Astensionismo

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Alfredo Maria Bonanno

 

Siamo sempre stati contrari alle elezioni. Di qualsiasi forma e natura. Politiche, amministrative, zonali, sindacali, scolastiche, ecc…

La partecipazione alle elezioni implica la delega, cioè la cessione di se stessi nelle mani di altri. I più si fanno affascinare da programmi ideologici e da parole facili. Gli anarchici non sono mai caduti nell’equivoco.

Chi partecipa al potere è potere esso stesso. Non esiste – del potere – una gestione ottimale. Ne esiste una migliore e una peggiore, ma dal profondo della dittatura alla superficie (apparentemente) dorata della democrazia permissiva, per gli sfruttati, si tratta sempre di ubbidire, fare sacrifici, accettare la divisione di classe, sperare che i dominatori concedano qualcosa.

In qualsiasi prospettiva politica, sotto qualsiasi colore o programma, gli sfruttati sono costretti a piegare il capo, a dire di sì.

Per capovolgere questo stato di cose bisogna cambiare prospettiva. Non si tratta di un’alternativa diversa, ma di una diversa prospettiva. Non occorrono programmi, uomini o partiti diversi, occorre che la gente, gli sfruttati, i lavoratori, i disoccupati, le donne, gli studenti – insomma tutta la grande maggioranza del popolo, – possano prendere in mano le decisioni che riguardano il proprio futuro. Occorre, in una parola, che si neghi la delega e che si applichi l’azione diretta. Certo, queste sono belle parole, che, peraltro, gli anarchici ripetono puntualmente ad ogni scadenza elettorale. Non votare non basta. Appunto. Il tradizionale astensionismo, anche quello anarchico, assoluto e costante, non è sufficiente. E’ uno strumento platonico che solo in determinati momenti storici, quando ci si trova davanti a contraddizioni fortissime del capitale e dello Stato, può significare momento di raccolta delle forze antagoniste. In caso contrario, quando la situazioni è più o meno stabile e il potere procede a periodici aggiustamenti politici ed amministrativi, l’astensione del voto produce solo un dissenso ideale.

Occorrerebbe fare un passo avanti. Ne abbiamo parlato più volte, ma si tratta di un discorso che ci accorgiamo sembra decisamente difficile. I compagni sono spesso portati a considerare il problema astensionista come staccato da un processo continuo di recupero del consenso che, in un regime democratico, è regola di ogni giorno. Si pensa a “campagne” d’opinione, al solito manifesto, ai soliti volantini che nascono e muoiono in occasione della scadenza del potere.

A me pare che si possano riassumere alcuni punti di approfondimento per sviluppare un’impostazione astensionista più coerente e, soprattutto, più fattiva.

  • 1. Diversi livelli consultivi: politico, amministrativo, sindacale, scolastico, zonale, sanitario, ecc…
  • 2. Continuità dell’impegno astensionista nel tempo, a prescindere da scadenze nazionali.
  • 3. Concetto d’intervento sostitutivo. Cioè un intervento di massa che proponga soluzioni alternative su base locale facendo pressione dall’esterno, nelle singole realtà consultive.
  • 4. Costituzione di strutture astensioniste zonali basate sull’autonomia della lotta, sull’autogestione e sul principio della conflittualità permanente.
  • 5. Caratteristiche di queste strutture (di massa).
  • 6. Rapporti tra strutture astensioniste zonali e movimento anarchico specifico.
  • 7. Elaborazione dell’informazione sui problemi periferici (comunali, provinciali, di quartiere).
  • 8. Globalizzazione dell’intervento in ogni singola realtà (militarizzazione del territorio, carcere, nucleare, ecologia, servizi essenziali, salute, occupazione, scelte produttive, cultura, ecc…).

Chi legge queste righe è pregato di non attribuirci più possibilità di quelle che abbiamo e meno intelligenza di quella che possediamo. La nostra è una proposta di approfondimento. Ci rendiamo pienamente conto che, per il momento, non è possibile andare più in là, ma ci pare utile che si possa, almeno, proporre un passo avanti nei confronti della staticità del tradizionale astensionismo.

 

La frattura morale

Che un’azione sia considerata “giusta” non è elemento sufficiente di giudizio perché venga posta in atto, eseguita. Perché ciò avvenga occorrono altri elementi, alcuni dei quali, come la considerazione morale di fondo, sono del tutto estranei alla obiettiva fondatezza e “giustezza” dell’azione stessa.

Ciò è visibile nelle difficoltà che tutti i compagni riscontrano nel momento in cui si trovano ad intraprendere azioni che a lume della sola luce logica sembrano ineccepibili.

Si tratta, come cercherò di dimostrare qui, di un ostacolo morale che bisogna superare, un ostacolo che porta diritto alla creazione di una vera e propria “frattura” morale, con conseguenze non sempre facili a prevedere.

Sosteniamo da tempo, insieme a molti altri compagni, l’inutilità delle grandi manifestazioni di massa, pacifiche e dimostrative. Al loro posto, ed a fianco di manifestazioni, anch’esse di massa, ma organizzate in modo insurrezionale, propugniamo la possibilità (anzi, la necessità), di piccole azioni distruttive, d’attacco diretto contro le strutture del capitale responsabili dell’attuale situazione di sfruttamento e di genocidio a livello mondiale.

Mettendo da parte ogni discussione di metodo e di valutazioni politica, mi pare utile riflettere un poco sulla diversa disposizione personale nei riguardi di queste azioni.

In fondo, in ognuno di noi, per quanti approfondimenti teorici si siano potuti fare, restano vivi alcuni fantasmi: la proprietà altrui è uno di questi. Altri potrebbero essere la vita degli altri, Dio, la civiltà dei comportamenti, il sesso, la tolleranza per le altrui opinioni, e via discorrendo. Siamo, per limitarci al nostro assunto, tutti d’accordo contro la proprietà, però, nel momento in cui allunghiamo una mano per attaccarla, dentro di noi scatta un segnale d’allarme. Secoli di condizionamento morale agiscono a nostra insaputa e scatenano due reazioni, eguali e contrarie. Da un lato, il brivido del vietato, che porta tanti compagni ai dissennati furtarelli spesso al di là del bisogno immediato e inevitabile; dall’altro, il disagio per un comportamento “immorale”. Mettendo da parte il brivido, che non mi interessa e che lascio volentieri a coloro che di queste cose si dilettano, voglio insistere sul “disagio”.

Il fatto è che siamo stati ridotti tutti allo stato di animali da “branco”. Non è qui il caso di fare citazioni e non accetto alcun progenitore in modo assoluto. La cosa è evidente. La morale che tutti (“tutti”, quindi anche coloro che la negano in modo teorico e poi trovano alibi d’ogni genere per non trasformare in pratica questa negazione) condividiamo è quella “altruista”, perbenista nei comportamenti, tollerante nei rapporti, egualitaria e livellatrice nelle utopie. E i territori di questa morale sono ancora tutti da scoprire. Quanti sono i compagni che superbamente dichiarano di averne visitato alcuni e che poi arretrerebbero inorriditi davanti al seno della propria sorella? Forse molti, certamente non pochi.

E siamo sempre prigionieri di un’idea di schiavitù, quella morale per l’appunto, quando giustifichiamo davanti a noi stessi (e davanti al tribunale della storia) il nostro attacco contro la proprietà privata, affermando che gli espropriatori vanno espropriati. In questo modo, riaffermiamo la validità “eterna” della morale dei nostri precedenti padroni, rimettendo ai posteri il compito di giudicare se si possano o meno considerare espropriatori coloro nelle cui mani abbiamo rimesso quanto da noi personalmente espropriato.

Di giustificazione in giustificazione ricostruiamo la chiesa, quasi senza accorgercene. Ho detto “quasi”, perché in fondo ce ne accorgiamo, ma ne abbiamo paura.

Se togliamo agli altri la proprietà questo fatto ha un significato sociale, cioè costituisce una ribellione e, proprio per questo i detentori della proprietà che così vengono attaccati devono essere rappresentanti della classe che detiene la proprietà e non semplici detentori di qualcosa. Non siamo esteti dell’atto nichilista, per i quali andrebbe bene anche togliere le elemosine dal piatto del povero perché anche quella “è” proprietà. Ma l’atto dell’espropriazione ha un suo significato proprio nella collocazione di classe, non nel comportamento “scorretto” che colui che intendiamo espropriare ha tenuto in passato. In caso contrario, dovremmo escludere dalla legittimità di un esproprio un capitalista che paga i suoi dipendenti secondo le tariffe sindacali e non fa loro mancare quant’altro previsto dalla legge, oltre a non vendere a prezzi esosi e a non prestare ad usura. Perché mai dovremmo occuparci di queste cose?

Lo stesso problema sorge quando parliamo di atti “distruttivi”. Molti compagni non si danno pace. Ma perché questi atti? Cosa si conclude? Che validità hanno? Non arrecano utile a noi e sono solo di danno agli altri.

Attaccando, ad esempio, tanto per amore di discussione, un’impresa che fornisce armi al Sud Africa o finanzia il regime razzista d’Israele o progetta impianti nucleari o fabbrica apparecchiature elettroniche che poi servono per meglio indirizzare le armi tradizionali, e tante altre attività del genere, non si mette l’accento sulle responsabilità specifiche di chi si sta attaccando, quanto sulla sua collocazione di classe. Le responsabilità specifiche sono elemento di giudizio per la scelta strategica e politica, la collocazione di classe è il solo elemento di giudizio per la scelta etica. In questo modo si può fare un poco di chiarezza. Il fondamento morale dell’azione sta tutto nella differenziazione di classe, nella diversa appartenenza a due componenti della società che non possono trovare commistioni od alleanze e la cui esistenza finirà con la distruzione dell’una o dell’altra. Il fondamento politico e strategico invece determina una serie di considerazioni che possono anche essere contraddittorie. Tutte le obiezioni sopra elencate sono ovviamente riconducibili a questo secondo aspetto e non riguardano il fondamento morale.

Però, senza che ce ne accorgiamo, è proprio nel terreno della decisione morale che molti di noi trovano ostacoli. In fondo, la manifestazione di massa, pacifica (o quasi), comunque semplicemente dichiarativa d’intenti “contro”, era un’altra cosa. Anche gli scontri violentissimi con la polizia erano un’altra cosa. C’era una realtà intermedia, tra noi e la cosa “nemica”, una realtà che ci consentiva di salvare il nostro alibi morale. Ci sentivamo sicuri di essere nel “giusto”, anche quando assumevamo — nell’ambito del dissenso democratico — posizioni non condivise dalla gran massa dei manifestanti. Anche quando rompevamo qualche vetrina, le cose restavano sempre in modo tale che potevamo accomodarle.

Affrontando direttamente l’attacco, noi, da soli, o con altri compagni i quali non potranno mai darci alcuna “copertura” psicologica del genere di quella che ricevevamo tanto facilmente all’interno della “massa”, le cose sono diverse. Qui siamo noi, singoli, a decidere il nostro attacco contro l’istituzione. Non abbiamo mediatori, non abbiamo alibi, non abbiamo scuse. O attacchiamo o retrocediamo. O accettiamo fino in fondo la logica di classe dello scontro come contrapposizione irriducibile e senza soluzioni, o andiamo indietro verso i patteggiamenti, i distinguo, gl’imbrogli linguistici e morali.

Se allunghiamo la mano, intacchiamo la proprietà altrui — od altro, ma sempre di appartenenza del nemico di classe — dobbiamo assumerci tutte le responsabilità, senza potere trovare scuse in presunte condizioni della situazione collettiva nel suo insieme. Non possiamo, cioè, rinviare il giudizio morale, relativo alla necessità di attaccare e colpire il nemico, a quello che ne pensano gli altri i quali, tutti insieme, concorrono a determinare la “situazione collettiva”. Mi spiego meglio su questo punto. Non è che sono contrario al lavoro di massa, controinformativo e preparatorio, a quelle lotte intermedie che devono pur sempre esserci in condizioni di sfruttamento e di miseria. Sono contrario ad un’impostazione simbolica (esclusivamente simbolica) di queste lotte. Quindi, esse devono essere dirette ad ottenere risultati, sia pure parziali, ma concreti, immediati e visibili, però con la premessa di un impiego del metodo insurrezionale, cioè un metodo basato sul rifiuto della delega, sull’autonomia dell’intervento, sulla conflittualità permanente e sulle strutture autogestite di base. Quello che non condivido è l’insistenza, di alcuni, sulla necessità di fermarsi qui, quando non affermano di fermarsi prima, ad una semplice lotta di controinformazione e di denuncia, per altro orchestrata e ritmata sulle scadenze fornite dalla repressione. È possibile, anzi è necessario, fare qualcosa d’altro, e questo qualcosa, al momento attuale, in una fase di violenta e veloce ristrutturazione, mi sembra si possa individuare nell’attacco diretto, polverizzato, verso i piccoli obiettivi del nemico di classe, obiettivi che sono ben visibili nel territorio (e quando non sono visibili, il lavoro di controinformazione preventiva può renderli visibili con un minimo di sforzo).

Io non penso che ci possano essere compagni anarchici contrari a queste pratiche, almeno in linea di principio. Vi possono essere quelli (e vi sono) che si dicono contrari in base ad una considerazione generale della situazione sociale e politica, perché non vedono in esse uno sbocco costruttivo di massa, e questo posso capirlo. Ma non ci possono essere condanne a priori. Il fatto è che il numero di coloro che prendono le distanze da queste pratiche è di gran lunga minore di coloro che, pur accettandole, non le mettono in atto. Come si spiega tutto ciò? Penso che possa spiegarsi proprio con questa “frattura morale” che l’oltrepassamento della soglia dell’altrui “diritto” comporta in molti compagni, come me e come tanti altri, educati fin da piccoli a ringraziare e a chiedere scusa ad ogni pie’ sospinto.

Spesso parliamo di liberazione degli istinti e — in verità, senza avere le idee chiare — parliamo anche di “vivere la propria vita” (argomento complesso che merita un approfondimento a parte). Parliamo anche di rifiuto degli ideali illusori trasmessici dalla borghesia nel suo momento vittorioso, almeno rifiuto nei termini contraffatti in cui quegli ideali ci sono stati imposti attraverso la morale corrente. Parliamo infine della soddisfazione reale dei nostri bisogni, che non sono soltanto i bisogni cosiddetti primari della semplice sopravvivenza fisica. Ebbene, penso che per tutto questo bel programma, le parole non bastino. Quando restavamo fermi sulle rive della vecchia concezione di classe, basata sul desiderio di “riappropriazione” di quanto ingiustamente ci era stato tolto (il prodotto del nostro lavoro), eravamo in grado di “parlare” bene (anche se poi razzolavamo male), di bisogni, di uguaglianza, di comunismo e finanche di anarchia. Oggi, che questa fase di semplice riappropriazione ci è stata lestamente modificata sotto gli occhi dallo stesso capitale, non possiamo fare ricorso alle medesime parole, ai medesimi concetti. Il tempo delle parole sta lentamente per finire. E ci accorgiamo ogni giorno di più di risultare tragicamente arretrati, di essere racchiusi in un ghetto di discorsi all’interno del quale ci soffermiamo a battibeccare su argomenti ormai privi di reale interesse rivoluzionario. E ciò mentre la gente viaggia velocemente verso altri significati ed altre prospettive, sornionamente sospinta dalle improbabili ma efficaci sollecitazioni del potere.

Il grande lavoro di liberare l’uomo nuovo dall’etica, questo peso enorme che venne a suo tempo costruito nei laboratori del capitale e contrabbandato fra le file degli sfruttati, questo lavoro non è praticamente nemmeno cominciato.

[Alfredo M. Bonanno, La frattura morale, da “Provocazione”, numero 12, marzo 1988.]

 

Francisco Sabaté

Questo libro [A. Tellez, Sabate. Guerilla Extraordinary, London, 1985] parla della vita, l’azione e della morte di un guerrigliero anarchico.

Molte cose sono successe da quando fu pubblicato per la prima volta alla fine degli anni Sessanta, e l’esperienza della lotta armata in Europa non è più limitata soltanto a quella dei compagni che continuarono la lotta contro la Spagna franchista. Ma questo non toglie nulla all’importanza teorica e pratica delle azioni di Sabate, e al valore di questo libro in particolare.

Il discorso potrebbe essere lungo, ma cerchiamo di abbreviarlo per non complicare le cose.

Sembrerebbe che tutti gli anarchici dovrebbero essere d’accordo su alcuni aspetti; non avere esattamente la stessa opinione, ma almeno essere senza grosse contraddizioni. Il primo problema è quello di attaccare il nemico di classe (cioè lo sfruttatore), sia nell’aspetto macroscopico dello Stato, sia in quello microscopico dell’individuo responsabile dello sfruttamento. Ma quando un compagno si organizza per passare dalle parole ai fatti, quelli che avanzano dubbi, perplessità, sospetti, incertezze non mancano mai. Ci sono sempre dei compagni anarchici che hanno fatto diventare il loro anarchismo una specie di parabrezza per nascondere le proprie debolezze e i propri compromessi. Evidentemente non possono approvare qualcuno che contribuisce a smascherarli, e attraverso le sue azioni, attaccando il nemico smuove le acque stagne del loro sonno, spesso attirando l’attenzione delle forze repressive.

Critiche del tipo: non è il momento, queste cose si fanno quando la rivoluzione è alle porte, dobbiamo essere sicuri che le masse sono con noi, vengono indirizzate costantemente al compagno che intende agire ora, subito.

Per quanto riguarda le azioni di Sabate, egli, in pratica, fu lasciato solo con alcuni compagni che, di volta in volta, si unirono con lui individualmente per continuare la lotta. Ma queste azioni dovevano aver luogo dentro la Spagna. Quando si cercava di fare qualcosa fuori, sempre per colpire il regime fascista, era subito un mare di disaccordi. E anche più tardi, quando ci fu il ricorso alla solidarietà internazionale (per esempio il sequestro di Monsignor Ussia), non pochi furono i dissenzienti. L’azione doveva essere vista alla luce del suo obiettivo eccezionale, di salvare la vita dei compagni condannati a morte, niente di più.

Il lettore si renderà conto che poco è cambiato dall’epoca in cui Sabate portava avanti la sua lotta in completo isolamento. Anche in tempi molto recenti, quando alcuni anarchici si sono organizzati per attaccare, il cosiddetto movimento ufficiale ha preferito rimanere in silenzio, quando non è uscito in dichiarazioni di dubbio o condanna vera e propria.

È questo l’ineluttabile destino di tutte le organizzazioni? Non credo. Un’organizzazione che si definisce custode delle tradizioni ideologiche del movimento anarchico deve necessariamente diventare conservatrice e guardare a tutte le iniziative d’attacco — specialmente quando queste avvengono al di fuori del suo controllo — con preoccupazione e sospetto. Al contrario, un’organizzazione nata come struttura di attacco, capace di modificarsi secondo i bisogni del momento, che evita la burocratizzazione, e non ha alcuna intenzione di custodire una qualsiasi “memoria”, può diventare la base indispensabile per l’azione rivoluzionaria. E, in fondo, è verso questo genere di organizzazione che andarono gli sforzi di Sabate, come di qualunque altro rivoluzionario anarchico che intende attaccare il nemico di classe. È precisamente su questa linea di separazione che i due modelli di intervento si sviluppano.

Da un lato, il modello controinformativo come fine a se stesso, una struttura che si ripete eternamente, che sopravvive nella propria immagine, di volta in volta fornendo le opinioni più avanzate su quello che le forze del potere decidono di mettere in circolazione.

Dall’altro lato, una struttura minima, che si organizza per agire, che si mantiene ben documentata sulla realtà, ma solo per realizzare progetti di intervento e azioni rivoluzionarie, non per distribuirle come merce di consumo. In questa prospettiva tutto prende un’altra luce. In primo luogo la disponibilità di mezzi. Chi si limita alla controinformazione, si basa sulla buona volontà dei compagni e sulle loro sottoscrizioni. Chi ha un progetto preciso di attacco deve andare oltre, espropriando ai capitalisti i soldi necessari . Ma allora, in questo caso, l’impegno è diverso, completo e totale.

Certo, ci sono dei rischi. Non tanto per la vita, che per un rivoluzionario è sempre messa in gioco in tutte le sue decisioni, quanto per la conseguente separazione, per l’isolamento.

L’imbecillità degli altri, la loro cattiva fede nel non volere comprendere, la loro mancanza di entusiasmo: tutte queste cose feriscono mortalmente, spesso più dei proiettili del nemico. Altrettanto dannosa è la simpatia interessata, e la curiosità morbosa.

E Sabate fu ferito da tutte queste dolorose spine nel fianco, prima di essere ucciso dalla Guardia Civil.

Ma non si fermò mai, non si ritirò, non si lasciò sopraffare dal dubbio. E che non si dica (come è stato detto) che le cose erano più facili per lui perché tutti erano d’accordo a combattere il fascismo. Questo va bene per gli ipocriti che si travestono da rivoluzionari, certamente non per gli anarchici. Il fascismo è sempre davanti a noi, anche quando porta il vestito multicolore dello Stato relativamente permissivo della signora Thatcher. [1985].

Ognuno capisce ciò abbastanza facilmente. Meno facilmente decide di agire. Ecco perché un libro di questo tipo è sempre utile: perché leggerlo ci spinge all’azione, sveglia gli entusiasmi. Perché dimostra in mille modi come colpire il nemico, perché non dà spazio alla rassegnazione e al dubbio.

È necessario capire che non possiamo aspettare che gli altri — neanche gli altri compagni —ci diano il segnale di agire, l’indicazione finale. Questa deve venire da noi. Ciascuno di noi, preso individualmente, deve trovare i suoi compagni e costituire piccoli gruppi di affinità che sono l’elemento essenziale per dare vita all’organizzazione di attacco di cui abbiamo bisogno. Le azioni verranno facilmente, come conseguenza naturale della decisione di agire, insieme, contro il nemico comune. Grandi parole, dichiarazioni per andare nella storia, le grandi organizzazioni del passato glorioso, i vasti programmi per il futuro, sono tutti inutili se la volontà del singolo compagno viene a mancare. E in questa prospettiva Sabate non è rimasto solo, la sua lotta continua oggi.

Alfredo M. Bonanno

[Introduzione a: Antonio Tellez. Guerrilla Extraordinary: Sabaté, London 1985, pp. 9-12. In italiano su: Alfredo M. Bonanno, A mano armata, Anarchismo, Catania 1998]

 

 

[Introduzione alla prevista edizione inglese per Elephant Editions della biografia scritta da Antonio Tellez, che per il momento risulta sospesa. In italiano su: Alfredo M. Bonanno, A mano armata, Anarchismo, Catania 1998]

José Lluis Facerias

Facerias fu uno di quegli uomini per i quali viene quasi spontaneo scrivere un libro. Nelle sue azioni, nella sua vita e nella sua morte ci sono tutti gli elementi essenziali dell’anarchico da leggenda, del vendicatore che insorge nella lotta contro il nemico di classe e non accetta compromessi. E, certamente, questo costituisce uno dei modi di lettura del volume che presentiamo, il primo modo, il più semplice e, se vogliamo, il meno utile.

Molti anarchici hanno lottato e lottano anche oggi con i medesimi sentimenti di irriducibile contrapposizione che caratterizzarono la vita di Facerias, o di Sabate o dei mille altri guerriglieri che caddero continuando lo scontro armato contro il franchismo anche dopo la caduta della Repubblica, e per molti di loro altri libri si potrebbero scrivere, non tanto dedicati ad un metodo o ad una certa posizione rivoluzionaria, quanto alla volontà del singolo che insorge quando tutti gli altri tacciono aspettando timorosi che segnali favorevoli si disegnino nel cielo.

Eppure questo primo empito del discorso non mi sembra adeguato. O meglio, per dire la verità, non mi sembra più adeguato. Ci fu un tempo in cui, vent’anni fa, mi soddisfece l’analisi diciamo così primaria, essenziale, quella diretta a sottolineare il grande coraggio dell’azione, proponendolo come esempio da seguire. Oggi sono sicuro che questa condizione propedeutica non è più sufficiente. Si correrebbe il rischio di cadere nell’agiografia.

Oggi dobbiamo dire qualcosa di più. Non tanto in merito alle responsabilità di coloro che indirettamente favorirono la repressione, e quindi ostacolarono il lavoro rivoluzionario di Facerias e di tutti gli altri, in nome di prospettive politiche che intendevano difendere scelte di partito o di conventicola resistenziale; quanto riguardo la concezione stessa dell’antifascismo, come elemento ritardante dello sviluppo della lotta rivoluzionaria, e comunque equivoco o difficilmente utilizzabile in modo chiaro in una prospettiva anarchica di distruzione del potere.

La guerra di Spagna e l’eredità che le sue tragedie consegnarono nelle mani della sinistra politica europea e mondiale, non aveva certo creato l’ambiente ideale per chiarire problemi come questo. L’antifascismo sembrava, e continuò a sembrare per decenni avvenire, il terreno comune sul quale si poteva impiantare una collaborazione rivoluzionaria. Le organizzazioni anarchiche che all’estero appoggiavano l’attività di Facerias, o di Sabate, perché i problemi furono uguali per questi due compagni come per molti altri, avevano anche, e direi essenzialmente, una prospettiva antifascista, una prospettiva cioè di dare vita ad un contropotere in grado di programmare il ritorno in Spagna della Repubblica. Pertanto potevano sostenere fino ad un certo punto l’attività di compagni che invece si recavano all’interno della Spagna per fomentarvi la rivolta, ma non potevano sostenere del tutto l’attività di questi compagni quando essa si realizzava in situazioni come quella francese e italiana, dove per definizione il fascismo non era al potere.

Da questa strana concezione della lotta rivoluzionaria, almeno per come l’intendevano le organizzazioni istituzionali dell’anarchismo spagnolo all’estero, e per come la condividevano non poche organizzazioni non spagnole, ma allineate su posizioni politiche simili o vicine all’anarcosindacalismo, derivavano due ordini di problemi, ambedue forieri di malcomprensioni ed equivoci. In primo luogo, la necessità di una generica collaborazione in nome dell’antifascismo, e ciò a prescindere da una vera e propria analisi delle posizioni di chi proponeva un intervento di lotta. In effetti, poniamo, sia delle posizioni di Facerias, come di quelle di Sabate, non furono mai fatti seri approfondimenti, non furono mai avviati dibattiti o discussioni. E lo stesso Facerias non andava al di là di un generico desiderio di vedere organizzati in modo federativo tutti i gruppi che non condividevano la posizione della FAI spagnola o della CNT. Secondo, per lo stesso motivo, quel generico, e non chiaro, accordo giustificava l’isolamento e il boicottaggio quando quelle iniziative minacciavano di allargare il proprio campo d’azione e non intendevano più colpire “soltanto” il fascismo spagnolo, etichettato dal franchismo, ma qualsiasi struttura statale, in quanto qualsiasi Stato è nemico per gli sfruttati, fascista o meno che sia il suo statuto costituzionale.

E se la lotta doveva continuarsi, questa non poteva che contare sull’autonoma decisione di quei pochi compagni che volevano continuarla. Decisione che si vedeva costretta ad affrontare e risolvere tutti i problemi, senza sostegno esterno, quando non si trovava di fronte ad una vera e propria rete di calunnie o di ostacoli più o meno dichiarati.

In questi casi ci sono due altri ordini di problemi da affrontare. Chi si trova a combattere quasi da solo deve affrontare il problema dell’autofinanziamento. E questo non può affrontarsi che andando a prendere i soldi dove si trovano, in genere nelle banche o nelle gioiellerie. Per risolvere questo aspetto, diciamo strumentale, ci si deve dare una attrezzatura tecnica che è la medesima impiegata di solito nella lotta contro gli obiettivi con qualificazione politica più dichiarata, più facile a identificarsi. Non sono stati rari i casi in cui questi due problemi si sono intersecati a vicenda prendendo l’aspetto di un serpente che inutilmente cerca di mangiarsi la coda. Se gli autofinanziamenti servivano per darsi i mezzi per la lotta, questa era lo scopo reale delle operazioni di finanziamento. Ma, a volte, quest’ultime diventavano faccenda tanto complicata da correre il rischio di essere esse stesse scopo della lotta e non più mezzo. Se a ciò si aggiunge il fatto che, isolati da un vero e proprio movimento di massa, in queste condizioni si è costretti a provvedere a tutto, fin dal più piccolo spostamento, alla casa, alle armi, si ha un’idea di quali giganteschi sforzi questi uomini affrontassero ogni giorno, e senza la minima speranza non solo di aiuto ma anche di comprensione da parte di tanti sapienti indottrinati, dediti soltanto a spulciare dubbi nella comodità delle proprie poltrone.

Che Facerias facesse le rapine in Spagna, a danno delle banche spagnole, è una cosa, ma che avesse il coraggio di ripeterle in Italia a danno, poniamo, del Banco di Santo Spirito, questa è un’altra cosa. Certo, ci si poteva poi mettere una pezza sopra, pensando che comunque il suo scopo ultimo restava sempre l’antifascismo, ma non credo che fossero poi in molti a guardare in modo favorevole questa attività in Italia, a parte quei pochi compagni che non hanno mai avuto gli occhi chiusi sul problema reale dello scontro rivoluzionario.

Viceversa, non risulta che fossero in tanti a sostenere la sostanziale uguaglianza tra banche spagnole e banche italiane, e che da questo concludessero che la lotta contro il fascismo spagnolo doveva cominciare, e continuare, con la lotta contro tutti gli Stati, e tutti i capitali nazionali, in nome della libertà e non in nome della sostituzione di un regime fascista con uno democratico.

L’equivoco antifascista spiega, con grande evidenza oggi a tanti anni di distanza, come fosse possibile allora trovare compagni di strada disponibili ad impegnarsi anche nello scontro armato, ma tutt’altro che disposti a condividere un allargamento della lotta in senso realmente anarchico, cioè al di là dell’immediato obiettivo costituito dal fascismo spagnolo prima, da quello greco dopo e così via. Molti di questi cosiddetti compagni di strada, in epoche molto più vicine a noi, dichiararono subito la loro indisponibilità a sostenere ipotesi di lotta che non si limitavano ad indirizzarsi contro questa o quell’espressione del fascismo ma cercavano di analizzare e quindi di colpire l’espressione stessa del potere come andava modificandosi e realizzandosi storicamente nel corso degli anni. In quest’ultimo caso, cessato l’alibi antifascista, il quale alibi suonava sempre come una sorta di autorizzazione morale, molti si fecero prendere dai dubbi e finirono spesso per chiedersi se fosse veramente il momento di attaccare, se non ci fossero altre strade per impostare una lotta politica contro il potere, una lotta se non proprio riformista almeno capace di tenere conto delle gradazioni repressive che una democrazia bene o male è sempre in grado di proporre ai suoi contrappositori.

E tanti di questi dubbiosi si fecero e continuano a farsi sbandieratori della lotta di Facerias, di Sabate e di tanti altri, proprio perché quella lotta, loro, la vogliono racchiudere in un bel libro, consegnandola al lunghissimo elenco di coloro che seppero sacrificarsi nella guerra contro il fascismo, una guerra perduta ma che si poteva anche vincere.

La nostra lettura del libro dedicato a Facerias [A. Tellez, Guerriglia urbana in Spagna. Facerias], come quella del precedente libro che lo stesso Tellez ebbe a dedicare a Sabate, è invece diversa. Questi compagni sono stati anarchici e rivoluzionari, non antifascisti generici. Per loro la lotta contro il franchismo era soltanto un punto di partenza, e l’eventuale sconfitta del fascismo sarebbe stata tutt’altro che un punto di arrivo. Loro non avrebbero mai risposto che con la democrazia al potere non c’era più motivo di continuare la lotta, avrebbero semplicemente individuato i nuovi nemici e continuato a colpire.

E quale meraviglia? Quale altro ruolo potrebbe mai essere quello dell’anarchico?

Alfredo M. Bonanno

 

 

Severino Di Giovanni

La figura di Di Giovanni ha sempre messo in luce una profonda divisione all’interno del movimento anarchico, divisione che va molto oltre i limiti degli avvenimenti specifici durante la sua vita. Da prima della attività di Di Giovanni, fino a oggi, ci sono sempre stati compagni che includono i metodi di azione diretta, lotta armata e esproprio nella lotta contro lo sfruttamento. D’altro canto, ci sono sempre stati quelli contrari a questi metodi, e a favore soltanto della propaganda e dell’educazionismo libertario. Quest’ultima è la posizione tenuta dagli anarchici argentini riuniti, all’epoca di Di Giovanni, attorno al quotidiano anarchico “La protesta”. Anche oggi ci sono molti che mantengono questa posizione e che sicuramente avrebbero preferito lasciare Di Giovanni, e ciò che rappresenta, in una relativa oscurità.

Per com’è questo libro [O. Bayer, Anarchism and Violence. Severino Di Giovanni in Argentina. 1923-1931, London 1986] contiene certi difetti che devono essere indicati e che esamineremo più avanti. Il lavoro di Bayer è un tentativo onesto e oggettivo, lontano dagli stereotipi così cari alla stampa borghese. Racconti contemporanei alle sue attività riempirono colonne e colonne, dipingendo Di Giovanni come bombarolo, bandito e assassino.

Non solo la stampa dei padroni, come si dice, ma anche quella parte della stampa dalla quale ci si aspetterebbe di meglio, hanno insistito nel vedere Di Giovanni immerso in una realtà brutale e omicida, nella quale viveva e portava avanti la sua lotta, distaccato dal movimento anarchico di cui invece faceva parte.

Per esempio, l’autore della Prefazione all’edizione spagnola di questo libro, José Luis Moreno, dice: «Di Giovanni voleva dalla violenza ciò che la borghesia voleva dalla legge: uno strumento per ottenere uno scopo finale, che naturalmente in ambedue i casi erano diversi e antagonisti. Di Giovanni credeva di potere combattere la borghesia con le sue stesse proprie armi». E più avanti: « […] Egli utilizzava il suo arsenale di guerra come uno strumento di base, relegando i problemi ideologici al secondo posto. Per lui, come per molti anarchici, è questo che significava azione diretta». E ancora: «In realtà fu un romantico. Paradossalmente come potrebbe sembrare, e citando Bayer, diremo che fu un romantico della violenza, l’amore e la violenza sono veri scopi, e per lui non ce ne furono altri».

Potrebbe essere difficile al primo sguardo fare una distinzione tra la violenza proletaria della difesa e l’opprimente terroristica violenza dello Stato. Ma questa distinzione può e deve essere fatta. Attaccando le istituzioni, armi in mano, Di Giovanni non stava usando le stesse armi della borghesia, ma quelle, completamente diverse della liberazione e della rivendicazione popolare, e dove mai l’autore della Prefazione all’edizione spagnola ha letto che Di Giovanni ha messo i problemi ideologici in secondo piano? Forse avrebbe fatto meglio lui, al posto di Di Giovanni braccato, inseguito dalla polizia come un animale selvaggio, ma nonostante ciò lo stesso curando in tipografia numerose pubblicazioni anarchiche, compreso un giornale quindicinale: “Culmine”, e una edizione degli Scritti sociali di Reclus? E, in fine, perché definirlo un romantico? Quando sappiamo benissimo che oggi la storiografia lega questo termine agli aspetti decadenti della poetica romantica, quelli che sono lontani dalla realtà? Utilizzare questo termine oggi può solo confondere il lettore. Esisteva per Di Giovanni molto di più dell’amore e della violenza: la lotta contro il fascismo, la lotta sindacale, la lotta per una società nuova, la lotta per l’anarchia. Tutte queste lotte furono intraprese nella piena coscienza del bisogno di utilizzare mezzi pericolosi, mezzi giustificati solo dalla guerra aperta, dichiarata da quelli al potere.

Per tornare al libro. Come abbiamo detto è una ricostruzione oggettiva lontana dal sensazionalismo dell’epoca di Di Giovanni. Lo sviluppo dell’attività di Di Giovanni. è stato seguito attentamente attraverso la consultazione di giornali contemporanei, documenti e testimonianze. Dagli avvenimenti al Teatro Colon, al momento finale, davanti al plotone di esecuzione, incontriamo Di Giovanni attraverso un miscuglio di distanza e simpatia. Non avendo accesso alle fonti utilizzate, possiamo solo accettare le conclusioni raggiunte dallo storico e considerare il suo lavoro come positivo. Sono altri aspetti del libro che ci danno preoccupazione, particolarmente il frequente ricorso a giudizi di valore tutti legati ad una visione, “romantica e idealistica” dell’attività rivoluzionaria di Di Giovanni.

Non è nostra intenzione privare il lettore del piacere di leggere il racconto ricco che Bayer fornisce, allora non cercheremo di riassumere qui l’attività di Di Giovanni. Sentiamo comunque che è necessario indicare la mancanza di fondamento alle conclusioni teoriche di Bayer.

Per esempio scrive: «Da buon autodidatta, Di Giovanni crede, nella sua tragica ingenuità, che la teoria è fatta per essere applicata. Bakunin e Kropotkin avevano detto che tutti i mezzi sono leciti per giungere alla rivoluzione e per conquistare la libertà».

È in tali passaggi che ci si rende conto che Bayer. per quanto un ricercatore coscienzioso, o non ha letto, o ha capito poco del pensiero anarchico. Dove mai ha trovato l’affermazione che Bakunin e Kropotkin dicono che tutti i mezzi sono giustificabili? Dove mai ha letto che utilizzare la teoria anarchica acriticamente è tipico degli autodidatti? Dove ha saputo che la teoria anarchica è teoria fatta solo per restare sulla carta. Di Giovanni era uomo coerente, non è vero che qualunque mezzo fosse buono per lui. Sceglieva sempre i mezzi in rapporto alla violenza terroristica delle strutture del potere, ed è rimasto su questa strada fino alla fine. Chiedersi, come fa il nostro autore, la psicologia del suo rapporto con la teoria anarchica non ha senso. Faccia a faccia col nemico, il famoso volume di Galleani, è anche il titolo di una sezione del giornale di Di Giovanni “Culmine”, e dimostra la vera sostanza del rapporto tra teoria e pratica. Di Giovanni sapeva che l’attacco contro l’oppressione doveva usare certi mezzi, ma sapeva anche che gli altri mezzi, la propaganda, le pubblicazioni anarchiche erano di grande valore perché servivano a preparare il campo per l’intervento attivo rivoluzionario. Ma, affinché questo scambio tra teoria e pratica potesse verificarsi, occorreva che in futuro la prima fosse sviluppata in una certa direzione, e non diventasse ostacolo nella strada dell’azione diretta come nel caso degli editori de “La protesta”.

Un’altra interessante interpretazione fatta da Bayer di Di Giovanni è quella che lo identifica con l’individualismo nicciano. Questo è un problema interessante. Bayer individua a più riprese la presenza del filosofo tedesco nel pensiero di Di Giovanni. E, in effetti, questa influenza non può essere negata. Bayer ci dice: «È percepibile in Di Giovanni l’immensa l’influenza di Nietzsche (nel perquisire la sua biblioteca a Burzaco vennero trovati dei cartelli esposti alle pareti, con frasi dell’autore di Zarathustra». E in una lettera dell’22 ottobre 1928, egli stesso scrive: «Oh, quanti problemi si affacciano sulla scarpata della mia giovane esistenza, travolto da mille turbini del male! Eppure l’angelo della mia mente mi ha detto tante volte che solo nel male vi è la vita. Ed io vivo tutta la mia vita. Il regno della mia esistenza si è perduto in essa: nel male? Il male mi fa amare il più puro degli angeli. Faccio io male? Ma se essa mi guida? Nel male vi è l’affermazione più alta della vita. E stando in essa, sono equivocato? Oh, problema dell’ignoto, perché non ti risolvi? […]». Per questo Bayer. conclude: «Tenerezza che, presto, quando gli toccherà di agire, si convertirà in crudeltà. Era evidentemente un uomo spontaneo, completo nei suoi sentimenti, che agiva come ubriacato di tutta la gamma di colori, di lotte, di contraddizioni, di bellezze, di generosità, di tradimenti che la vita ci presenta. Vale a dire un autentico nicciano».

Leggere Nietzsche costituisce un impatto per molti, e probabilmente anche per Di Giovanni. Ma da questo, arrivare a definire l’uomo e le sue azioni come nicciani, sembra un passo troppo grande. Anche la presenza di alcune frasi dell’opera di Nietzsche nella biblioteca del nostro compagno, sembra essere un elemento troppo modesto per giustificare l’affermazione che lui era un dichiarato seguace delle dottrine del filosofo, L’approfondimento delle radici filosofiche è un problema molto serio e può avere un effetto su tutte le azioni dell’anarchismo che insiste sull’azione diretta, e che pur non negando l’importanza e i valori della propaganda, dell’educazione libertaria, accentua l’importanza dell’attacco contro l’oppressione.

Non è vero che Di Giovanni «agisse come ubriacato da tutta una gamma di colori, di lotte e di contraddizioni […]». La pienezza della sua concezione di vita non aveva niente della violenza improvvisata che si confonde con la forza vitale nella dimensione filosofica di Nietzsche. Non dobbiamo dimenticare la visione del filosofo tedesco riguardo l’essenza del mondo e della storia, né la sua ammirazione per l’ideale del “superuomo”, qui l’elemento deterministico dell’eterno ritorno interagisce con l’elemento volontaristico e mistico della volontà di potenza. Queste tendenze opposte fanno dire delle cose interessanti al filosofo riguardo il nazionalismo, la religione e la guerra; ma anche delle affermazioni assurde e pericolose che nella bocca dei seguaci del nazionalsocialismo hanno a torto fatto di lui un filosofo di “destra”. La lettura di Nietzsche come quella di Stirner è un lavoro abbastanza difficile, ed è quasi sempre stato fatto male. Ma esiste una divisione netta tra la lettura che Di Giovanni fa dei libri di Nietzsche e la sua attività anarchica, rivoluzionaria. L’aspetto volontaristico della sua attività non aveva mai lo scopo di creare un mito, o di seguire il modello del “superuomo”. Aveva sempre in mente una precisa situazione di lotta, che emergeva dallo sfruttamento di classe e dall’oppressione fascista. Questa situazione venne da lui continuamente verificata, a livello teorico, nel suo giornale “Culmine”.

Non si dovrebbe essere stornati dalla prosa fiorita e traboccante, una volta abbastanza comune fra gli scrittori libertari, Galleani ne è un esempio. Quando dice che “solo nel male c’è vita”, il riferimento letterario si rapporta direttamente a una contraddizione che è abbastanza evidente in un uomo che ha scelto la strada dell’ “outsider”. Se la dimensione borghese della vita è ciò che ognuno definisce “buono”, allora solo nel “male” esiste vera vita, solo rompendo il cerchio dell’ipocrisia e il falso amore del bene è possibile trovare un differente e più essenziale bene, l’unico capace di fondare la società di domani attraverso il dolore e la sofferenza di oggi. Anche nel suo rapporto con la giovanissima compagna Josefina, egli è cosciente che dal punto di vista borghese la sua azione potrebbe essere condannata e considerata “male”: ma è precisamente questo male che gli fa sentire di avere ragione e di affermare la vita. Non rimane allora null’altro da fare che accantonare le parole, guardare la realtà in faccia, e agire.

Allora arriviamo al terzo problema, che emerge da una lettura di questo libro, quello del terrorismo. Ancora una volta Bayer dà sfogo a giudizi di valore e si perde in affermazioni assurde e infondate: «Di Giovanni fu un eroe sfortunato, un giovane uomo che prese sul serio ciò che i libri della sua ideologia dicevano. Ideologia questa che, secondo come la si interpreta, può passare dalla bontà e dal rispetto per la condizione umana in tutti i suoi aspetti, alla più disperata e violenta azione soggiogatrice, giustificata con l’ideale di voler instaurare la libertà assoluta per tutti». È dunque indispensabile che il lettore tenga in mente la totale mancanza di comprensione da parte di Bayer riguardo che cos’è l’anarchismo. E, più di tutto, su che cosa significarono e significano le azioni di Di Giovanni.

Ma il nostro problema è ancora leggermente diverso. Assieme ai suoi compagni, Di Giovanni ha eseguito delle azioni che normalmente vengono definite “terroristiche”, egli stesso ha scritto: «In eterna lotta contro lo Stato ed i suoi puntelli, l’anarchico che sente su se stesso tutto il peso della sua funzione e dei suoi scopi emananti dall’ideale che professa e della concezione che ha dell’azione, non può molte volte prevedere che quella valanga che fra poco andrà a far rotolare per la china dovrà necessariamente urtare il gomito del vicino in astrattiva contemplazione delle stelle o calpestare un callo di un altro che s’impunta in non smuoversi avvenga quello che avvenga intorno a lui».

In primo luogo deve essere detto chiaramente che cos’è terrorismo. La propaganda di Stato fatta dai soliti inservienti pagati della stampa borghese ha sempre chiamato terrorismo le azioni di individui o gruppi contro i responsabili dello sfruttamento, contro la proprietà, le istituzioni dello Stato e l’ordine costituito. L’altro terrorismo, il vero terrorismo, eseguito dallo Stato direttamente utilizzando l’esercito in tempo di guerra, o i padroni sul posto di lavoro, non è mai stato considerato terrorismo. E migliaia di operai uccisi, feriti ogni anno, solo in questo paese. I dolci avvelenati, i gas allucinogeni, i defoglianti e ogni genere di arma batteriologia nel Vietnam, ormai patrimonio di tutti gli Stati in guerra. Al tempo di Di Giovanni lo sport preferito della borghesia argentina era la “caccia” nella Terra del Fuego durante la quale i nativi delle foreste venivano colpiti a morte. Le stesse persone che ammazzavano questi “selvaggi” a sangue freddo per il piacere della caccia, furono fra i più decisi nel condannare le azioni di Di Giovanni. Evidentemente quando il terrore viene praticato contro gli altri non disturba il palato della borghesia. Ma quando la minaccia appare vicino casa, allora essa cambia opinione.

È giusto, dunque, che possiamo parlare di terrore solo quando parliamo di violenza repressiva, mai quando parliamo della violenza degli sfruttati. L’uso di tale termine riguardo azioni concernenti il loro diritto di difesa, diventa causa di malcomprensione, e di lunghe e inutili discussioni.

E le azioni di Di Giovanni non erano mai violente per il piacere di esserlo, non erano mai applicate indiscriminatamente per creare una tensione che avrebbe solo favorito il potere e la sua politica di consolidamento. Le azioni di Di Giovanni erano sempre guidate da uno preciso ragionamento rivoluzionario: colpire i centri del potere con azioni punitive che trovano la propria giustificazione nella violenza di Stato e che hanno lo scopo di spingere la massa verso un obiettivo rivoluzionario. Di Giovanni ha sempre tenuto conto della situazione di massa, anche se spesso è stato accusato del contrario. È anche stato accusato di avere contribuito alla repressione, scatenandola contro il movimento anarchico. Tale accusa non ha senso. La repressione poliziesca uccide un movimento rivoluzionario solo quando questo è già morto nella sua componente essenziale di attacco contro il potere. In altre parole, se un movimento rivoluzionario, in una situazione democratica, si illude che esiste solo perché vegeta all’ombra della tolleranza governativa, è logico che un’ondata di repressione finirà sempre per distruggerlo. Ma, nei fatti, questa repressione uccide solo un cadavere senza vita, qualcosa che si illudeva di essere vivo perché come una pianta buttava solo pochi semi o generava un numero di gruppi che diffondevano nient’altro che opinioni. È necessario interpretare l’attività di Di Giovanni e il suo rapporto con il movimento anarchico argentino in questo contesto.

In ultimo, è necessario dire qualcosa riguardo i possibili “incidenti” che ogni rivoluzionario deve cercare, per quanto possibile, di evitare nel corso dell’attacco contro il potere. Questi incidenti sono sempre deplorevoli, perché vengono subito visti in una luce negativa dalla massa degli sfruttati e perché mettono in pericolo la vita di persone che prese individualmente non sono responsabili per un particolare atto di repressione. Ma una volta che l’atto violento, deciso da un militante o gruppo di militanti, viene eseguito con opportuna analisi e garanzia; quando la sua opportunità politica è stata considerata ed esso viene eseguito in modo da renderlo quanto più chiaro possibile alla massa; e il militante o gruppo sono veramente parte della minoranza armata degli sfruttati: allora se l’azione causa un “incidente” e qualcuno muore durante il suo corso, non possiamo condannare l’azione, né i compagni che l’hanno eseguita.

In ogni caso, anche quando non siamo d’accordo con una particolare azione, e una critica ci sembra giustificata, dobbiamo sempre tenere in mente che la nostra critica non può andare oltre quell’azione specifica. Trarre principi generali da essa — per quanto logici questi possano sembrare — è sempre gratuito e pericoloso dal punto di vista rivoluzionario.

Molti importanti problemi riguardanti Di Giovanni non avrebbero avuto senso se i compagni che li hanno sollevati, nel passato come oggi, non avessero iniziato con delle malcomprensioni riguardo la funzione e gli scopi dell’azione rivoluzionaria.

Alfredo M. Bonanno

[Introduzione a: Osvaldo Bayer, Anarchism and Violence. Severino Di Giovanni in Argentina. 1923-1931, Elephant Editions, London 1986, pp. 7-17. In italiano su: Alfredo M. Bonanno, A mano armata, Anarchismo, Catania 1998]