F. L.
«La rivoluzione tra cent’anni la vogliono tutti, anche i gendarmi»
(Tkacev a Engels)
Lo spirito religioso trascina in catene l’umanità da migliaia d’anni. Figlio della paura e padre di ogni servitù, le sue spettrali sembianze sbarrano da sempre il cammino della libertà e annientano negli uomini la volontà di superare il proprio stato di miseria, fisica ed intellettuale. Le chiese ed i templi di ogni genere (dalle moschee alle case del popolo) non ne sono che i simboli più evidenti, ma la sua malvagia influenza sopravvive, ben più pericolosamente, nella coscienza di ognuno di noi, assai spesso, purtroppo, anche quando ci riteniamo individui liberi e militanti rivoluzionari.
Il trionfo dell’Epoca della Ragione e l’avvento della Scienza della Lotta di Classe non hanno fatto altro che riprenderne il meccanismo essenziale, sostituendo nuovi idoli a quelli ormai caduti in disuso e nuovi Vangeli a quelli ormai invecchiati. L’idolo davanti al quale più facilmente ci inginocchiamo, noi evoluti uomini del XX secolo e dinanzi al quale sacrifichiamo la nostra volontà di liberarci finalmente da ogni schiavitù ed oppressione, è il Proletariato.
In confronto a Cristo, Buddha o Allah, esso presenta il vantaggio innegabile di essere (apparentemente) più tangibile e più a portata di mano e soddisfa così l’eterna esigenza del credente di avere un Dio quanto più simile a lui, necessità che nei tempi passati ha costretto ogni Chiesa a una difficoltosa opera culturale che rendesse possibile questa identificazione del fedele nell’oggetto del suo culto; per questo Gesù, nonostante la sua essenza divina ed extraterrena, nasce, vive, soffre e muore come ognuno di noi (salvo poi risorgere, beato lui, il terzo giorno). Il proletariato sembra invece non avere bisogno di ricorrere a simili trucchetti, esso è un’entità storica, anzi, addirittura contemporanea, conduce la sua vita reale accanto a noi (anche se questo non gli impedisce di avere una propria leggenda) e, infine, siamo noi stessi a farne parte.
Per non correre il rischio di spaventare immediatamente i compagni che mi leggeranno, voglio specificare subito che non intendo, con questo intervento, negare l’esistenza e la necessità della guerra sociale, che deve vedere opposti senza possibilità di mediazione sfruttati e sfruttatori, ma intendo invece fornire un modesto contributo che possa essere utile per liberarla, per l’appunto, da ogni influenza di religiosità, con l’unico scopo di rendere più efficace e conseguente la lotta mortale che abbiamo ingaggiato contro il potere in ogni sua espressione.
Per uscire definitivamente dall’equivoco, vediamo subito in cosa consiste effettivamente questa essenza religiosa assunta dal concetto di Proletariato.
Il fatto è che per molti di noi (e penso non ci sia bisogno di chiarire ulteriormente che il mio discorso è diretto ai compagni anarchici e libertari) il Proletariato non è più, o per lo meno non viene più considerato, un’entità reale, vista nel suo comportamento effettivo e nel suo essere concreto, ma piuttosto un’Idea, uno Spirito che trascende ciò che esiste, per identificarsi in un Concetto Assoluto.
In questo noi anarchici, come cercherò di dimostrare, non siamo stati meno di altri vittime di quanto scritto e sistematizzato dal profeta ufficiale della religione Proletaria, San Carlo Marx, del quale dovremo occuparci un poco, per dimostrare come sia stato proprio grazie alla sua opera che è avvenuto questo processo di divinizzazione della classe sfruttata, con tutte le conseguenze del caso: fondazione di una Chiesa (il Partito della Classe), di una sua dottrina (la Teoria Scientifica della Lotta di Classe, ovverossia il Marxismo), di una sua liturgia (la Strategia e la Tattica del Partito della Classe) e via di questo passo.
Afferma André Groz nel suo articolo «Adios al proletariado» (El Viejo Topo, n. 48, settembre 1980): «La teoria marxista del proletariato non è fondata sullo studio empirico degli antagonismi di classe, né su un’esperienza militante del radicalismo proletario. Nessuna osservazione empirica o esperienza militante potrebbe portare alla scoperta della missione storica del proletariato, missione che, secondo Marx, costituisce la sua essenza di classe. Marx vi ha insistito ripetutamente: non è l’osservazione empirica dei proletari che permette di conoscere la loro missione di classe. Al contrario, è la coscienza della loro missione di classe che consente di discernere l’essenza dei proletari per quella che è realmente (…) Detto altrimenti: l’essenza del proletariato è trascendente ai proletari; costituisce una garanzia trascendentale dell’adozione da parte dei proletari della giusta linea di classe».
Non molto diversamente, lo stesso Marx afferma (La Sacra Famiglia, capitoli IV e V, nei quali attacca Proudhon): «Non si tratta di sapere cosa il tale o il talaltro proletario, ovvero l’intero proletariato, si propongono momentaneamente come scopo. Si tratta di sapere cosa è il proletariato e cosa deve storicamente fare in accordo al suo essere. Il suo fine e la sua attività storica gli sono indicati in maniera tangibile e inequivocabile dalle sue stesse condizioni di esistenza, come da tutta l’organizzazione dell’attuale società borghese».
Ho fatto queste due citazioni perché mi pare che esemplifichino abbastanza chiaramente l’essenza religiosa della dottrina marxista del Proletariato: il profeta (in questo caso il Professor Karl Marx) ha l’illuminazione della missione storica che il proletariato è chiamato a compiere e da questo momento non fa che seguire, in un suo universo del tutto fantastico, lo svolgersi di questa missione nel mondo, senza curarsi più di tanto di ciò che realmente avviene, poiché alla fine dei tempi tutto rientrerà nel «grande disegno».
Tutto ciò che appare in contrasto con questa dottrina non è altro che una «contraddizione temporanea», che troverà immancabilmente soluzione nel progredire della «inequivocabile» missione storica, i cui tempi sono scanditi, in maniera inconfutabile, nei sacri testi: evoluzione dell’intelligenza tecnico-scientifica del Proletariato, appropriazione della totalità dei mezzi di produzione, fase di transizione e, infine, trionfo del comunismo, inteso come realizzazione della sottomissione completa della natura alle esigenze dell’uomo, o meglio del lavoro umano (in questo senso si potrebbe ben convenire che il capitalismo sta senza dubbio spianando la strada ad un tale «comunismo»!).
Da questo a lanciarsi in previsioni avventurose, come l’imminente avvento della rivoluzione nei paesi a più avanzato sviluppo industriale, quali Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti, il passo è breve, ma ben più smisurata è la distanza che ci separa dalla realtà.
Affrontando il problema dal punto di vista filosofico, si potrebbe ben dire che Marx non ha fatto altro che trasportare sul terreno della lotta di classe il metodo e le intuizioni di Hegel, operando semplicemente una sostituzione di termini. Citerò ancora il medesimo articolo di André Gorz: «Della dialettica hegeliana Marx conserva l’essenziale, cioè l’idea di un senso della Storia indipendente dalla coscienza che ne hanno gli individui e che si realizza (…) attraverso la loro attività. Ma questo senso, anziché «camminare con la testa», come nell’opera di Hegel, camminerà in Marx con le gambe del proletariato: il lavoro dello Spirito che innalza il mondo alla coscienza di sé, fino all’unificazione finale, non era che il delirio idealista di un teologo che aveva aderito al razionalismo. Non è lo Spirito che compie il lavoro, ma i lavoratori. La Storia non è lo svolgimento dialettico dello Spirito che prende possesso del mondo, ma è la presa di possesso progressiva della Natura da parte del lavoro umano. Il mondo non è inizialmente lo Spirito estraneo a se stesso, ma è da principio l’estraneità della Natura ostile alla vita degli uomini e sulla quale le loro attività non hanno effetto. Però, progressivamente, essi piegheranno la natura alle proprie esigenze, fino al momento in cui, dominandola interamente, si riconosceranno in lei come nella propria opera».
Mi scuso per la nuova lunga citazione, che però mi pare efficace per dimostrare quanto volevo spiegare e cioè che Marx non ha fatto altro che condensare in un sistema apparentemente rivoluzionario le tre correnti dominanti del pensiero occidentale nell’epoca del trionfo della borghesia: il cristianesimo, l’hegelismo e lo scientificismo. ripercorrendo così la strada aperta da Hegel.
L’anarchismo, purtroppo, non sempre si è saputo sottrarre all’influenza di questi tre poli di attrazione intellettuale o, più semplicemente, non sempre ha saputo sottrarsi al fascino dell’apparente ovvietà della dottrina del professor Marx, pur se è sempre riuscito ad individuarne e rifiutarne gli aspetti più evidentemente fantastici o aberranti.
Potrebbe comunque sembrare che, criticando la dottrina marxista del Proletariato, si stia sfondando una porta aperta; purtroppo non è esattamente così.
Non solo parecchi teorici dell’anarchismo sono rimasti vittime di certi errori del professor Marx (basterà citare ad esempio un certo determinismo kropotkiniano che ha fatto scuola per un lungo periodo, nel nostro campo), ma ancor oggi la nostra azione è non di rado intaccata da quello spirito religioso di cui parlavo all’inizio e che ci porta a considerare non tanto quello che realmente è, quanto quello che «dovrebbe essere» o che «ci piacerebbe che fosse». E se, escluse rare, deplorevoli eccezioni, non c’è anarchico che non sappia cogliere ed articolare una critica sostanziale ad ogni tentativo di resuscitare, anche sotto mentite spoglie, il cadavere ammorbante della forma-partito, non si può certo negare che ben pochi di noi sono esenti dal fascino esercitato dal mito del Proletariato. Le espressioni più appariscenti e più criticabili di questo mito sono facilmente visibili in quei compagni che dedicano gran parte del loro tempo e della loro attività a resuscitare un altro cadavere, certo meno ammorbante, ma non per questo più vivace, di quello del partito: quello del sindacalismo rivoluzionario, o meglio, anarcosindacalismo. In questo caso l’errore è abbastanza evidente da essere correntemente criticato. L’anarcosindacalismo e il sindacalismo rivoluzionario furono figli, oltre che di un originario inquinamento marxista dell’esperienza della Prima Internazionale, di un periodo storico e di una realtà particolare, che vedevano vasti settori della classe operaia acquisire coscienza del proprio (allora) insostituibile ruolo sociale di produttori. Questo portò ad un elevato grado di conflittualità anticapitalista, che permise la generalizzazione e la diffusione di talune parole d’ordine lanciate dal movimento anarchico, la più famosa delle quali, «tutto il potere ai soviet», ebbe tanto successo da esser fatta propria dalla cricca politica leninista, che l’usò come cavallo di Troia per conquistare il potere.
Inoltre, la immutabile predisposizione dei militanti libertari a condurre le lotte in maniera decisa ed intransigente, li poneva, di fronte ai lavoratori anticapitalisti, in una luce certo migliore dei pavidi rappresentanti del marxismo ufficiale, intruppati nei partiti socialdemocratici e nei sindacati legalitari.
Ma la violenza e, a volte, l’efficacia di certe lotte non ci deve far chiudere gli occhi sul fatto che esse venivano condotte all’interno di un quadro teorico e con contenuti e obiettivi di fondo chiaramente inquinati dal mito marxista del «potere proletario» sulla produzione e quindi sul mondo. Il consiliarismo e l’anarcosindacalismo, infatti, ad altro non miravano che alla «conquista dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori» e all’instaurazione di una società strutturata sulle basi sociali tracciate dal lavoro forzato e dalle esigenze della produttività (certi «testi sacri» dell’anarcosindacalismo come Il Mondo Nuovo di Besnard o certi «mini-catechismi» degli I.W.W. lasciano ben pochi dubbi in proposito) e il problema della distruzione del potere e dell’effettiva liberazione dell’individuo dalle necessità della produzione, venivano bellamente aggirati o rinviati a data da destinarsi.
Indipendentemente dalla volontà di chi le condusse, quelle lotte hanno avuto l’effetto storico di sancire il ruolo sociale della classe operaia all’interno del dominio capitalista, e riproporne oggi le modalità organizzative e l’ambito teorico significa non solo ricadere vittime (con molte meno scusanti contingenti) dello steso mito che già da allora ne stava alla base, ma anche chiudere gli occhi sul fatto che l’organizzazione di tipo sindacale (anche quando si fregia dell’epiteto di «rivoluzionaria») fa ormai parte integrante dell’apparato di dominio e di sfruttamento e non vi sono più spazi tattici nei quali essa possa giocare un ruolo rivoluzionario.
Questo fatto è del resto ben esemplificato da quanto sta attualmente accadendo alla CNT spagnola, che, dopo l’effimero successo dell’immediato post-franchismo (che tante illusioni aveva fatto rinascere in tutti i sostenitori dell’ipotesi anarcosindacalista), si dibatte oggi in una crisi profonda ed è giunta a spaccarsi in due tronconi, apparentemente contrapposti, ma entrambi destinati a sparire dalla scena delle lotte rivoluzionarie, sebbene forse per strade diverse.
Uno di essi raggruppa i vecchi quadri «storici» dell’organizzazione, che non rappresentano ormai più che se stessi e la testarda volontà di certi settori del movimento anarchico di dare continuità storica ad un’esperienza ormai conclusa, o, peggio, di trovare una scorciatoia per essere presenti nell’ambito delle lotte operaie; l’altro, la cosiddetta «CNT renovada», raggruppa nel suo seno gli elementi più eterogenei e sintetizza in sé tutta l’insanabile contraddizione tra le inevitabili tendenze economiciste, riformiste e corporativiste proprie di ogni struttura sindacale e la volontà rivoluzionaria che si deve riconoscere almeno ad alcuni dei suoi animatori. Come si dice dalle mie parti, due ciechi che fanno le botte.
Per di più, la mistica della produzione, che sta alla base della dottrina marxista non meno che delle teorie anarcosindacaliste e consiliariste, ha ormai trovato il suo superamento storico persino da parte della classe dominante, la cui unità di misura universale non è ormai più il denaro (vuoto feticcio cartaceo che ha trascinato con sé nella sua caduta tutte le categorie astratte che ad esso erano collegate, come il profitto, il plus-valore, ecc.), ma piuttosto il controllo, cioè la pace sociale. Individuare dunque la condizione di proletario in base al metro della produttività o a quello, parallelo al primo, della condizione economica, significa, oggi più che mai, compiere un’operazione del tutto filosofica, ignorare ciò che realmente è per rincorrere vanamente il realizzarsi di un’Idea.
Ma se l’anarcosindacalismo e il consiliarismo esemplificano con evidenza innegabile l’errore di tipo religioso di cui ci stiamo occupando, essi non costituiscono, in questo senso, che la punta emergente di un iceberg di ben più vaste proporzioni. Diciamolo una volta per tutte: la nostra volontà rivoluzionaria ci impone di operare una scelta, una divisione del mondo in due campi contrapposti ed irriducibilmente in lotta, quello degli sfruttati e quello degli sfruttatori (che possiamo anche chiamare con qualsiasi altro termine che più ci aggradi), pena cadere nella palude soffocante dell’interclassismo, dove i contrasti sociali sfumano a disquisizioni filosofiche e la guerra sociale lascia il posto al cicaleccio indistinto delle opinioni contrapposte.
Ma all’interno di questa divisione fondamentale, che fornisce scopo e spessore alla nostra attività rivoluzionaria, si annida il rischio del manicheismo di stampo cattolico, che taglia in due il «bene» e il «male» con un secco colpo di spada, perdendo il senso delle innumerevoli sfumature della realtà, e quello opposto dell’avanguardismo più elitario che, a furia di spaccare il capello in quattro, finisce per salvare unicamente la propria falsa coscienza e consegnare i destini del mondo nelle mani di un pugno di «unti da Dio».
Dobbiamo essere abbastanza attenti da scansare questi rischi e può essere solo lo studio empirico della realtà e la nostra azione volta a modificarla ad indicarci concretamente per dove passi la linea di demarcazione tra potere e ribellione, tra sfruttamento e complicità nel suo mantenimento, tra oppressione e servitù volontaria. Una linea di demarcazione che non è mai indistinta, ma è sempre più mobile e frastagliata di quanto ci suggeriscano i «sacri testi» e la nostra purtroppo inevitabile propensione ad adattarci a decenni di dominio incontrastato, nel campo del pensiero, della dialettica hegeliana-marxista, con tutti i suoi innumerevoli guasti. Questa eredità pesa come una cappa di piombo sulle nostre coscienze e sulle nostre volontà e dobbiamo compiere un considerevole sforzo per liberarcene, recuperando e sistematizzando le sparse indicazioni storiche e teoriche lasciateci in eredità dalla tradizione anarchica e rivitalizzandole alla luce della nostra comprensione della situazione attuale.
Nella nostra esperienza di tutti i giorni vediamo invece spesso realizzarsi l’esatto contrario di tutto questo. La qualifica di «rivoluzionario» viene attribuita ad un settore o a una classe sociale non tanto in base al suo comportamento effettivo nello scontro in atto con lo stato e il potere, ma in base a sue presunte virtù innate o ad analisi astratte che riprendono lo spirito religioso della «inequivocabile missione storica», di cui abbiamo già ampiamente trattato.
Gli operai, le donne, i giovani, i disoccupati, i carcerati o gli studenti non vengono visti in base al loro comportamento sociale, a ciò che realmente fanno, ma questo viene filtrato attraverso le lenti deformanti dell’ideologia ed ognuna di queste categorie (divenute a questo punto metafisiche) viene ordinatamente incasellata al posto prefissato all’interno di uno schema aprioristicamente disegnato. Così gli operai sono «oggettivamente rivoluzionari», gli studenti «storicamente piccolo- borghesi» o i carcerati sono «potenzialmente irriducibili antagonisti del capitale»: così è stato deciso e così deve essere a dispetto di tutto, se necessario, poiché l’essenza di queste definizioni non sta nei sostantivi («rivoluzionari», «piccolo-borghesi», «antagonisti»), ma negli avverbi di modo che li accompagnano («potenzialmente», «oggettivamente», «storicamente»).
Come se la lotta di classe non passasse anche attraverso queste categorie sociali, non le investisse in pieno con tutta la sua carica dirompente, non le sconvolgesse e le scompaginasse: il tranquillo mare dei sognatori della politica non conosce tempeste e fortunali, ma solo alte e basse maree, periodi di «avanzata» o di «riflusso». Non così la realtà, che non è mai uguale a se stessa e conosce tante sfaccettature da richiedere sempre il massimo della nostra attenzione, se non vogliano perderne il senso. Ma questa è opera difficile e tormentata, che ci costringe ad applicare le sue dure leggi anche all’interno di noi stessi, obbliganti a non chiamarci fuori, ma a riconoscerci a nostra volta soggetti a questi cambiamenti e a questi tormenti, poiché il conflitto tra potere e ribellione attraversa la nostra stessa coscienza e i nostri rapporti interpersonali.
Più facile e più comodo è certamente allestire un proprio «museo delle cere», dove i connotati dello scontro rivoluzionario sono destinati a rimanere immutabili, fissati una volta per tutte dalla nostra fantasia.
Il Proletariato, poi, rimane una super-categoria, un mito complessivo, un sistema di divinità e di santi minori intoccabile, all’interno del quale ognuno fa rientrare e uscire a suo piacimento le categorie specifiche che ha scelto, magari in base alla propria opportunità di intervento politico. Ecco che così esso è di volta in volta composto dagli operai di fabbrica e dai lavoratori dei servizi, o dagli emarginati delle metropoli e dalle minoranze etniche, razziali o sessuali ghettizzate, ecco che nascono ibride figure linguistiche, più che sociali, come l’operaio diffuso o il proletariato marginale.
Ecco che le costruttrici di bambole a domicilio assurgono al ruolo di motore della lotta di classe, probabilmente in base al solo fatto che la nostra città ne è piena o che possiamo contare qualche militante tra le loro fila.
Ma tutte questi brillanti e spregiudicate operazioni di chirurgia politica hanno un’importanza del tutto relativa nel nostro discorso; quel che conta è che il Proletariato con la P maiuscola, questo Frankenstein che ognuno di noi ha costruito coi ritagli sociali che più gli sembravano adatti o che più gli facevano comodo, è da quel momento destinato ad assumere vita propria e ad influenzare pesantemente ogni nostra iniziativa futura.
In suo nome parleremo, in suo nome agiremo, per suo conto ci scaglieremo contro il potere, forti della sicurezza che ci deriva dalla certezza di agire per il bene dell’intera umanità.
Ogni nostra iniziativa, ogni idea che ci balena per la mente, ogni progetto che elaboriamo, dovranno avere preventivamente l’approvazione di questo fantasma che ci aleggia intorno e che ovviamente non è in grado di darcela, essendo, come tutti i fantasmi che si rispettino, irreale.
A chi di noi non è mai capitato di rinunciare a mettere in pratica un’azione perché «il Proletariato non è ancora abbastanza maturo per recepirla»?
E quando ci disponiamo ad analizzare una situazione per decidere con quali mezzi tentare di modificarla, non ci preoccupiamo forse di verificare che quanto andiamo preparando rientri preventivamente negli «interessi del Proletariato»?
Tutte lodevoli precauzioni, del resto, se non capitasse che troppo spesso questo Proletariato che occupa i nostri pensieri è, per l’appunto, un’entità del tutto metafisica, un’Idea, un Concetto Assoluto. E finisce così per non essere che un freno, un limite alla nostra capacità di lottare contro lo stato di cose esistente, che può anche essere comodo imporci volontariamente da noi stessi.
«Parliamoci chiaro. La rivoluzione in Italia non la si farà né oggi né domani né probabilmente dopodomani. Cioè non appare seriamente proponibile l’ipotesi rivoluzionaria a breve e forse a medio termine. (…) La rivoluzione non è una festa, non è un gioco. (…) è una cosa terribilmente seria e difficile. (…) Dietro l’esigua minoranza agente ci deve essere una diffusa volontà rivoluzionaria di operai e contadini. Perché solo gli operai e i contadini hanno la forza di rovesciare il sistema (il popolo è già armato: l’esercito non è forse fatto di «proletari in divisa») e solo gli operai e i contadini, soprattutto, hanno la forza e la possibilità di costruire la rivoluzione. L’emancipazione degli sfruttati può solo essere opera degli sfruttati stessi». Questa citazione, per molti versi allucinante, è ripresa da un articolo a firma A. Di Solata, comparso sul numero di A-rivista anarchica del febbraio 1972, ma in fondo non è che un pretesto, un infortunio tra tanti altri simili, che meglio di tanti altri esemplifica un errore diffuso e una tendenza preoccupante, e lo abbiamo scelto tra tanti equivalenti solo per il suo potere esemplificativo.
La rivoluzione, ci viene detto, la possono costruire solo gli operai e i contadini (siamo di fronte ad un chiaro arcaismo pre-settantasettesco, oggi nessuno userebbe più questo linguaggio da realismo socialista): ma quali operai e contadini, quelli che accettano, come si dice oggi, di «farsi stato» o quelli che sono ancora succubi delle mafie parrocchiali o di partito? Dovremo ancora attendere il risveglio di questo intorpidito Frankenstein? Non siamo forse noi stessi parte di questa massa sfruttata che può e deve emanciparsi da se stessa? E dobbiamo forse attendere, per muoverci, di aver raggiunto un «numero legale» che non si sa bene chi avrebbe sancito?
E se «la rivoluzione non la si farà né oggi né domani né probabilmente dopodomani» e «l’ipotesi rivoluzionaria non appare seriamente proponibile a breve e forse a medio termine», quale altra ipotesi adotteremo nel frattempo, forse quella riformista? o quella cosiddetta «culturale»? Via, siamo seri. La rivoluzione è compito che incombe ai rivoluzionari e che va attuato a partire da oggi, dalla nostra esistenza quotidiana, senza attendere nessun «sole dell’avvenire» in cui le condizioni saranno mature, le masse preparate e il nemico in crisi.
Noi non dobbiamo lottare per conto terzi, non abbiamo nessun altro da redimere che non siamo noi stessi, le nostre persone fisiche e questo sin da subito.
Solo quando siamo giunti a comprendere che è la nostra personale esistenza, i nostri rapporti sociali, la nostra mente e il nostro corpo che hanno urgenza di essere liberati, che è il nostro lavoro che deve essere rifiutato, il nostro capo che deve essere abbattuto, che il potere dobbiamo distruggerlo là dove ci si manifesta direttamente ed individualmente, solo allora acquista un senso rivoluzionario il nostro cooperare, collegarci, organizzarci con altri compagni per avere la forza di realizzare la liberazione di ogni individuo nella liberazione di tutti.
Ed è a questo punto che dobbiamo essere coscienti che non esistono entità astratte al di fuori di noi con le quali fare i conti, che non esiste un Proletariato ultraterreno ed assoluto in nome del quale battersi e che è dunque in primo luogo con la nostra coscienza che dobbiamo confrontarci quando andiamo a scegliere i modi, i tempi e gli strumenti coi quali scagliarci contro il potere. Troppo comodo mascherare la nostra incapacità o, peggio, la nostra mancanza di volontà dietro il paravento della immaturità del Proletariato; troppo facile affidare i compiti che ci spetterebbero personalmente all’immancabile trionfo dell’evoluzione storica; troppo ipocrita nascondersi dietro la scusante che la rivoluzione non è dietro l’angolo, ma è sempre di là da venire. Troppo comodo, troppo facile e troppo ipocrita perché noi siamo il proletariato militante delle cui gesta passate ci piace leggere nei libri, perché la storia non è qualcosa di estraneo alla nostra esistenza e alle nostre lotte di tutti i giorni, e perché è oggi, è ogni giorno che dobbiamo impegnarci direttamente in quel lavoro incessante che costituisce la reale essenza della rivoluzione, se non vogliamo vederla come una promessa millenaristica che non avrebbe nulla di diverso dal Giorno del Giudizio di cristiana memoria.
Ed è ancora dentro di noi, nelle nostre teste, nelle nostre false coscienze, che vive quel Proletariato Limitante che non fa altro che intralciare la nostra opera di nemici di ogni potere e del cui freno dobbiamo al più presto liberarci.
Da questa consapevolezza, e solo dopo averla fatta nostra, acquista un senso tutta la problematica legata alla scelta degli strumenti più idonei a sostenere la nostra lotta liberatrice.
[Anarchismo, n. 32, gennaio 1980]