«Che gli uomini non facciano più rivoluzioni
fin tanto che non avranno imparato
a infischiarsene del potere. Che
non scrivano più fin tanto che non saranno
del tutto decisi a sfidare l’opinione.
Gloria a te, libertà!»
(Coeurderoy, Giorni d’esilio)
I – L’ attendismo del potere. 1977-78
(1)
Il profondo conflitto sociale e il vasto movimento di rivolta manifestatisi in Italia nel 1977, presentano delle caratteristiche di radicalità nuove per questo paese. Per la prima volta, infatti, interi settori del proletariato italiano hanno combattuto come propri nemici implacabili non solo lo Stato e le sue forze armate, ma anche le organizzazioni operaie, e particolarmente il partito comunista italiano. Nel corso di questo scontro, gli stessi gruppi che si collocavano politicamente alla sinistra del P.C.I. sono stati individuati come parassiti estranei e ostili alla lotta rivoluzionaria.
(2)
Il “movimento del ’77” si manifesta dapprima come movimento studentesco, occupando le università contro una stupida riforma governativa in gennaio. Esso è formato, come è noto, soprattutto da giovani disoccupati. A Roma vi confluisce un poderoso movimento del “terziario”, maggioritario negli ospedali, ma radicato in molti altri settori.
La distribuzione geografica del movimento è molto varia: a Milano, per esempio, dove si svolgono alcune delle imprese più spettacolari della Autonomia Operaia, il movimento è inesistente. Nelle sue deboli manifestazioni non si libera mai completamente di un’ottica politico-rivendicativa, e fornisce una base alle manovre e alle alleanze con i gruppi gauchistes sostenute da Negri, Scalzone e consorti. A Bologna, dove operano radio Alice e il gruppo che pubblica la rivista A/traverso, e dove il movimento si connota in senso giovanilista e addirittura modernista (attraverso l’introduzione dell’ideologia francese di Foucault Deleuze & Co.), riesce ad avere l’iniziativa, in modo trascinante ed entusiasmante per molte altre situazioni, fino al marzo ’77; di fronte alla repressione ripiega e cede, permettendo ai becchini gauchistes di Lotta Continua di recuperarlo e seppellirlo. A Roma invece, dove, specie dopo l’esaurirsi della sua parabola ascendente nel marzo 1977, è determinante l’influenza dei comitati operai autonomi (i Volsci, organizzazione militante “vecchia maniera”), il movimento incide su strati sociali più vasti, e intacca seriamente la stessa base del P.C.I., mantenendo dimensioni di massa per oltre un anno.
E’ appunto a Roma, dove i giovani proletari dei quartieri si saldano con i lavoratori della generazione più vecchia, che il movimento oppone la resistenza più tenace e radicale alla repressione, fino ad essere irrimediabilmente messo in crisi dal sequestro Moro.
Al movimento non sono mancati né il numero, né la forza militare di impossessarsi del centro cittadino di una delle maggiori e più ricche città italiane, Bologna, né la spinta vitale di abbozzare una critica della vita quotidiana e della politica.
(3)
In seno al movimento i soli gruppi politici organizzati che hanno avuto un peso reale e talvolta determinante nello svolgersi degli avvenimenti, sono stati quelli che compongono la cosiddetta “Autonomia Operaia Organizzata”. La teoria di questi gruppi, più o meno legati alla tradizione leninista, in qualche caso apertamente stalinisti, non li distingueva molto da un gauchisme militante e conseguente. Quello che li ha resi un polo di attrazione per migliaia di proletari è stata la loro pratica sostanzialmente illegale e violenta e la loro decisa opposizione al P.C.I. e alle organizzazioni sindacali, pratica che coincideva effettivamente con le aspirazioni più diffuse. In particolare a Roma, nella Autonomia Organizzata si esprimeva l’organizzazione diretta di nuclei consistenti di proletari e di una gran quantità di collettivi e comitati di quartiere.
(4)
Una delle caratteristiche dei gruppi dell’autonomia è stata quella di evidenziare sistematicamente gli aspetti militari dello scontro in corso. Questo corrispondeva effettivamente all’aspirazione generalizzata di farla finita con il rformismo e l’opportunismo schifosi che prevalevano nell’ambiente politico a sinistra del P.C.I., ambiente che infatti non ha mai avuto un ruolo positivo nello svolgersi degli avvenimenti. Questo aspetto, oltre a dare dei risultati immediati di efficacia ammirevole, tuttavia ha avuto anche l’effetto di privilegiare sempre e comunque la violenza e la lotta armata, di per sé, indipendentemente cioè dai suoi contenuti reali e dalle prospettive reali del movimento e della sua critica teorico-pratica.
(5)
Durante i primi mesi del ’77 l’apparato propagandistico dello stato creava e gonfiava il mito dell’autonomia armata, con il risultato di creare non tanto un mostro, quanto un fenomeno spettacolare. Tutte le tendenze dell’autonomia furono complici di questa mistificazione e caddero in questa trappola. Gli autonomi tentarono in tutti i modi di valorizzarsi attraverso il fascino della lotta armata, dispiegando un trionfalismo del tutto ingiustificato, favorendo l’abbandono di ogni forma di lotta quotidiana, di per se stessa oscura e chiusa ai successi spettacolari, a vantaggio di azioni limitate a militanti vecchi e nuovi, ma che avevano il pregio di occupare le prime pagine dei giornali. Lo stato italiano, che due anni dopo ha incarcerato tutti i teorici di questa tendenza, evitò allora di prendere iniziative repressive verso gli aperti fautori di questo tipo di radicalizzazione dello scontro. Quando possibile, della repressione si incaricarono i resti dei gruppi gauchistes: in particolare le due organizzazioni Lotta Continua e MLS si posero all’inseguimento del movimento per strangolarlo non appena lo avessero raggiunto.
(6)
L’autonomia operaia e la vasta area sociale che veniva arbitrariamente identificata con le posizioni di questo o quel gruppuscolo, era di volta in volta parte integrante del movimento rivoluzionario (questo soprattutto al Sud) e modello spettacolare (questo soprattutto al Nord). Tutto questo accresceva la confusione e la mancanza di prospettive, tipiche di una situazione di disordine in cui entravano in crisi i modelli ideologici preesistenti e in cui l’incalzare stesso dell’“azione’” – allora “affrettato” dallo spettacolo – tendeva a far apparire superflua la teoria rivoluzionaria.
(7)
Nel maggio del ’77 rientravano spettacolarmente in scena i gruppi armati clandestini, ferendo alle gambe alcuni giornalisti di destra.
Questi gruppi esistevano in Italia dal 1971, avevano avuto un certo sviluppo, ma nel ’77 apparivano come una tendenza marginale rispetto alla Autonomia in piena ascesa. Al loro riapparire tutto l’apparato propagandistico, dal P.C.I. alla destra, ne spiegarono l’esistenza definendoli come il “nocciolo duro”, il cuore organizzato del movimento, il suo motore e centro direzionale occulto. Questa teoria era completamente falsa. I gruppi militari sostenevano l’organizzazione completamente clandestina, fondata sulla totale abnegazione, e all’occorrenza sul sacrificio, dei militanti. Nulla era più estraneo allo spirito del movimento, critico verso la militanza e rivolto sovente alla critica della vita quotidiana, in forme ironiche e sovente addirittura festaiole e pagliaccesche. Anche a questo, venduti e imbecilli di ogni specie fornivano una spiegazione: esistevano un movimento “creativo”, controculturale, “buono”, e un movimento “armato”, “cattivo”, di cui le organizzazioni clandestine erano il nucleo centrale e l’autonomia operaia l’organizzazione di massa.
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Al contrario: il movimento “creativo” di Bologna era quello che aveva sostenuto, nel marzo del ’77, lo scontro militare più ampio e radicale e contro cui erano intervenuti i carri armati, mentre i gruppi clandestini condannavano duramente le forme di lotta armata del movimento, da cui si erano mantenuti estranei, in quanto “avventuriste” e “spontaneiste” . Tuttavia questa falsità aveva una base reale: nel movimento esisteva una componente controcultrale, nutrita delle teorie dell’alternativa di fabbricazione USA, su cui si erano gettati a pesce gli operatori culturali, che ne divennero ben presto gli interpreti.
(9)
La debolezza teorica del movimento si rivelava sempre più mortale, via via che diminuivano lo slancio e l’entusiasmo. Nel ’78 vennero l’esaurimento e la paura, in coincidenza con le prime “prove” di una repressione su vasta scala, che a sua volta costringeva i rivoluzionari a una lotta sempre più di trincea. Sempre più angusta, difensiva, scandita dalle scadenze di scontro che il potere via via sceglieva, attraverso i divieti, gli omicidi in piazza, la repressione selettiva. Nei primi mesi del ’78 il movimento si esauriva, boccheggiava, perdeva colpi, il P.C.I. cominciava a lanciare i suoi mazzieri alla riconquista delle università. Nello stesso tempo il terrorismo riprendeva vigore.
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Il sequestro e l’omicidio di Moro hanno chiuso la situazione caotica in cui si era sviluppato il movimento del ’77. Non solo fu finalmente possibile mettere in stato d’assedio Roma, che era il principale centro superstite della resistenza del movimento. Quello che più contava era che finalmente il puro spettacolo ritornava a dominare la scena. I mass-media sono stati i veri vincitori del sequestro Moro. Tutti incollati al video a seguire il film della lotta di classe, dei comunicati, delle lettere del disgraziato democristiano, che tutti vollero morto. Tutti i giornali (persino Il Male fece la sua fortuna in quel periodo) riportavano nelle prime pagine i comunicati delle B.R. Il sistema aveva scelto il suo nemico – il terrorismo – ed era riuscito ad imporlo a tutti. La finzione si realizzava. La lotta era tra lo Stato, la democrazia, tutti quanti, e un pugno di terroristi, efficienti, freddi e spietati. I due fronti in lotta erano ben definiti: a tutti si imponeva la scelta: o con i carabinieri o con i rapitori. Lo stato italiano ha ammazzato Moro, ma per dare un colpo mortale alla rivoluzione. Il P.C.I. riempiva le piazze di bandiere rosse contro il terrorismo. Lo stato imponeva, in modo identico alle B.R., il ricatto: con noi o con loro.
La posizione presa unanimamente dal movimento sul sequestro Moro rimase sostanzialmente difensiva e d’occasione: in alcuni settori si espresse nella parola d’ordine capitolazionista “né con lo Stato né con le B.R.”, in altri prevalse la solidarietà con i terroristi. Le critiche più radicali vennero dai gruppi più organizzati, accusati in seguito di aver preso parte al sequestro. Essi percepirono tutta la vicenda come l’attacco micidiale di una organizzazione concorrente, e poterono perciò denunciarne la natura, antitetica a qualsiasi sviluppo del movimento.
Si creò una atmosfera allucinante, totalmente governata dallo spettacolo. Ogni critica, ogni azione rivoluzionaria diventavano difficili, si muovevano su un terreno minato, destinate ai distinguo, alle sottigliezze, schiacciate da un’alternativa brutale.
II – 7 aprile e 21 dicembre
(11)
Il 7 aprile 1979 vengono arrestati tutti i più famosi leaders dell’autonomia organizzata e con loro un buon numero di militanti. Le accuse suonano in un primo momento assurde: i dirigenti dell’aut.op. vengono accusati di essere i capi delle BR e di avere ordinato ed eseguito il sequestro e l’uccisione di Moro. La prima impressione nel movimento, che in questa occasione sembra rianimarsi per un attimo, è di incredulità: le accuse sono tanto assurde che questo deve considerarsi come un errore idiota dello stato e dei magistrati, che si immaginano di trovarsi al tempo delle purghe sovietiche degli anni ’30. Bastano pochi giorni perché questa impressione svanisca. Ciecamente, in blocco, senza tentennamenti o esitazioni, tutta la stampa, la radio, la televisione sostengono e avvallano le incredibili menzogne della magistratura togliattiana. Il movimento, o meglio l’aut.op. organizzata che, irresponsabilmente, aveva sempre contato sugli spazi che riusciva a prendersi sui quotidiani con la propria pratica e sui buoni rapporti con alcune forze progressiste, intellettuali, giornalisti, politici, si trova di colpo con la bocca tappata. Non può rispondere ad accuse non solo enormi. Ma anche rozze, imprecise, confuse, e che hanno lo scopo di confondere e frastornare con una tecnica da giallo ad effetti.
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La verità è che, improvvisamente, gli spazi che si chiudono all’aut.op. organizzata sono gli spazi dello Spettacolo. In scena c’è un’altra rappresentazione, e in questa agli autonomi è riservata la parte di imputati. Si tiravano le somme dell’irrealtà che [esso] aveva creato, con una equazione ancor più irreale: movimento “armato” = lotta clandestina. E questo col pieno disprezzo dei fatti e, per esempio, della lotta dell’aut.op. organizzata contro il sequestro Moro.
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Nello stesso tempo, ai leaders autonomi sotto accusa l’apparato propagandistico del potere concedeva il ruolo, e questo solo ruolo, di colpevoli, di accusati. Nei mesi successivi al loro arresto vennero pubblicate svariate interviste degli arrestati del 7 aprile, concepite invariabilmente in senso, e con un tono, accusatorio. Gli autonomi non potevano più permettersi le sparate che fino a pochi mesi prima gli stessi giornali ospitavano con grandissima generosità.
Eh no, ormai dovevano difendersi, discolparsi, negare tutto attraverso gli stessi giornali che ora li crocifiggevano. Si rivolgeva spietatamente contro di loro l’illusione di poter usare la stampa del capitale.
(14)
Inoltre, attraverso queste interviste, si ri-creavano i personaggi dei leaders autonomi, utilizzandone la amplificata notorietà e lo smarrimento, per trasmettere messaggi di sconfitta a tutto il movimento. Si prenda il caso di Piperno. Questo signore non aveva avuto alcuna influenza nei fatti del ’77. Improvvisamente era saltato fuori al tempo del sequestro Moro, quando la stampa aveva dato ampio spazio alle sue proposte di mediazione, assolutamente velleitarie e impotenti, tra lo stato e i rapitori, che erano giunte fino al punto di sollecitare e ottenere incontri diretti con i dirigenti del P.S.I., i più possibilisti di fronte allo scambio di prigionieri proposto dalle BR. Dopo il 7 Aprile, Piperno, latitante, è unanimemente indicato come “leader del movimento”. Questo disgraziato, dalla latitanza lancia una proposta di amnistia per i terroristi, che ottiene un risalto enorme, spropositato rispetto alle sue, inesistenti, possibilità di realizzazione.
La sua proposta suonava così: noi, cioè l’ex gruppo dirigente di pot.op., siamo i soli politici capaci di ricondurre le masse giovanili all’interno della dialettica del potere, siamo i soli interpreti e potenziali controllori del rifiuto giovanile: se ci sbattete in galera la società italiana perderà il suo solo canale di recupero alla politica dei giovani incazzati, i quali entreranno in massa nelle organizzazioni militari.
La stampa non ebbe nemmeno bisogno di “spiegarne” il messaggio : la connotazione riformista di tutto il movimento rispetto alla effetiva radicalilà rivoluzionaria delle organizzazioni clandestine, implicita nelle affermazioni di Piperno, corrispondeva fin troppo bene alle analisi che da mesi tutte le bocche del potere cercavano di imporre.
Allo stato del capitale l’entrata di tutti gli irriducibili nelle organizzazioni clandestine non faceva paura. Quello che nelle intenzioni di Piperno doveva suonare come un avvertimento mafioso terrificante (e qualche magistrato fascista finse di accentarne la provocazione) non era che un altro segnale direzionale per quanti già si stavano lasciando spingere sulla strada del falso antagonismo costituito dai gruppi terroristici.
Sul terreno favorevole di una contrapposizione militare fittizia lo stato affronterà, nel giro di un anno, la tonnara delle organizzazioni armate, coinvolgendovi centinaia di individui e gruppi che non ne facevano parte.
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Nel suo insieme, l’“operazione 7 Aprile” si poneva, e raggiungeva, vari scopi. Lasciamo perdere uno di questi scopi, cioè il regolamento di conti interno al potere tra P.C.I. e D.C., da un lato, e “partito della trattativa”, dall’altro, di cui ancora oggi i leaders autonomi incarcerati parlano per spiegare il “senso” di tutta l’operazione.
Indubbiamente uno di questi scopi era anche quello della repressione diretta e della “disarticolazione” delle lotte: oltre ai leaders spettacolari e ai professori universitari, vengono arrestati il 7 aprile anche un certo numero di militanti e organizzatori, che conducevano lotte quotidiane. In questo senso il 7 Aprile è un attacco diretto e indiscriminato a tutto il movimento, e varrà soprattutto come precedente. Da allora, e molto di più dopo il 21 Dicembre, sempre più spesso “militanti di base”, operai, studenti delle scuole medie, gente che sosteneva e organizzava coerentemente il più svariato tipo di lotte, verranno arrestati con l’accusa di far parte, o addirittura di dirigere, le BR.
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L’operazione 7 Aprile si caratterizza però soprattutto come grande colpo spettacolare contro i capi. I colpevoli di dieci anni di sovversione e terrorismo in Italia, innanzitutto gli arrestati, erano già in gran parte molto noti: di Negri, Scalzone, Piperno, i giornali avevano sempre parlato, etichettandoli sempre come leaders del movimento anche quando non contavano niente. Loro stessi anzi avevano ampiamente parlato attraverso i giornali e più di ogni altro avevano contribuito a formare l’immagine spettacolare dell’autonomia, a falsificare, in ultima analisi, la realtà del movimento italiano, facendosi costantemente interpreti di tutto ciò che esprimeva di nuovo, amplificandone trionfalisticamente le pratiche fino a far loro raggiungere lo stadio di puro spettacolo, ed essere riprodotte sotto forma di imitazione.
Questo fatto, insieme all’enormità delle accuse, sufficiente a nasconderne l’assurdità, garantiva un formidabile effetto spettacolare. Una bomba: nel momento di maggior debolezza del movimento e di maggior forza delle BR, l’azione compatta e orchestrata dei mezzi di informazione “dimostrava” come per sconfiggere il terrorismo bisognasse prima spazzare via la rivoluzione sociale.
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Le figure spettacolari degli imputati del 7 Aprile – ora colpite dalla menzogna – erano il risultato di quanto essi stessi avevano contribuito a creare, con la collaborazione del settori culturali addetti al movimento, e il prodotto della debolezza collettiva, in particolare dell’assenza della teoria rivoluzionaria. Erano ciò che nei due anni precedenti era stato spacciato come rivoluzione dall’Espresso; e molti ci avevano creduto: non è esagerato affermare che in varie occasioni le “scadenze” del movimento erano state decise dalla stampa progressista. Ormai i quotidiani (Lotta Continua, Repubblica) e i settimanali (Espresso e Panorama) del movimento passavano a calunniare direttamente la rivoluzione, calunniandone un’immagine falsa, stereotipa e grottesca. La si calunniava dicendo: i dirigenti del movimento rivoluzionario erano nello stesso tempo, all’insaputa dei loro stessi seguaci, a cui anzi propinavano critiche ad hoc della lotta armata clandestina, i dirigenti delle BR e di PL, che costituivano il vero progetto rivoluzionario. Che sfilza di menzogne! Ma che avevano innanzitutto l’effetto di nascondere che Negri e Piperno non solo non erano i dirigenti delle BR, ma non erano mai stati nemmeno i dirigenti del ’77 – ’78 .
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Il 21 dicembre 1979 l’azione repressiva dello Stato fa un salto di qualità, e con lei lo fa l’enorme calunnia contro la rivoluzione. Durante la notte vengono effettuate in tutta Italia migliaia di perquisizioni e vengono arrestati una dozzina di “dirigenti” dell’autonomia operaia organizzata, mentre una nuova valanga di ordini di cattura cade sulla testa dei leaders già in carcere. In seguito alle dichiarazioni di un delatore (Fioroni), vengono tutti accusati di aver creato una fantomatica organizzazione militare precedente la nascita delle BR. La più consistente delle accuse specifiche, rivolta in particolare contro il capo dei capi, cioè Negri, è quella di aver organizzato il rapimento e l’omicidio di un suo amico e compagno di partito. Per la prima volta Negri, e con lui il movimento rivoluzionario, è accusato di un fatto concreto, circostanziato, preciso. E che fatto: il tradimento e l’uccisione di un compagno, membro della stessa organizzazione.
L’accusa di fratricidio è utilizzata, evidentemente, per inchiodare Negri. Ma con questa nuova arma l’apparato propagandistico scatenato vuole liquidare un nemico molto più temibile, schiacciarlo sotto il senso di colpa, disperderlo, abbatterlo, distruggerne il morale. Vuole ascoltarne le confessioni, le autoaccuse, le abiure, le penitenze, i rinnegamenti, la disillusione.
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In tutta l’operazione repressiva l’aspetto di guerra psicologica è più importante della repressione immediata. Sarà proprio questo aspetto a rendere possibile in seguito una repressione generalizzata. Col 21 Dicembre si intimidano migliaia di compagni e li si informa che fra di loro c’erano degli assassini, dei traditori e dei fratricidi, dei delatori, dei venduti e dei dementi, e che questa é l’essenza stessa di tutto ciò che loro hanno fatto: violenza bruta, cieca, omicida, appena giustificata da ideologie deliranti.
(20)
Per comprendere attraverso quali canali il capitale trasmettesse direttamente al “cervello collettivo” delle masse giovanili che avevano vissuto il movimento del ’77, bisogna ricordare almeno la funzione del quotidiano Lotta Continua. Questo giornale era stato per tutto il ’77 il giornale del movimento, perché era l’unico che pubblicava testi e comunicati dell’autonomia, benché in tutte le situazioni in cui i militanti di L.C. erano preponderanti, essi soffocassero il movimento utilizzando, quando potevano, la violenza fisica e le insinuazioni delatorie.
Il quotidiano Lotta Continua, oltre alle rituali campagne anti-repressione “liberali”, svolgeva soprattutto una campagna di depressione, demoralizzazione, confusione sistematica, che tendevano evidentemente a creare angoscia e smarrimento. Era facile trovare spunto nelle sanguinose e dementi azioni dei terroristi per gridare contro la violenza, il sangue e la morte, e invocare i sacri valori della tolleranza. della vita e della non-violenza. Da queste basi non era difficile nemmeno spingere l’acceleratore della vita alternativa, della droga, del femminismo, della liberazione individuale, e nello stesso tempo tirare il freno a mano della paura, dell’angoscia, dell’incertezza, della perdita dei punti di riferimento. E poi campagne culturali a ripetizione: dai nuovi filosofi, ai sacri valori della vita, della “creatività” e della fantasia di un movimento che si voleva esclusivamente culturale. Fino a una piccola e ambigua campagna sulla delazione.
Gli stessi arresti del 21 dicembre sono stati preceduti da un anno di discussione su Lotta Continua sul “diritto alla delazione” e sul “diritto a denunciare i compagni assassini”. È Lotta Continua, per prima, a sollevare lo scandalo di un suo militante, “assassinato anni prima da compagni dell’Autonomia”, dopo aver attribuito per tre anni l’omicidio ai fascisti. Su questo episodio, riesumato al momento opportuno, si “apre la discussione” sul “diritto alla delazione”.
Dello stesso Fioroni, Lotta Continua si occupa ampiamente molto prima che la sua delazione sia resa nota, investendo tutto il movimento del dibattito sulla figura di questo compagno che “la tragica scelta della violenza ha portato inevitabilmente ad assassinare il suo migliore amico”, e sulla sua crisi psicologica, sul suo pentimento, sulla sua denuncia di quella logica rivoluzionaria che porta inevitabilmente a scannare il proprio fratello.
Nella sua delazione Fioroni chiamerà a correi gli arrestati del 7 Aprile, e ancora una volta L.C. saprà battersi in difesa della crisi di questo disgraziato.
(21)
Ciò che é più lampante è che della rivoluzione, intesa come progetto e pratica, passione e vita, non si può più parlare. Per chi si ostina ci sono l’Antiterrorismo e la Digos, ma soprattutto c’è la dimenticanza che colpisce chi si ostina a ignorare le mode. I rivoluzionari hanno perso tutti i palcoscenici, tutti gli schermi per loro si sono oscurati, lo spettacolo si volge altrove. I giovani, cinici e disillusi, non hanno più tempo per le ideologie e nemmeno per i sogni.
Una delle più gravi mancanze del movimento del ’77 è stata quella di non aver avuto un momento di riflessione e neppure delle prospettive precise su quello che stava accadendo.
Lo scoppio della radicalità in quelle città che erano sfuggite al controllo serrato del capitale è stato improvviso e anonimo; ma soprattutto la ricchezza dell’azione è rimasta imbrigliata a un emotivismo politico slegato da una memoria teorica di classe.
La critica che il movimento ha portato al vecchio e nuovo revisionismo, uno figlio dell’altro, a Roma non si è ricollegata alla formulazione teorica di lotta all’opportunismo, a quella forte tradizione di classe che ha sempre caratterizzato i movimenti radicali del passato: necessità primaria per individuare il nemico che si annida e scava all’interno dell’aggregazione di classe per inficiare e frenare gli sbocchi rivoluzionari.
Questa mancanza non ha impedito, dove ci fu effettivamente un movimento autonomo dalle ideologie (per esempio nei primi mesi del ’77 a Roma), all’autonomia operaia di divenire espressione del movimento stesso, identificandosi sia con la radicalità diffusa sia con la mancanza di prospettive generali. Dove invece il movimento non è riuscito ad esprimersi (nel Nord), l’autonomia operaia è rimasta imbrigliata nella logica della banda-racket, che l’ha portata a tentare ambigui rapporti con gruppi politici che erano l’espressione diretta della repressione; così, essendo rimasto il movimento intrappolato tra miti armati e femministi, giovanilisti e culturali, l’autonomia operaia riprodusse, accentuandoli, tutti questi limiti; e mentre il movimento restava sempre asfittico e privo di sbocchi sociali, minoritario, attaccato dai riformisti, semi-clandestino, tutte le ideologie ne venivano pompate e amplificate allo scopo di riprodurre le vacillanti organizzazioni.
Non è un caso che dopo lo slancio iniziale caratterizzato dallo scoppio di rabbia sviluppatosi a livelli avanzatissimi, dove l’esigenza e il bisogno di vita si identificavano con la lotta e la passione per la stessa, la qualità dei rapporti umani si abbozzava sull’antico orgoglio umano per la comunità, stravolgendo il grigiore e la ripetitività di molti aspetti della quotidianità, anche nelle sue forme moderniste. In questa prima fase di successi del movimento (tempi che Lama e scagnozzi della sua risma si ricorderanno per lungo tempo), la repressione è stata minima rispetto alle risorse di annientamento che il potere ha insite nel suo [apparato] di difesa; questo, forse, perchè la radicalizzazione dello scontro non si è estesa alle grandi concentrazioni industriali del Nord ed è stata limitata ad alcune città. Il potere ha usato limitatamente la repressione armata, eccetto che a Bologna, dove gli stalinisti al potere hanno usato (come insegna l’URSS, unica loro tradizione) i carri armati per sedare i disordini che stavano sfuggendo al controllo. Il moloch capitale si è mosso su quelle debolezze che il movimento, anche nel periodo di maggior splendore, aveva in sè: si capisce così l’enorme successo dell’eroina, nuova arma di abbrutimento sociale usata dal capitale per comprimere i conflitti sociali; tattica non nuova per il capitale, che ha sperimentato in periodi storici recenti l’uso dell’alcool per l’annientamento di un intero popolo in America del Nord, e dell’oppio, in periodi storici passati e presenti, in Oriente, per rincoglionire quel potenziale proletariato nullatenente; cambiano i veleni ma gli intenti sono gli stessi.
[…]
Assieme all’eroina ci sono altre forme di gestione mercificata della vita ad uso e consumo dell’ideologia spettacolare della sopravvivenza; la moneta di scambio del capitale è la distruzione della passione e delle tensioni reali. Il capitale non vuole distruggere l’uomo nella sua accezione di forza-lavoro, che è la [base] della sua esistenza, ma vuole annientare quelle caratteristiche di umanità della specie che ancora lo legano all’ambiente, che fanno sì che i rapporti fra gli uomini non siano ancora dominati completamente dallo spettacolo.
Il capitale, di fronte allo scoppio insurrezionale in quelle zone a forte concentrazione industriale, è bloccato all’uso della repressione omicida e attende il movimento sul piano della critica della vita quotidiana, ancora separata dall’esplosione comunitaria della radicalità. Una delle debolezze del movimento del ’77 è stata quella di [porsi] ancora politicamente nello scontro col potere, senza riuscire a realizzare quel connubio, ormai imprescindibile per una futura rivoluzione, fra lotta per la vita e pratica della vita. Non ci si può proporre come soggetti separati ([questa è stata, tra l’altro,] una delle cause delle sconfitte dei movimenti rivoluzionari del passato), l’affrancamento dalla società del capitale deve essere totale. La rivoluzione non si [costruisce] sui modelli passati, ma sulla lezione delle sconfitte delle rivoluzioni precedenti. «Gli uomini sfogano sui morti la loro disperazione di non ricordarsi nemmeno di se stessi.» (Adorno – Horkheimer).
(22)
Non bisogna sottovalutare la repressione diretta: dire che in Italia della rivoluzione non si può più parlare, significa che chi ne parla viene schiaffato in galera, con o senza pretesti validi. Ma soprattutto sono cambiati radicalmente i metodi dello spettacolo.
Schematizzando: fino al ’77 il potere cerca di recuperare la spinta rivoluzionaria, creandone una immagine spettacolare, diffondendola e cercando di inchiodavi il movimento reale. Fino a tutto il ’77, permette una certa libertà di movimento e arriva a pubblicare le posizioni che più gli fanno comodo su tutti i giornali, dando risalto in particolare alla contrapposizione fittizia tra un movimento controculturale e un movimento armato. Non riesce a intervenire contro la lotta armata, e comunque non ci prova nemmeno con tutte le forze di cui dispone; attende, cerca di depistarla.
Permette che si sviluppino sporporzionatamente l’ideologia e la pratica dei gruppi armati. A partire dal ’78, bruscamente chiude. Non informa più, si limita a calunniare i rivoluzionari, tutti grossolanamente identificati come terroristi, autonomi, teppisti.
Passa a trasmettere tutt’altri schemi, tutt’altri modelli, tutt’altre ideologie. II potere fa passare direttamente i propri messaggi: diffonde l’ideologia del riflusso, modella la vita direttamente su schemi idioti, crea lo stile della nostalgia, del revival, della spensieratezza idiota, in realtà grintosa e cinica. Nell’estate del ’79 viene lanciata clamorosamente una campagna di stampa nazionale sull’eroina. Vengono proposti i nuovi consumi di massa a quelli che si vogliono orfani di politici e terroristi.
(23)
Nel 1980 lo spettacolo del terrorismo risorge per il suo “gran finale”. In sostanza, però, il potere è riuscito ad avere una influenza più decisiva e diretta sulla situazione italiana attraverso campagne culturali di largo respiro, sostenute da una crescente repressione, e nelle quali le due operazioni del 7 Aprile e del 21 Dicembre, oltre ad avere un evidente scopo terroristico, sono servite soprattutto come fonti per la propaganda. La guerra psicologica si è effettivamente sviluppata in Italia, ma non certo nei termini denunciati dalle Brigate Rosse, che uccidendo giornalisti sono diventate protagoniste spettacolari proprio dell’offensiva psicologica del potere. In realtà anche il movimento del ’77 ha commesso gli stessi errori. Queste debolezze del movimento sono ora pagate duramente da molti.
(24)
D’altra parte, questa non è tutta la verità. Il potere esperimenta in Italia l’impossibilità di riassorbire una gran parte dei giovani. In Italia nessuna fabbrica vuole più assumere giovani operai, che si rivelano immediatamente tenaci sabotatori e distruttori della produzione, incapaci ad adattarsi a ritmi e orari, assenteisti incalliti e fantasiosi. Le elezioni politiche, e l’anno dopo quelle amministrative, sono state uno shock per i politici italiani, con le più alte percentuali di astensionismo, altissime tra i giovani e nelle concentrazioni operaie.
Una massa dispersa ma coriacea di operai giovani e di disoccupati mantiene ferma una feroce estraneità ai poteri costituiti. Li guarda con faccia anonima, ma minacciosa.
III- 1980
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Il 21 dicembre non segna affatto la punta massima della repressione, è solo il collaudo della strategia della disarticolazione e dell’annientamento dei residui organizzati del movimento rivoluzionario.
I primi sei mesi del 1980 hanno visto un crescendo della repressione e della campagna di svilimento e demoralizzazione, che si sono concretizzati nella cifra di 600 arrestati. Il via è stato dato da Peci, capo-colonna del Piemonte e membro della direzione strategica della BR che, una volta arrestato, confessa, si “pente”, fa smantellare tutta la struttura organizzativa di Torino, spedisce in carcere un centinaio di militanti. Ma questo Peci è davvero un cinico che, una volta arrestato, fa i suoi calcoli, e decide che la sua libertà vale più di quella dei suoi compagni di lotta? Questo è quello che vorrebbe far credere la polizia politica, per dimostrare che i nemici della democrazia sono senza ideali, sconfitti, demoralizzati, e preferiscono scendere a patti col potere: infatti da questo momento scoppia il fenomeno della delazione e del pentimento: in ogni gruppo clandestino vi sono due o tre delatori che, confessando, fanno arrestare 30 o 40 persone alla volta. Questa “verità ufficiale” è utile anche per nascondere il fatto che Peci collaborava già prima coi carabinieri, che, in altre parole, era un infiltrato ai livelli più alti delle BR: gli apparati repressivi conoscevano in anticipo le imprese clandestine e lasciavano fare perché erano politicamente loro favorevoli.
Nel dicembre 1979, quando era in discussione una legge che aumentava a dismisura i poteri della polizia (perquisizioni senza mandato della magistratura, fermo di 72 ore e interrogatorio della polizia, mentre prima era competenza esclusiva dei giudici, carcerazione preventiva senza processo fino a 12 anni nei casi di terrorismo, armamento pesante della polizia), i gruppi terroristi clandestini ammazzarono una serie di persone di importanza relativa; sembrava proprio che sollecitassero l’approvazione di questa legge infame, seguendo la logica schizoide per cui, costringendo lo Stato a divenire repressivo e fascista, il “popolo” si sarebbe sollevato per unirsi alle uniche strutture organizzate che avrebbero retto al ciclone repressivo: quelle clandestine.
Non si è verificato nulla di tutto questo, e i gruppi clandestini che originariamente avrebbero dovuto colpire “al cuore” lo Stato e disarticolarlo, sono attaccati duramente e potranno sopravvivere solo come fenomeno controllato che giustifichi il mantenimento del mastodontico apparato repressivo che in questi anni è stato montato in Italia.
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Con la delazione di Peci non solo – per la prima volta – viene colpita la direzione strategica delle BR con l’assassinio di due dei suoi componenti a Genova, ma ha inizio un attacco frontale contro il movimento rivoluzionario. Vengono arrestati come terroristi operai, impiegati, delegati di reparto, tecnici, infermieri. Cioè i soggetti attivi dei restanti comitati di base o collettivi autonomi, che sono sempre stati i reali obiettivi della repressione.
Costoro sono tutti aderenti alle organizzazioni militari clandestine? (Questa e la tesi dei sostenitori della lotta armata per dimostrare che essi soli rappresentano l’unica forza di opposizione rivoluzionaria). Certamente no, quei pochi che lo erano, l’hanno pubblicamente dichiarato nei processi. L’autonomia da ogni potere costituito, questo è il vero nemico che lo Stato e le forze che lo sostanziano – partiti e sindacati – debbono assolutamente debellare in Italia.
I gruppi clandestini, invece, ormai completamente abbagliati dallo spettacolo, scambiando causa per effetto, hanno finito per credere davvero che l’intensificarsi della lotta di classe si misura dal numero delle pagine che quotidianamente sono loro dedicale dai giornali, o che il ferimento o l’uccisione di un caporeparto è più eversivo di uno sciopero selvaggio o di un sabotaggio della produzione.
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Tutto ciò è paradossale, soprattutto quando si pensi alla molteplicità e radicalità della prassi del movimento che ha conosciuto il suo apice nel ’77: lotte antilavorative, assenteismo, autoriduzione dei ritmi o sabotaggi nella produzione, campagne di autoriduzione delle tariffe telefoniche e elettriche (accompagnate da sabotaggi), manifestazioni di massa armate e illegali, occupazione di case, sviluppo delle comunicazioni con le radio libere o sabotaggio dei media ufficiali con la riproduzione di falsi giornali o libri che diffondevano la pratica rivoluzionaria, lotte nei licei per la promozione garantita.
Un movimento di questa portata non ha saputo riconoscere sin dal suo inizio che la logica di qualsiasi apparato che si costituisce al suo esterno, separato da sè, è profondamente antitetica e nemica dello sviluppo di un processo rivoluzionario di base; anzi aveva addirittura creduto alla possibilità di coesistenza di un movimento rivoluzionario antiriformista, antigerarchico, illegale e di massa con una minoranza specializzata in arti marziali e con un progetto non dissimile da quello del P.C.I. negli anni ’50, ossia prima della “destalinizzazione”.
Qualsiasi apparato che si costituisce al di fuori del divenire di un movimento, è profondamente controrivoluzionario, perchè è legato alla logica elitaria, avanguardistica, specialistica del leninismo moderno, che può esistere soltanto coltivando l’illusione di dirigere il proletariato con la spettacolarità delle azioni. Oggi, questo va detto chiaramente e semplicemente, senza alcuna remora, allo stesso tempo in cui manifestiamo tutto il nostro disprezzo per i delatori e i “pentiti”.
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Lo Stato e i partiti hanno impiegato tre anni per smantellare il movimento del ’77. Questo non lascia come eredità nessun apparato istituzionale, come fu per il movimento del ’68 da cui si ereditarono i gruppuscoli (sottoprodotto del riformismo) che costituirono un impedimento e un ostacolo alla radicalizzazione del le lotte per molti anni.
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Ancora, dove questo movimento ha sbagliato, è stato nella comprensione e nella valutazione della funzione e della forza del riformismo, che non è affatto berlinguerismo (come si gridava a Bologna), ma democratismo coi potenti e stalinismo con gli oppositori. L’essenza stalinista del P.C.I. è stata denunciata solo quando questo aveva cominciato a reprimere, quando preparava i dossiers sui rivoluzionari, quando indicava alla polizia quali compagni arrestare, quando scacciava dalle fabbriche gli operai autonomi che non si sottomettevano ai sindacati, quando faceva arrestare dai suoi giudici gli appartenenti all’autonomia organizzata, quando ha tentato di introdurre il lavoro volontario al sabato etc.
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Con la strage di Bologna è il terrorismo di Stato che senza ambagi fa la sua ricomparsa. E riappare in tutto il suo cinismo: novanta morti, uomini donne e bambini, poveracci, vengono mandati al cimitero per terrorizzare, perché ormai chiunque può morire. Concetto molto concreto, molto palpabile, che sarà ribadito con l’uccisione di un tipografo stranamente scambiato per un giornalista. La paura tra gli intellettuali, la morte tra gli operai . La ferocia della bomba di Bologna fa subito pensare alla guerra, perché la guerra civile larvata che si combatte in Italia ha bisogno di un numero sempre maggiore di morti. La gente si assuefa alla violenza. La gravità della crisi, ormai pressante in tutti i settori, spiega a posteriori le ragioni di una tale ferocia. L’aver attribuito la paternità dell’attentato ai NAR, gruppi di estrema destra, segue la stessa logica dell’aver attribuito la paternità della bomba di piazza Fontana agli anarchici. Strage di stato quella, strage di stato questa. La campagna di stampa orchestrata dallo zoppo direttore del Giornale, culminata nella richiesta giudiziaria di ergastolo per Valpreda, serve a precisare uno degli scopi della politica statale: non c’è che un terrorismo ed è quello delle organizzazioni estremiste, comunque colorate.
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Le accuse della destra (Almirante e Rauti) al governo in quanto organizzatore della strage di Bologna, sono confermate dai pasticci crescenti che il governo e i servizi segreti hanno combinato per depistare quello che il senso comune sapeva su qualcosa che era un po’ troppo la ripetizione di vecchi copioni adattati agli anni ’80. La meno convincente delle spiegazioni formulate dalla destra riguarda il peso che questa stessa destra si attribuisce nel paese. Nonostante le vittorie elettorali della Thatcher o di Reagan e le convulsioni dei nostalgici franchisti in Spagna, il tentativo di screditare l’MSI è solo marginale rispetto al compito reale che si prefiggeva il massacro: terrorizzare la popolazione qui ed ora; marcare a ferro e fuoco la situazione italiana i cui bagliori risplendono già in paesi lontani. Il 2 agosto la bomba di Bologna, seguita da quelle in Germania e in Cina (quest’ultima preceduta da un gran sfarzo televisivo su quella italiana) segnano l’inizio di uno stato di tensione e di allarmismo, dove il capitale garante dell’ordine può colpire chiunque (nel caso specifico italiano, il 2 agosto diventa il 21 dicembre dei neofascisti); fatto nuovo è il metodo identico in tutti e tre i casi: in concomitanza con l’Italia e la Germania, la Cina, perfettamente allineatasi a questo capolavoro della rozzezza di intenti.
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L’autonomia proletaria nelle fabbriche è schiacciata sotto il tallone di ferro degli stalinisti che, come una moderna CEKA, costituiscono de facto una polizia operaia: l’autonomia è costretta a limitare le forme politiche con cui si manifestava (volantinaggi, contro-informazione, assemblee, scioperi anti-sindacali etc. ), deve diventare più sotterranea, anonima.
Il problema della rivoluzione è sempre presente nella società italiana, perché nessuna contro-rivoluzione culturale (nouveau philosophes, orientalismo. misticismo, droghe etc. ) può cancellare la consapevolezza dell’acquisizione avvenuta dei principi di base di una lotta anticapitalista moderna; perché nessun problema è stato risolto dal capitale italiano.
La spaccatura netta esistente tra la massa dei giovani rifiutati dal mercato del lavoro e ghettizzati nelle economie della sussistenza e del lavoro nero o dei piccoli commerci, e coloro che accettano uno dei ruoli che la società capitalistica offre, si è oggi aggravata. L’andamento positivo della produzione è il prodotto della militarizzazione del territorio settentrionale e del terrore statale scatenato nelle metropoli, ma non può reggere a lungo. Perché i nostri nemici non possono offrire nulla che possa cambiare positivamente la vita dei proletari, all’infuori di cultura e spettacoli, modelli e ideologia.
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L’atto volontaristico di coloro che a furia di stare attenti alle condizioni oggettive non sapevano più dov’erano, è stata la dimostrazione – tragica per coloro che ci hanno creduto, ma questa volta sì oggettiva – che le condizioni storiche sono cambiate. Oggi è evidente che la rivoluzione di cui parliamo non vuole nessuna presa del potere politico, ma solo la liberazione dal denaro, dallo Stato; e per quanto riguarda le costrizioni morali, non dimentichiamo – dato essenziale – che la specie umana segue le scansioni logiche della biologia, luogo di sviluppo in cui l’unico riferimento accertato è l’istinto di sopravvivenza.
[Tratto da Proletari se voi sapeste , Insurrezione, Varani, 1980]