital all the more powerful because the neighboring lands are in the hands of dictatorial regimes that don’t hesitate in resorting to violence against their own populations (particularly Palestinians) when necessary. And since the state of Israel cultivated a form of democracy that would like to resemble that of ancient Greece – where the “freedom” of the citizens was based on the slavery of the helots – it was consecrated as the local representative of democracy and western reason, bulwark against the shadow of Islamism. The state of Israel can therefore cause terror to reign all around itself, firm in its super-right, proud of its super-good conscience. This does not prevent it from being condemned to practice a politics of separation at its interior and aggression at its exterior in order to survive. Meanwhile the constant reminders of the misfortunes suffered in the past by the Jews only serve as moral justifications for covering up the horrors carried out in the present.

http://guerrasociale.altervista.org/fawda_ing.htm

========================================================