I reduci hanno sempre perseguitato i movimenti sociali. Reduci da battaglie considerate perdute, reduci da ideologie decomposte, reduci da utopie irrealizzate, tristi figuri che presentano la propria sconfitta personale come se si trattasse di una sconfitta storica allo scopo di trovare qualche pubblica giustificazione alla propria miseria umana. Per i reduci, si sa, finita la vita bisogna pensare a come affrontare la sopravvivenza ed alcuni di loro non riescono a resistere alla tentazione di darsi alla letteratura. Se le proprie esperienze e conoscenze non sono servite ieri a fare la rivoluzione, che almeno servano oggi per tirare a campare!
Una di queste brave persone è Valerio Evangelisti, noto autore di fantascienza, il creatore del personaggio di Eymerich l’Inquisitore. Non solo. Ha curato il “Progetto Memoria – La Comune”, è stato presidente dell’Archivio Storico della Nuova Sinistra “Marco Pezzi” di Bologna, è collaboratore di “Le Monde Diplomatique” nonché direttore editoriale della rivista “Carmilla” («letteratura, immaginario e cultura di opposizione»). È un po’ il tarlo di tutti questi scrittori con pruriti radicali, quello di cercare di coniugare profitto e militanza. A onor di verità, bisogna però riconoscergli un innegabile salto di qualità. A differenza di chi è andato all’assalto della classifiche di vendita dopo aver rinunciato ad andare all’assalto del cielo, Evangelisti ha dovuto solo rinunciare ad una carriera accademica alternata al lavoro di funzionario del ministero delle Finanze.
Come il collega Pino Cacucci, ex anarchico rivoluzionario, Evangelisti è nato in quel capoluogo emiliano che possiede l’ignobile primato d’aver sfornato intere generazioni di recuperatori “creativi” (da Bifo a Luther Blisset, passando per Helena Velena). Come Cacucci, si è occupato degli anarchici illegalisti francesi del primo Novecento conosciuti come “banda Bonnot”. Il primo ci ha scritto sopra un romanzo che poco tempo fa si poteva anche trovare sugli scaffali dei supermercati, dopo il pane ma un po’ prima della carta igienica; il secondo ha dedicato loro un saggio comparso su un’antologia che vuol rendere omaggio al personaggio letterario creato dalla fantasia di Marcel Allain e Pierre Souvestre, Fantômas il Re del Terrore. E “Fantômas e gli illegalisti” (www.carmillaonline.com/archives/2004/10/001037.html) è il titolo di questo saggio che costituisce un notevole esempio della passione di Evangelisti: unire narrativa fantastica e critica politica. Bisogna dire che qui la narrativa fantastica, evocata da Fantômas, è quanto mai un pretesto per dare libero sfogo alla critica politica degli anarchici illegalisti. Dei sei paragrafi che costituiscono questo testo solo il primo è dedicato al personaggio di Allain e Souvestre, i rimanenti danno corpo agli incubi di questo sinistro militante di fronte a una rivolta anarchica che non si decide a rimanere soffocata per sempre dalla polvere degli archivi.
La tesi di Evangelisti è presto riassunta. Fantômas, criminale capace di commettere ogni efferato delitto ai danni di chiunque, è stato creato in Francia nei primi del Novecento; i suoi ispiratori sono stati gli anarchici illegalisti che in quel periodo riempivano le cronache di «crimini, talora gratuiti» commessi per appagare il proprio sfrenato individualismo estraneo ad ogni contesto di lotta sociale; questo illegalismo aveva conosciuto una prima generazione in cui gli episodi di violenza brutale erano stati limitati (Ravachol e Henry) e comunque pur sempre legati ad una prospettiva di classe, ma poi aveva subìto una degenerazione che lo aveva portato a propugnare la violenza indifferenziata contro gli stessi sfruttati, come testimoniato in teoria dagli scritti di Libertad ed in pratica dalle azioni della “banda Bonnot”; le idee illegaliste rimasero completamente circoscritte in un ambito marginale del movimento anarchico, non trovando riscontro presso gli altri nemici dello Stato dove «il processo rivoluzionario è costantemente concepito quale azione di massa, anche se il compito di innescarlo può essere attribuito a ristrette avanguardie». Questa cieca esaltazione della violenza in nome di un Individuo attento solo al comodo suo è in realtà affine alla peggior ragione di Stato, poiché «sarà proprio la borghesia fattasi Stato a inaugurare l’età contemporanea con il macello più ampio e indiscriminato visto fino a quel momento. Sarà lei a incarnare collettivamente l’ideale illegalista, tanto nell’odio verso i deboli che nella rivendicazione di un’assoluta libertà dai vincoli morali». La conclusione è indimenticabile: «da ideologia minoritaria, l’illegalismo si fa pensiero dominante, con tutto il sangue che ciò comporta».
Non si può dire che le argomentazioni di Evangelisti siano molto originali: non fanno altro che ripetere gli anatemi più volte piovuti sugli anarchici illegalisti, anatemi scagliati sia dagli anarchici più codini sia dai marxisti di ogni pelo, altezzosi intellettuali ostili al “lumpenproletariat”. Tutti questi fieri nemici dell’individuo e leali amici del popolo, da quasi un secolo si dannano per diffondere l’immagine di un Bonnot alter ego del feroce borghese (un po’ come in ambito filosofico c’è chi ha cercato di presentare Sade come alter ego del feroce nazista). Come se un individuo in rivolta contro la società potesse mai avere qualcosa in comune con un uomo di Stato ubriaco di potere.
Come se quegli anarchici del passato (ma nelle segrete intenzioni dell’autore il rimando è ad alcuni anarchici del presente) fossero una manica di pazzi furiosi, assetati di sangue, aspiranti stragisti. A questa menzogna è forse ora di opporre qualcos’altro che non sia il silenzio dell’indifferenza o le risate di ilarità. Il testo di Evangelisti — una piccola antologia di errori, contraddizioni, calunnie, il tutto condito da spassosi abbagli — fornisce un’ottima occasione per farlo.
Abbasso il lavoro!
È stato fatto più volte notare che i peggiori nemici della storia spesso sono proprio gli storici. A differenza di chi fa la storia, essi si limitano a raccontarla. Il loro oggetto di studio — l’avventurosa vita altrui — può talvolta diventare uno specchio in cui vedere riflessa l’insulsaggine della propria esistenza. Uno specchio da infrangere, tanto la sua vista è insopportabile.
Consapevoli del loro ruolo passivo, di mera contemplazione, essi si vendicano di chi ha vissuto in prima persona ed ha agito direttamente. Non stupisce quindi che Evangelisti, questo laureato in storia, questo prolifico autore di saggi a carattere storico, questo direttore di un archivio storico, mistifichi la storia di quei lontani anarchici. Già non si capisce bene cosa c’entri Emile Henry con l’illegalismo, se con questo termine ci si riferisce a quell’insieme di pratiche extralegali volte ad ottenere denaro: furti, rapine, truffe, contraffazione di falsa moneta. A spingere gli anarchici verso l’illegalismo non era e non è il delirio di onnipotenza o l’abiezione morale, quanto il rifiuto del lavoro salariato.
Il peggior ricatto cui ci sottopone la società è quello di scegliere fra lavorare o morire di fame. Nel lavoro, nella ricerca del lavoro, nel riposo dal lavoro, se ne va tutta la nostra vita. Quanti sogni infranti, quante passioni avvizzite, quante speranze deluse, quanti desideri insoddisfatti nella terribile condanna quotidiana del lavoro che è sempre stato il più feroce degli ergastoli.
Alcuni anarchici, anziché piegare la testa e la schiena per il proprio salario e l’altrui profitto, hanno preferito procurarsi in altra maniera i soldi necessari per vivere. Una scelta, la loro, condivisa e praticata da molti altri proletari. Il benpensante Evangelisti si guarda bene dal ricordare che all’epoca c’era una intera Parigi che viveva di espedienti, ad esempio la maggior parte della popolazione proletaria di Montmartre. Come verrà ricordato successivamente da Victor Serge: «Uno dei caratteri particolari della Parigi operaia di quel tempo, era che si trovava a contatto in vaste zone con la teppa, cioè col vasto mondo degli irregolari, dei decaduti, dei miserabili, col mondo equivoco: c’erano poche differenze essenziali tra il giovane operaio o artigiano dei vecchi quartieri del centro e il magnaccia dei vicoli vicini alle Halles. L’autista e il meccanico un po’ svelti rubacchiavano di regola tutto quello che potevano al padrone, per spirito di classe e perché “liberi” da pregiudizi…». Di fatto c’erano quartieri a Parigi più o meno “a rischio”, principalmente la periferia settentrionale della città (Pantin, St-Ouen, Aubervilliers e Clichy), in cui risiedevano molti ladri e borseggiatori professionisti, truffatori e falsari, così come migliaia di proletarie costrette occasionalmente a prostituirsi al fine di sbarcare il lunario. I proletari parigini, se non facevano parte di quel «mondo equivoco», ne erano di solito simpatizzanti e naturalmente erano ostili alla polizia, e nient’affatto contrari a compiere in prima persona piccoli furti.
Subito dopo la prima rapina compiuta da Bonnot e dai suoi compagni, un giornale francese dichiarò che la polizia parigina necessitava di rinforzi poiché doveva fare i conti con 200.000 fuorilegge (su una popolazione di tre milioni di persone). Se molti proletari accolsero le tesi anarchiche sulla «ripresa individuale» molto meglio di quanto accolsero la morale di un Jean Grave (o di un Valerio Evangelisti), se simpatizzarono con personaggi come Jacob o Bonnot, è perché capivano da dove provenivano.
Eppure Evangelisti sostiene che negli anarchici illegalisti il rifiuto del lavoro salariato era diventato disprezzo per i lavoratori, trasformando le vittime del sistema capitalista in suoi complici. Sicché alla divisione di classe fra sfruttatori e sfruttati, gli illegalisti avrebbero sostituito quella fra complici dello sfruttamento e ribelli. Tutto il saggio di Evangelisti è una denuncia di questa «marcata semplificazione», di questa «grossolana abolizione di ogni sfumatura analitica», rea di portare all’«appannamento tanto delle prospettive strategiche della lotta quanto delle tattiche rivendicative di medio raggio». Insomma, Valerio Evangelisti ce lo assicura: le sue non sono le parole dell’ex funzionario del ministero delle Finanze che di fronte a questi anarchici sente un brivido correre lungo la schiena, bensì quelle del compagno uso a guardare il «quadro articolato di una società stratificata in classi» e preoccupato che ad esso non venga sostituito un «profilo semplificato». Per il bene della rivoluzione, inutile dirlo.
Illegalisti, non evangelisti
Il guaio del creatore di Eymerich è quello di tutti i grigi e sinistri militanti. Non capire che questi anarchici non avevano il tempo di attendere con pazienza l’arrivo della “grande sera”, cioè la rivoluzione delle masse che avrebbe risolto la questione sociale liberandoli dallo sfruttamento. Non avevano voglia di ascoltare la buona novella dei preti rossi, secondo cui la liberazione è inscritta nello stesso processo capitalista, costituendone il lieto fine. Non avevano fiducia nei leader che, dall’alto della loro saggezza, osservando, misurando, calcolando, giungevano all’immancabile conclusione che la rivoluzione si farà domani, mai oggi. Avevano fretta e voglia di vivere, non di sopravvivere, qui e in questo momento.
Il primo ad avere deriso con forza e continuità i rivoluzionari evangelisti in Francia fu Zo d’Axa, creatore del settimanale “L’Endehors” a cui collaboravano anche scrittori del calibro di Georges Darien, Lucien Descaves, Victor Barrucand, Félix Fénéon, Bernard Lazare, Saint-Pol Roux, Octave Mirbeau, Tristan Bernard, Emile Verhaeren e molti altri (e pensare che il povero Evangelisti, nella sua accademica ignoranza, liquida d’Axa come «divulgatore secondario»!): perseguitato dalla magistratura, incriminato per “associazione di malfattori”, d’Axa non decantava le virtù di futuri paradisi terrestri, ma prendeva a frustate i vizi dei presenti inferni sociali allo scopo di incitare i suoi lettori alla rivolta.
Dopo di lui, sarà la volta di Albert Libertad. Ma al contrario di Zo d’Axa, rimasto essenzialmente un solitario, Libertad fu capace di dare alla sua azione una forma costruttiva ed un impatto sociale, ampliando il respiro delle proprie idee. Lo stesso Evangelisti è costretto a riconoscere che il suo giornale «discretamente diffuso» riuscì a «conquistare consenso in taluni settori popolari». Collaboratore della stampa libertaria, attivo nell’agitazione pro-Dreyfus, nel 1902 Libertad fu fra i fondatori della Lega Antimilitarista e, assieme a Paraf-Javal, fondò le “Causeries populaires”, discussioni pubbliche che riscossero un grande interesse in tutto il paese, contribuendo all’apertura di una libreria e diversi locali in vari quartieri parigini. Sull’onda dell’entusiasmo suscitato da queste iniziative fondò tre anni dopo il settimanale “l’Anarchie”, che in occasione della ricorrenza del 14 luglio stampò e diffuse il manifesto “La Bastiglia dell’Autorità” in 100.000 copie. Oltre ad una febbrile attività contro l’ordine sociale, Libertad era solito organizzare anche feste, balli e gite campestri, conseguentemente alla sua visione dell’anarchismo come «gioia di vivere» e non come sacrificio militante e pulsione di morte, cercando di conciliare le esigenze dell’individuo (nel suo bisogno di autonomia) con la necessità di distruggere la società autoritaria. Libertad infatti superò la falsa dicotomia rivolta individuale/rivoluzione sociale, evidenziando che la prima è solo un momento della seconda, non certo la sua negazione: la rivolta non può che nascere dalla tensione individuale del singolo, la quale, per estendersi, può solo sfociare in un progetto sociale di liberazione. Per Libertad l’anarchismo non consiste nel vivere separati da ogni contesto sociale in qualche fredda torre d’avorio o in qualche isola felice comunitaria, né vivere sottomettendosi ai ruoli sociali procrastinando ad oltranza il momento in cui mettere in atto le proprie convinzioni, ma vivere qui ed ora come anarchici, senza concessioni, nella sola maniera possibile: rivoltandosi. Ed ecco che, in questa prospettiva, rivolta individuale e rivoluzione sociale non si escludono più a vicenda, ma si integrano. Questa concezione di vita esige una concordanza fra teoria e pratica che rende furiosi i vari evangelisti che pensano di poter essere rivoluzionari pur continuando ad essere impiegati di banca, docenti universitari, commercialisti, burocrati ministeriali o portaborse di grandi case editrici, lasciando a un meccanismo storico esterno il compito di trasformare la realtà. Come ebbe a dire lo stesso Libertad: «la nostra vita è un insulto per i deboli e i bugiardi che si vantano di un’idea che non mettono mai in pratica». Nelle sue memorie Victor Serge così ricorderà il fascino esercitato dalle idee di Libertad: «L’anarchismo ci prendeva per intero perché ci chiedeva tutto, ci offriva tutto: non c’era un solo angolo della vita che non rischiarasse, almeno così ci sembrava. Si poteva essere cattolici, protestanti, liberali, radicali, socialisti, anche sindacalisti senza nulla cambiare della propria vita, e per conseguenza della vita: bastava dopo tutto leggere il giornale corrispondente; a rigore frequentare il caffé degli uni o degli altri. Intessuto di contraddizioni, dilaniato in tendenze e sottotendenze, l’anarchismo esigeva anzitutto l’accordo tra gli atti e le parole…».
Senza servi niente padroni
Secondo gli evangelisti, sono i padroni a creare i servi. Solo quando scomparirà chi comanda, scomparirà anche chi obbedisce. Ma finché esistono i padroni, ai servi non resta che continuare a piegare la testa e attendere con pazienza la loro morte. Per gli illegalisti, al contrario, sono anche i servi a creare i padroni. Se i primi smettessero di obbedire, i secondi scomparirebbero all’istante. Ecco perché solitamente gli illegalisti tendono a lasciar perdere il tono persuasivo tanto amato dagli evangelisti, non intendendo convertire gli sfruttati, bensì eccitarli, scatenarli, aizzarli contro il vecchio mondo.
A prima vista sembra quasi una differenza di sfumatura, ma di fatto si tratta di due prospettive opposte che comportano una consequenzialità pratica del tutto diversa.
Quando un evangelista maledice il padrone ed elogia il servo, non fa altro che criticare l’operato del primo e salutare la resistenza alla frusta del secondo. Il padrone è cattivo perché opprime, il servo è buono perché sopporta. E poiché gli evangelisti negano la singola rivolta dei servi, a cui è concesso ribellarsi solo collettivamente, tutti assieme nello stesso momento — un momento che viene rimandato all’infinito da chi non ama i «profili semplificati» — cosa ne consegue? Che i servi devono continuare ad essere buoni, cioè a sopportare, nella speranza che prima o poi…
Viceversa, quando l’illegalista maledice sia il padrone che il servo non lo fa per equiparare le loro responsabilità, ma per esortare il secondo a cambiare subito la propria vita, ad agire contro il primo, perché ritiene che sia sempre possibile fare qualcosa di concreto per liberarsi dal giogo. Perché comandare è indegno, è vero, ma lo è anche obbedire. Perché di fronte alla frusta non va acclamata la tolleranza, ma la rivolta. Non c’è nulla di ammirevole negli onesti lavoratori che si lasciano sfruttare o negli onesti elettori che si lasciano governare. Ammirevole è la capacità di ribellarsi, di disertare i ruoli sociali che vengono imposti per iniziare ad essere se stessi; una capacità che ha sempre la possibilità di esprimersi. Dietro il disprezzo delle parole di Libertad (e degli altri anarchici come lui) per quel che gli sfruttati si lasciano fare, c’è sempre la passione per quel che potrebbero fare. Si può condividere o meno un simile approccio alla «questione sociale», ma affermare che si tratta di una indicazione operativa contro gli sfruttati, di una teorizzazione della violenza cieca e indiscriminata, è un’aberrazione degna di un imbecille o una calunnia degna di un miserabile.
Evangelisti ha dimostrato di essere l’uno e l’altro, ad esempio quando equipara borghesi guerrafondai e anarchici illegalisti, dimenticando che se i primi nutrono «odio verso i deboli» i secondi nutrono odio verso i potenti. Lo stesso Evangelisti, dopo averlo arruolato fra gli illegalisti, ha dovuto ammettere che quando Emile Henry si era dichiarato a favore degli «atti di brutale rivolta», aveva anche specificato che il suo obiettivo erano solo i borghesi. Quanto alle sue vittime, il minimo che si possa dire è che agli occhi interessati degli evangelisti il loro sangue doveva essere più raccapricciante di quello versato dagli anarcosindacalisti spagnoli. Cosa hanno fatto poi di tanto diverso quei quindici compagni che nella primavera del 1923, a Barcellona, fecero irruzione nel Circolo dei Cacciatori, abituale ritrovo dei padroni più reazionari, e aprirono il fuoco sui presenti?
Ad ogni modo è soprattutto contro gli illegalisti francesi passati alla storia come “banda Bonnot” che Evangelisti lancia le sue scomuniche. Ora, a parte il fatto che la “banda Bonnot” in quanto tale non è mai esistita, essendo una pura invenzione giornalistica, chi erano mai questi anarchici?
Bonnot aveva fatto diversi mestieri e veniva spesso licenziato per via della sua insofferenza per i padroni. Garnier era un renitente alla leva, un operaio che aveva preso parte a numerosi scioperi, con precedenti per oltraggio e incitamento all’omicidio durante uno sciopero, e con la tessera del sindacato. Callemin aveva già avuto in precedenza alcune condanne per furto e per scontri con la polizia durante uno sciopero generale. Valet era un fabbro, sempre presente nelle manifestazioni. Dieudonné era un falegname e aveva preso parte a numerosi scioperi. Soudy era un garzone di drogheria, con precedenti per oltraggio, resistenza all’arresto e per aver distribuito volantini durante uno sciopero. De Boe era un tipografo che era stato imprigionato per via di alcuni articoli antimilitaristi. Carouy lavorava in un garage. Medge, anch’egli renitente, faceva il cuoco. Erano tutti semplici proletari, attivi nel movimento dell’epoca, che collaboravano in vario modo a pubblicazioni sovversive, frequentavano le sedi, partecipavano agli scontri con la polizia come quelli avvenuti in seguito alla Settimana Tragica o all’esecuzione di Liabeuf. Erano tutti compagni, schedati come agitatori e teste calde. Per questo motivo, trovare lavoro era per loro impresa ancora più ardua. Non c’è quindi nulla di sorprendente nel fatto che avessero deciso di fare ricorso alla ripresa individuale. Che talvolta alcuni di loro siano incappati in poco piacevoli “incidenti di percorso” è un fatto che in sé non copre di infamia una scelta individuale del tutto coerente con le idee anarchiche.
Le disavventure di uno storico
Lo storico Evangelisti non può fare a meno di salire in cattedra a dare lezioni. Leggendo il suo saggio si viene così istruiti su molte cose interessanti, sebbene spesso contraddittorie, talvolta del tutto assurde.
Già non si comprende cosa c’entri Fantômas con gli illegalisti. Primo: se «è l’omicidio, e non il furto, l’asse della sua azione criminale», al contrario è il furto l’asse dell’azione illegalista, essendo l’omicidio solo un imprevisto (evitabile o meno, questo è un altro problema) che talvolta si è verificato. Secondo: se gli «uomini di Bonnot» (sic!) sono «apparsi pochi mesi dopo» che Fantômas ha visto la luce, come diavolo fanno ad averlo ispirato? Chi sono quindi questi anarchici illegalisti che avrebbero riempito le cronache, «zeppe» dei loro misfatti, scatenando la fantasia di Allain e Souvestre?
Poi c’è il solito Max Stirner, bestia nera di tutti coloro che amano le masse popolari perché intenzionati a guidarle o addomesticarle. All’inizio viene definito «il riferimento d’obbligo» per Fantômas e quindi, a detta di Evangelisti, per gli stessi anarchici amanti del «crimine». Ma poi, poco dopo, ecco che «nemmeno Max Stirner è individuabile quale ispiratore degli illegalisti». E che dire delle idee illegaliste? Sono un «corpus teorico di spessore non trascurabile» oppure costituiscono un «limitato bagaglio teorico»?
Per fare terra bruciata attorno alle idee individualiste e illegaliste, Evangelisti non trova di meglio che appellarsi ai grandi nomi del movimento anarchico, rammentando che «nulla di analogo è reperibile in Proudhon, Bakunin, Kropotkin o nei coevi Malatesta e Reclus». Come dire che, dinnanzi ai padri fondatori, mica saranno davvero anarchici questi delinquenti! Eppure fu proprio Proudhon, decretando che la proprietà è un furto, a gettare le basi del concetto di ripresa individuale. E che dire dello scatenamento delle cattive passioni invocato da Bakunin? Kropotkin teorizzava sì la necessità di mettere semi sotto la neve, ma anche che «tutto è buono per noi quando non sia la legalità». Quanto al «coevo» Reclus, era lui a sostenere che «la codardia per eccellenza è il rispetto delle leggi» e ad esprimersi su Ravachol in questi termini: «ammiro il suo coraggio, la sua bontà, la sua grandezza d’animo… conosco pochi uomini che lo superino in nobiltà… è un eroe dalla magnanimità fuori dal comune» (mentre il nipote Paul asseriva che «nella società attuale il furto e il lavoro non sono sostanzialmente differenti. Io mi scaglio contro la pretesa che ci sia un modo onesto di guadagnarsi la vita, il lavoro; e uno disonesto, il furto o la truffa…»). Inoltre che senso ha prendersela tanto con Armand (fra l’altro, il più candido degli illegalisti) quando è noto che l’altro «coevo» Malatesta lo apprezzava al punto di domandarsi «perché mai l’Armand parla continuamente di “individualismo anarchico”, come un corpo di dottrina distinto mentre in generale non fa che esporre i principi comuni a tutti gli anarchici di qualsiasi tendenza»?
Come se non bastasse, il fantascrittore bolognese riesce addirittura a confondere l’anarchico Raymond Callemin con il situazionista Guy Debord! Eccolo insinuare: «non è forse un caso se nel 1912 il braccio destro di Jules Bonnot, Raymond-la-Science, esalta in un’ironica ballata un’altra impresa di Henry, l’attentato agli uffici della miniera di Carmaux, definendo poulets vulgaires le vittime civili del gesto». Qui lo storico Evangelisti ha preso una cantonata storica, dando il meglio di sé: 1) l’ironica ballata è stata scritta da Debord, che per celia si è firmato con il nome del «braccio destro» di Bonnot (certa gente non può fare a meno di ragionare in termini di gerarchie…); 2) poulets vulgaires significa sbirri volgari, ed il riferimento è al vigile urbano e al sotto-brigadiere morti nell’esplosione; 3) la sola vittima civile fu il fattorino dell’impresa che aveva aiutato gli sbirri a trasportare la bomba all’interno del commissariato.
Divertente è anche la contrapposizione sollevata da Evangelisti fra Libertad e Pouget. Anarchico illegalista il primo, anarcosindacalista il secondo, come stupirsi se le considerazioni di Pouget vengono definite «assai più equilibrate»? C’è da chiedersi se Evangelisti abbia mai letto il giornale di Pouget, “le Père Peinard”. Ecco cosa scriveva nel 1905 un contemporaneo a proposito di questo giornale anarchico, il più scurrile e con il maggior numero di lettori fra la classe lavoratrice: «Senza nessuno sfoggio di filosofia (il che non vuol dire che non ne abbia) ha giocato apertamente con gli appetiti, i pregiudizi ed i rancori del proletariato. Senza riserve o inganni, ha incitato al furto, alla contraffazione, al rifiuto di tasse e affitti, all’omicidio e all’incendio. Ha consigliato l’immediato assassinio di deputati, senatori, giudici, preti e ufficiali dell’esercito. Ha invitato gli operai disoccupati a prendere cibo per se stessi e le loro famiglie ovunque lo trovassero, a fornirsi di scarpe al negozio di scarpe quando la pioggia primaverile bagnava loro i piedi, ed a coprirsi al negozio di vestiti quando i venti invernali li pungevano. Ha invitato gli operai a mettere alla porta i loro datori di lavoro tirannici, e ad appropriarsi delle loro fabbriche; i braccianti ed i vignaioli ad impossessarsi delle fattorie e delle vigne, e trasformare i proprietari dei campi e delle vigne in fosfati fertilizzanti; i minatori ad impadronirsi delle miniere e ad offrire picconi agli azionisti nel caso in cui questi avessero mostrato disponibilità di lavorare come loro amici fraterni, altrimenti a scaricarli in pozzi inutilizzati; i coscritti ad emigrare piuttosto che fare il loro servizio militare, i soldati a disertare o a sparare agli ufficiali. Ha esaltato i bracconieri ed altri deliberati trasgressori della legge. Ha raccontato le gesta di antichi briganti e fuorilegge, e esortato i contemporanei a seguire il loro esempio». Ce ne fossero ancora oggi di anarcosindacalisti così equilibrati…
Quanto alla borghesia che avrebbe incarnato «l’ideale illegalista» al punto di scatenare la prima guerra mondiale, per avere un’idea dell’infamia di una simile ipotesi basti ricordare che in Francia gli anarchici interventisti non furono né gli illegalisti né gli individualisti, ma proprio gli anarchici bigotti alla Jean Grave.
Solo chi amava le masse al punto di seguirle e giustificarle in ogni bassezza accettò l’idea di sostenere la guerra. Furono i maggiori critici di Libertad e Bonnot a sostenere che un anarchico può essere un soldato, ma non un rapinatore. Eccola qua, la doppia morale evangelista.
Infine…
A quasi un secolo di distanza, la rivolta di quei lontani anarchici continua a bruciare. Mentre la servitù volontaria ha quasi raggiunto quota sei miliardi, mentre una catastrofe sociale, tecnologica e ambientale minaccia ogni giorno di più la mera sopravvivenza del genere umano, mentre da ogni parte si vedono ricchi rispettare la miseria dei poveri e poveri rispettare l’abbondanza dei ricchi, è incredibile che ci siano ancora pompieri che, in nome della rivoluzione ma per conto del proprio quieto vivere, accorrono a spegnere i focolai illegalisti. Potranno mai gli inviti alla calma da parte degli evangelisti della militanza fermare l’urgenza della guerra sociale?
[Machete, n. 1, gennaio 2008]
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Bonnot and the Evangelists
Survivors have always hounded social movements. Survivors of battles considered lost, survivors of decomposed ideologies, survivors of unrealized utopias, sorry figures who present their own personal defeat as if it were a historical defeat with the aim of finding some public justification for their human misery. As is known, since life is over for the survivor, it is necessary to consider how to face survival, and some of them can’t resist dedicating themselves to literature.. If their experience and knowledge did not serve yesterday to make the revolution, let them at least serve today for getting by!
One of these good people is Valerio Evangelisti, a well-known science fiction writer, creator of the character Eymerich the Inquisator. And that’s not all. He also curated the “Project Memory: the Commune”, was president of the “Marco Pezzi” Historical Archive of the New Left in Bologna, is a collaborator in Le Monde Diplomatique* as well as the editorial director of the magazine Carmilla (“literature, imagination and the culture of opposition”). There is a little thing gnawing at all these writers with radical cravings, the attampt to connect profit and militancy. But to be honest, we have to recognize an undeniable qualitative leap in him. Unlike those who have gone to the assault on the sales chart after having given up the assault on the heavens, Evangelisti has only had to give up an alternative academic career in exchange for work as a functionary of the Finance Ministry.
Like his colleague Pino Cacucci**, former anarchist revolutionary, Evangelisti was born in the Emilian capital (Bologna), which holds the dishonorable record for having spawned a whole generation of “creative” recuperators (from Bifo to Luther Blisset to Helena Velena). Like Cacucci, he has taken an interest in the French illegalists anarchists of the early twentieth century known as the “Bonnot gang”. Cacucci wrote a novel that, a short while ago, could even be found on supermarket shelves between the bread and the toilet paper. Evangelisti dedicated an essay to them that appeared in an anthology that was meant to pay homage to the literary character created by the imagination of Marcel Allain and Pierre Souvestre, Fantômas the King of Terror. “Fantômas and the Illegalists” is the title of this essay, which is a noteworthy example of Evangelisti’s passion: uniting fantastic fiction with political critique. It is necessary to say here that the fantastic fiction, evoked by Fantômas, is very much a pretext for giving free rein to the political critique of illegalist anarchists. Of the six paragraphs that make up this text, only the first is dedicated to Allain’s and Souvestre’s. The rest of the text gives body to the nightmares of this left militant in the face of an anarchist revolt that is determined not to remain smothered in the dust of the archives.
Evangelisti’s thesis can be quickly summed up: Fantômas, a criminal capable of committing the most heinous crimes at anyone’s expense, was created in France in the early twentieth century; he was inspired by illegalist anarchists who filled the papers of the times with “crimes, at times gratuitous”, committed to gratify their unconstrained individualism outside of any context of social struggle;this illegalism had experienced an earlier generation in which episodes of brutal violence had been limited (Ravachol and Henry) and, in any case, still linked to a class perspective, but had later suffered a degeneration that led it to defend undifferentiated violence against the exploited themselves, as witnessed in theory in the writings of Libertad and in practice in the actions of the “Bonnot gang”; illegalist ideas would remain completely circumscribed in a marginal sphere of the anarchist movement, not finding comfirmation among other enemies of the state where “the revolutionary process is constantly conceived as mass action, even when the task of triggering it might be attributed to a narrow vanguard”. This blind exaltation of violence in the name of an Individual attentive only to his own ease is, in reality,akin to the worst reasoning of the state, since “The bourgeoisie, made into the state, would be precisely the ones to inaugurate the age contemporaneous with the most widespread and indiscriminate slaughter seen up to that time. They would be the ones to collectively embody the illegalist ideal, as much in the hatred of the weak as in an absolute freedom from moral obligations”. The conclusion is unforgettable: “From a minority ideology, illegalism became the ruling thought, with all the blood that this entails”.
You couldn’t call Evangelisti’s arguments very original. They merely repeat the anathemas most frequently showered on illegalist anarchists, anathemas hurled both by the more reactionary anarchists and by marxists of every stripe, haughty intellectuals hostile to the “lumpenproletariat”. All these fierce enemies of the individual and loyal friends of the people have striven for nearly a century to spread the image of Bonnot as an alter ego of the savage bourgeois (kind of like in philosophical circles where there are those who have tried to present Sade as an alter ego of the savage nazi). As if an individual in revolt against society could ever have anything in common with a man of state drunk on power. As if those anarchists of the past (but in the author’s hidden intentions, the reference is to a few present-day anarchists) were a gang of raging lunatics, hungry for blood, aspiring slaughterers. Perhaps it is time to oppose this lie with something other than the silence of indifference or the laughter of merriment. Evangelisi’s text–a small anthology of errors, contradictions, slander, the whole thing seasoned with amusing blunders–supplies an optimal occasion for doing so.
DOWN WITH WORK!
It has been noted time and again that the worst enemies of history are often precisely historians. Unlike those who make history, they limit themselves to recounting it. Their objects of study–other people’s adventurous lives–can sometimes become a mirror in which they see the banalityof their own lives reflected. A mirror to break, its view is so unbearable. Aware of their own passive role of mere contemplation, they get their revenge on those who have lived in the first person and acted directly. So it isn’t surprising that Evangelisti, this history graduate, this prolific author of essays with historical themes, this director of a historical archive, mystifies the history of those distant anarchists. It isn’t clear what Emile Henry has to do with illegalism if this term is used to refer to the ensemble of extra-legal practices used to get money: theft, robbery, con games, counterfeiting. It wasn’t and isn’t the delusion of omnipotence or moral degradation that pushes anarchists toward illegalism, but rather the refusal of wage labor.
The worst blackmail that society subjects us to is that of choosing between working or dying of hunger. Our whole life is frittered away in work, in looking for work, in resting from work. How many dreams are shattered, how many passions shrivelled, how many hopes disappointed, so many desires left unsetisfied in the terrible daily condemnation to work that has always been the most savage life sentence. Some anarchists, rather than bowing their head and bending their back for their wage and someone else’s profit, have preferred to procure the monety necessary for living in another manner. And this choice of theirs has been shared and practiced by many other proletarians. The priggish Evangelisti is careful not to recall that at the time, Paris was full of those who lived by their wits, for example, the majority of the proletarian population of Montmartre. As Victor Serge recalled later: “One of the particular characteristics of working class paris at that time was that it was in contact with the riff-raff, i.e. with the vast world of irregulars, decadents, wretched ones, with the equivocal world. There were few essential differences between the young worker or artisan of the old quarters of the center and the pimps in the alleys of the neighborhoods of the Halles. The rather quick-witted driver and mechanic, as a rule, stole whatever they could from the bosses, through class spirit and because they were ‘free’ of prejudices.” In fact, there were quarters in Paris that were more or less “at risk”, mainly the northern outskirts of the city (Pantin, St.-Ouen, Aubervilliers and Clichy), in which many professional thieves and pickpockets, swindlers and counterfeiters lived, along with thousands of proletarians forced to prostitute themselves on occasion in order to scrape by. When not themselves a part of this world, Parisian proletarians were usually sympathetic to it and naturally hostile to the police, and they were not at all opposed to carrying out small thefts themselves.
Immediately following the first robbery carried out by Bonnot and his comrades, a French newspaper declared that the Paris police needed reinforcements since they had to deal with two hundred thousand outlaws (in a population of three million people). If many proletarians welcomed the anarchist theses about “individual reprisal” more than the morality of a Jean Grave (or a Valerio Evangelisti), if they sympathize with people like Jacob or Bonnot, it is because they understand where they are coming from.
And yet, Evangelisti maintains that in the anarchist illegalists, the refusal of wage labor had become contempt for workers, transforming victims of the capitalist system into its accomplices. So the illegalists were supposed to have replaced the division between exploiters and exploited with the division between the accomplices of exploitation and rebels. Evangelisti’s entire essay is a denunciation of this “clear-cut simplification”, this “crude abolition of all analytical nuance”, guilty of leading to the “blurring as much of the strategic perspectives of struggle as of the medium range tactical requirements”. In short, Valerio Evangelisti assures us that his are not the words of a former functionary of the finance ministry who feels a chill running down his spine in the face of these anarchists, but rather those of a comrade accustomed to looking at the “well-structured picture of a society stratified into classes” and concerned that it doesn’t get replaced with a “simplified profile”. For the good of the revolution, needless to say.
ILLEGALISTS, NOT EVANGELISTS
The trouble with Eymerich’s creator is that of all gray, leftist militants. He doesn’t understand that these anarchists didn’t have time to wait patiently for the arrival of the “great night”, i.e., the mass revolution that was supposed to resolve the social question freeing them from exploitation.They had no desire to hear the gospel of the red priests, according to which liberation is inscribed in the capitalist process itself, constituting its happy ending. They had no faith in leaders, who from the height of their wisdom, pbserving, measuring, calculating, reached the unfailing conclusion that revolution woukld happen tomorrow, never today. They were in a hurry and wanted to live, not merely survive, here, in this moment. The first person to forcefully and continuously mock revolutionary evangelists in France was Zo d’Axa, creator of the weekly, L’Endehors, in which writers of the caliber of Georges Darien, Lucien Descaves, Victor Barrucand, Félix Fénéon, Bernard Lazare, Saint-Pol Roux, Octave Mirbeau, Tristan Bernard, Emil Verhaeren and many others collaborated (and to think that poor Evangelisti, in his academic ignorance, writes d’Axa off as a “secondary popularizer”!). Persecuted by the legal system, charged with “association of malefactors”, d’Axa didn’t extol the virtues of future earthly paradises, but bitterly criticized the defects of the present social hells with the aim of inciting his readers to revolt.
After him, it would be Albert Libertad’s turn. But unlike Zo d’Axa, who essentially remained a loner, Libertad was able to give his action a constructive form and a social impact, increasing the range of his ideas. Evangelisti himself was forced to recognize that his “fairly well-distributed” newspaper managed to “win approval in some popular sectors”. A collaborator in the libertarian press, active in pro-Dreyfus agitation, in 1902 Libertad was among the founders of the Anti-militarist League and, along with Paraf-Javal, founded the “Causeries populaires”, public discussions that met with great interest throughout the country, contributing to the opening of a bookstore and various clubs in different quarters of Paris. On the wave of enthusiasm raised by these initiatives, he founded the weekly, l’Anarchie three years later. On the occasion of the July 14 anniversary, this newspaper printed and distributed the manifesto “The Bastille of Authority” in one hundred thousand copies. Along with feverish activity against the social order, Libertad was usually also organizing feasts, dances and country excursions, in consequence of his vision of anarchism as the “joy of living” and not as militant sacrifice and death instinct, seeking to reconcile the requirements of the individual (in his need for autonomy) with the need to destroy authoritarian society. In fact, Libertad overcame the false dichotomy between individual revolt and social revolution, stressing that the first is simply amoment of the second, certainly not its negation. Revolt can only be born from the specific tension of the individual,which, in expanding itself, can only lead to a project of social liberation. For Libertad, anarchism doesn’t consist in living separated from any social context in some cold ivory tower or on some happy communitarian isle, nor in living in submission to social roles, putting off the moment when one puts one’s ideas into practice to the bitter end, but in living as anarchists here and now, without any concessions, in the only way possible: by rebelling. And this is why, in this perspective, individual revolt and social revolution no longer exclude each other, but rather complement each other.
This conception of life requires an agreement between theory and practice that infuriates the various evangelists who think that they can be revolutionaries while continuing to be bank clerks, university professors, departmental bureaucrats or flunkies for large publishing houses, leaving the task of transforming reality to an external historical mechanism. As Libertad himself said: “our life is an insult to the weaklings and liars who take pride in an idea that they never put into practice”. In his memoires, Victor Serge recalls the fascination that Libertad’s ideas exercised in this way: “Anarchism gripped us completely because it demanded everything from us and offered everything to us; there wasn’t a single corner of life that it didn’t illuminate, at least so it seemed to us. One could be Catholic, Protestant, liberal, radical, socialist, even syndicalist without changing anything in one’s life, and consequently without changing life: after all, one only needs to read the corresponding papers and frequent the appropriate cafes. Riddled with contradictions, torn apart by tendencies and sub-tendencies, anarchism demanded, first and foremost, the agreement between actions and words.
NEITHER SLAVES NOR MASTERS
According to the evangelists, masters are the ones that create slaves. Only when those who command disappear will those who obey also disappear. But as long as masters exist, the only thing slaves can do is bow their heads and wait patiently to die. For illegalists, on the contrary, slaves also create their masters. If the former were to stop obeying, the latter would disappear just like that. This is why illegalists usually tend to let themsleves lose the the persuasive tone that evangelists love so much, since the former don’t intend to convert the exploited, but rather to excite them, to provoke them, to stir them up against the old world.
At first view, it almost seems to be a difference of nuance, but in fact it is about two opposing perspectives that entail completely different practical consistency. When an evangelist curses the masteres and praises the slaves, he does nothing more than criticize the actions of the former and salute the resistance of the latter to the whip. The master is wicked because he oppresses; the slave is good because he endures. And since the evangelists reject the individual revolt of slaves, who are only granted collective rebellion, all together at the same time–a time that is postponed endlessly by those who don’t love “simplified profiles”–what follows from this? That the slaves have to go on being good, i.e., enduring, in the hope that sooner or later…
On the other hand, when the illegalist curses both the master and the slave, he doesn’t do so to compare their responsibility, but to urge the latter to change his life immediately, to act against the master, because the illegalist maintains that it is always possible to do something to free oneself from the yoke. Because commanding is shameful, it is true, but so is obeying. Because before the whip, tolerance isn’t acclaimed, but rather revolt. There is nothing admirable about the honest worker who lets himself be exploited, or the honest voter who lets himself be governed. What is admirable is the capacity to rebel, to desert imposed social roles in order to start being oneself; a capacity that always has the opportunity to express itself. Behind the scorn of Libertad’s words (and those of anarchists like him) for what the exploited allow to be done to them, there is always the passion for what they could do. One may share this approach to the social question or not, but stating that it is an operative indication(?) against the exploited, a theorizing of blind and indiscriminate violence is an aberration worthy of an idiot or a slander worthy of a wretch. Evangelisti has shown himself to be both; for instance, when he equates bourgeois warmongers with anarchist illegalists, forgetting that if the first feed “hatred for the weak”, the second feed hatred for the powerful. Again, after Evangelisti enrolled Emile Henry into the illegalists, he had to admit that when Henry declared himself in favor of “acts of brutal revolt”, he also pointed out that his only targets were the bourgeoisie. As to his victims, the least that can be said is that in the eyes of the evangelists, their blood had to be more gruesome thatn that spilled by the Spanish anarcho-syndicalists. What was so different about what fifteen comrades did later in Barcelona in the spring of 1923, when they burst into the Hunters’ Club, the customary retreat of the most reactionary masters, and opened fire on those present?
In any case, Evangelisti launches his anathemas fist and foremost against the French illegalists who went down in history as the “Bonnot gang”. Now leaving aside the fact that the “Bonnot gang” as such never existed, being a pure journalistic invention, who were these anarchists? Bonnot had worked a number of jobs and often got fired for his intolerance for masters. Garnier was a draft dodger, a laborer who had taken part in numerous strikes, with a record for offense and incitement to murder during a strike, and had a union card, Callemin already had previous convictions for theft and for conflicts with the police during a general strike. Valet was a smith, always present at demonstrations. Dieudonne was a carpenter and had taken part in several strikes. Soudy was a grocery boy, with a history of offenses, resisting arrest and distributing flyers during a strike. DeBoe was a printer who had been imprisoned for some anti-militarist articles. Carouy worked in a garage. Medge, also a draft dodger, worked as a cook. They were all mere proletarians, active in the movement of the time, who collaborated in various ways in subversive publications, frequented the venues, took part in conflicts with the police such as the events that followed the Tragic Week or Liabeuf’s execution. They were all comrades, blacklisted as agitators and hotheads. For this reason, finding work was an even more difficult undertaking for them. So there is nothing surprising in the fact that they decided to resort to individual reprisal. The fact that some of them at times ran up against less than pleasant “mishaps” does not in itself make and individual choice completely consistent with anarchist ideas infamous.
THE MISADVENTURES OF A HISTORIAN
The historian Evangelisti can do no less than get on his high horse to give lessons. So by reading his essay, one gets instructed about many interesting, though often contradictory and sometimes utterly absurd, things.
Already, there is no understanding what Fantômas has to do with the illegalists. First, if “murder, and not theft, is the axis of his criminal activity”, contrarily, theft is the axis of illegalist activity, murder being only an unforeseen contingency (whether avoidable or not, this is another question) that happens at times. Second, if “Bonnot’s men” (sic!) “appeared a few months after” Fantômas saw the light of day, how the hell did they inspire him? So who were these anarchist illegalists who were supposed to have filled the newspapers, “stuffed” with their misdeeds, provoking Allain’s and Souvestre’s fantasy?
Then, as usual, there is Max Stirner, black beast of all those who love the popular masses, because they intend to lead and domesticate them. At the beginning he is described as “the obligatory reference” for Fantômasand, therefore, according to Evangelisti, for the anarchist lovers of “crime” themselves. But then, a bit later, we see that “not even Stirner can be recognized as the inspirer of the illegalists”. And what is there to say about illegalist ideas? Are they a “theoretical corpus of considerable depth” or do they form a “limited theoretical stock”?
To create a no-man’s-land around individualist and illegalist ideas, Evangelisti finds nothing better to do than appeal to the big names of the anarchist movement, recalling the “nothing analogous is to be found in Proudhon, Bakunin, Kropotkin, or in the contemporaries, Malatesta and Reclus”. As if saying that, in the face of these founding fathers, these delinquents wouldn’t be true anarchists at all! And yet it was Proudhon, in declaring that property was theft, who laid the foundations for the concept of individual reprisal. And what about the unchaining of the wicked passions invoked by Bakunin? Kropotkin theorized the necessity of planting the seeds under the snow, but also that “everything is good for us when legality doesn’t exist”. As to the “contemporary” Reclus, he maintained that “the ultimate cowardice is respect for the law” and had this to say about Ravachol: “I admire his courage, his kindness, his greatness of spirit… I know few men who pass him in nobility… he is a hero of uncommon generosity” (while the nephew paul asserted that “in the current society theft and work are not substantially different. I rebel against the claim that there is an honest way of earning a living, work; and a dishonest way, theft or fraud…”) Besides, what sense is there in getting so worked up about Armand (among other things, the most candid of the illegalists) when it is known that the other “contemporary” Malatesta appreciated him to the point of asking “why does Armand continullay speak of ‘anarchist individualism’, as a distinct body of doctrine when generally he just sets forth the principles common to all anarchists of any tendency?”
As if that were not enough, the Bolognese fantasy writier actually manages to confuse the arnachist Raymond Callemin with the situationist Guy Debord! Here he inserts: “Perhaps it is no accident that in 1912, Jules Bonnot’s right-hand man, Raymond-la-Science, in an ironic ballad, praises another of Henry’s endeavors, the attack against the mining offices in Carmaux, describing the civilian victims of the act as poulets vulgaires.” Here the historian Evangelisti has made a historical blunder, giving his best: 1) the ironic ballad was written by Debord, who jokingly signed it with the name of Bonnot’s “right-hand man” (some people can’t help but think in hierarchical terms…); 2) poulets vulgaires means vulgar cops and is a reference to the local police and the low-level officer that died in the explosion; 3) the only civilian victim was the business’s delivery man who helped the cops transport the bomb to the police station.
The contrast that Evangelisti makes between Libertad and Pouget is also amusing. The first is an illegalist, the second an anarcho-syndicalist; what a surprise when Pouget’s thoughts get described as “much more balanced”. One could ask if Evangelisti ever read Pouget’s paper le Père Peinard. This is what a contemporary wrote in 1905 about this anarchist paper, the most scurrilous with the greatest number of readers among the working class: “Without any display of philosophy (which doesn’t mean it doesn’t have one it has openly played with the appetities, prejudices and rancors of the proletariat. Without reservations or deceit, it has incited to theft, counterfeiting, tax and rent refusal, murder and arson. It has advised the immediate assassination of members of the parliament, senators, judges, priests and army officers. It has called unemployed workers to take food for themselves and their families wherever they find it, to supply themselves with shoes at the shoeshop when the spring rains bathe their feet and to do the same at the clothing store when winter winds bite. It has called workers to throw their tyrannical employers out the door and to appropriate the factories for themselves; farmworkers and vinedressers to take possession of the farms and vineyards and to transform their owners into fertilizer; miners to take possession of the mines and to offer picks to the stockholders when they showed they were willing to work as comradely friends, otherwise to dump them down unused shafts; conscripts to emigrate rather than do their military service, and soldiers to desert or shoot their officers. It praised poachers and other transgressors of the law. It told stories about the deeds of old-time bandits and outlaws and exhorted contemporaries to follow their example.” If only there were still such balanced anarcho-syndicalists today.
As to the bourgeoisie that was supposed to embody the “illegalist ideal” to the point of triggering off the first World War, to get an idea of how contemptible this hypothesis is, it is enough to recall that in France the anarchist interventionists (those who supported anarchists taking part in the war) were neither illegalists nor individualists, but precisely the anarchists bigots like Jean Grave. Only those who loved the masses to the point of following them and justifying them in every vile action accepte the idea of supporting the war. Libertad’s and Bonnot’s greatest critics were the ones to maintain that an anarchist could be a soldier, but not a robber. Behold, the evangelistic double standard.
FINALLY
Nearly a century later, the revolt of those distant anarchists continues to burn. As voluntary servitude reaches over six billion, as social, technological and environmental catastrophe threatens the mere survival of humankind more every day, as on every side we see the rich respecting the misery of the poor and the poor respecting the abundance of the rich, it is incredible that there are still firefighters who, in the name of revolution but really on behalf of their quiet lives, rush to put out the illegalist fire. Will the calls to tranquillity by the evangelists of militancy ever be able to stop the urgency of the social war?
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*A French language journal that is one of the main sources of current leftist theory in Europe today.
**Author of In ogni caso nessun rimorso, translated into English as Without a Glimmer of Remorse (Christiebooks), a novel about the Bonnot. Unfortunately, it seems that some people in the US take it for a nonfiction account, despite the fact that the author intended it as fiction, and the English-language publisher advertises it as fiction.
[from Machete #1, 2008]
http://www.finimondo.org/node/1277