La virtù del supplizio (it/en)

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Aldo Perego
L’estensione dei diritti sanciti dalla moderna democrazia equivale ad una criminalizzazione generalizzata.
Si pretende così bandire la violenza diretta da tutti i rapporti sociali rafforzando il monopolio della violenza statale, considerata come legittima.
La giustizia non diminuisce la violenza, la normalizza soltanto; e quand’anche ne trasgrediamo le regole, quasi sempre ci convince a rientrare nel gioco: perché finiamo col comportarci come bravi ragazzi.

Territorio fisico distinto e separato dal resto della vita sociale, il carcere e ciò che rappresenta e determina sembrano occupare uno spazio riservato anche nei nostri pensieri, nelle nostre riflessioni.
La Giustizia è un concentrato dei modi con cui la società ha scelto di regolare i propri conflitti (con la forza e con l’immagine); il carcere riassume in sé ciò che direttamente ci schiaccia e ci opprime. Per noi si tratta di comprendere come e dove si possa agire per mettere fine a tutte le brutture della sopravvivenza, ponendoci anche il problema della distruzione del carcere e della giustizia. E per farla finita con la Giustizia, è anche essenziale smettere di parlare e di pensare col linguaggio del Diritto, quello che serve in genere per denunciare gli “abusi” di potere. Con ciò non vogliamo certo contestare al detenuto tormentato dal secondino la possibilità di reclamare di essere trattato correttamente. Ma, chiudendosi nel torto parziale (gli “abusi” del secondino) senza considerare la mostruosità rappresentata dall’esistenza stessa del carcere, il prigioniero si troverebbe trascinato in una contabilità perversa: cosa significa chiedere il diritto d’essere “trattato correttamente”? Qualsiasi individuo, non aspirerebbe piuttosto a non essere trattato “affatto”?
I rovesci del diritto
Col medesimo vocabolo viene definito il diritto di un individuo ad ottenere o a fare tale o tal’altra cosa, e il Diritto come insieme di testi e pratiche giudiziarie. Il secondo sembra includere e garantire il primo. Così il procedimento democratico consiste sempre nel riempire il Diritto con i diritti dell’uomo, mentre ogni diritto di cui potremmo beneficiare è di per sé uno spossessamento, una ricerca di noi stessi in qualcos’altro da noi. Ma i diritti, cosa definiscono? Una libertà concepita solo in termini negativi: «La mia libertà si ferma dove comincia quella di un altro». Visione limitativa dell’individuo come di un territorio limitato dagli altri, visione da piccolo proprietario parente del famoso «il mio corpo mi appartiene». Non è un caso che a questa concezione spaziale manchi la dimensione temporale, una fondamentale ricchezza dell’uomo.
Ogni diritto è per natura un principio ed un mezzo pratico di esclusione e di privazione. Chi dice diritto dice scambio, poiché il Diritto è là per organizzare una ripartizione misurata di diritti e di doveri, e prevede, di fronte a un danno, l’ammontare di un risarcimento. Un diritto appartiene sempre a un proprietario sfortunato, perché ha bisogno di un titolo di proprietà su ciò che ha paura di perdere o che possono sottrargli. Il Diritto è sempre giunto a governare una comunità che non riesce a vivere in comunità, in modo che non esploda totalmente.
Il Diritto è anche una ideologia: una costruzione mentale e razionale, che serve a giustificare la vera funzione sociale della giustizia.
Oggi il Diritto rappresenta uno strumento codificato, preciso e quantificatore, che determina e indica ciò che ciascuno, compreso ogni funzionario dello Stato, deve fare. La polizia è nel contempo tenuta a far rispettare regole molto severe e obbligata per funzionare a trasgredirle continuamente. Il controllo giudiziario del suo operato è una finzione: tutti sanno che lo sbirro utilizza strumenti per agire e per esercitare pressioni sui quali i magistrati sovente sorvolano. Che lo si applichi all’inquirente o al cittadino comune, il Diritto non serve ad impedire gli eccessi, ma a mantenerli entro limiti ragionevoli per non mettere a repentaglio l’ordine sociale e le istituzioni. Così come la Pena serve a circoscrivere la vendetta esatta dalla parte lesa mantenendola entro i limiti stabiliti e applicati da un terzo organismo «al di sopra delle parti». Perché qualsiasi società predispone norme che permettono ai dominanti di regolare le loro liti, di legittimare la loro dominazione e di ottenere il consenso degli sfruttati.
La Bibbia non definisce l’essere umano: elenca, giustificando tale operazione con l’inconoscibile e imperscrutabile volontà divina, ciò che bisogna e non bisogna fare. L’epoca moderna fornisce in più una definizione dell’uomo e si basa su questa per organizzare le regole sociali. Lo stesso avviene per la giustizia, con la pretesa di stabilire ciò che è buono e ciò che è cattivo. Da qui la classificazione in “colpevoli” ed “innocenti”. Innocenza e colpevolezza sono attributi costitutivi del meccanismo giudiziario in quanto comportano un giudizio (che l’interessato è vivamente invitato ad interiorizzare). Ora, per l’esattezza, capire e vivere gli atti più crudi (stupro, omicidio, tortura…) non significa giudicarli. Chi dice giudizio dice apprezzamento in nome di qualcosa che va al di là delle relazioni sociali che quegli stessi atti hanno determinato.
Proprio come fa la Morale nei rapporti interpersonali, la Giustizia applica a un conflitto o ad una violenza una norma prestabilita, esterna all’avvenimento, per solennizzare il traumatismo, definendolo per espellerlo. In questa logica, occorre che ci sia un colpevole, e non solo un responsabile, dato che la colpevolezza penetra il colpevole, diviene il suo essere profondo. Il movimento è compiuto quando la giustizia pretende di giudicare non l’azione, ma tutto l’essere alla luce dell’azione, col rinforzo di un’analisi delle motivazioni, di perizie psichiatriche e di test sulla personalità.
Giustizia e democrazia
In misura che i diritti si ampliano, si estende anche la sfera di controllo dello Stato, in quanto bisogna farli rispettare e sanzionarne la trasgressione. La tendenza della società democratica è di penalizzare tutto, di prevedere un testo e una punizione per ogni forma di violenza, dallo schiaffo del genitore al figlio fino allo stupro. L’estensione dei diritti è sinonimo di criminalizzazione generalizzata. Si ha la pretesa di bandire la violenza diretta da tutti i rapporti sociali. Ma ciò avviene per rafforzare il monopolio della violenza “legittima” dello Stato, la quale è infinitamente peggiore di tutte le altre.
La giustizia non diminuisce la violenza, la normalizza. Come la democrazia, costituisce un filtro alla violenza e all’intolleranza.
Come la democrazia, la giustizia funziona in base alla ragione, senza ricorrere alla forza. Ma affinché questa ragione possa esprimersi, perché la discussione abbia luogo nei termini in cui si svolge, è pur necessaria la forza bruta. Allo stesso modo la democrazia si basa sul rifiuto della violenza che l’ha generata e di cui ha bisogno per perpetuarsi.
E quel filtro alla violenza filtra anche l’azione radicale quando si entra ad esempio in un tribunale e si riesce a proporre solo ciò che è accettabile dalla Corte. Comunque questo non è un motivo per non agire, né per rimpiangere d’avere agito, ma piuttosto per farlo consapevolmente: non può esistere intervento rivoluzionario all’interno dell’ambito della giustizia. L’apparato separa l’imputato dalla discussione che lo riguarda delegando il suo potere, come si fa continuamente in democrazia, ad alcuni suoi rappresentanti: in questo caso agli avvocati.
Il colmo è che attraverso la pubblicità del dibattimento, in qualità di “pubblico” si è convinti di controllare la giustizia, mentre è la giustizia a controllare il pubblico. L’immagine che trapela dai tribunali è portatrice di un messaggio essenziale, ipnoticamente ripetuto: lo Stato ha il monopolio della violenza; e quando i conflitti fra le persone rendono confusa e incerta la verità, è lo Stato che risolve: «ho anche il monopolio della verità». La trilogia «polizia-giustizia-media» deve dunque essere analizzata nel suo funzionamento d’insieme. Magari il gioco fra i tre partner talvolta si scombussola, ma è in grado di assorbire ogni scandalo. C’è scandalo quando si rivela che qualcuno ha trasgredito le regole: ma questa denuncia presuppone che si rimanga all’interno del gioco. La vera rottura sarebbe uscirne.
Nessuna denuncia, nessun bagliore accecante di verità ha di per sé la forza di rimettere in causa istituzioni e rapporti sociali.
La prigione sociale
Dunque perché occuparsi della repressione e della giustizia? Sicuramente non perché ci sia nei tribunali e nelle carceri un orrore esemplare, primario, essenziale. Per mettere in discussione l’intera società non abbiamo bisogno di ricercare un colmo dell’orrore che non saprebbe fornirci elementi per andare alla radice dello sfruttamento e dell’alienazione. Inoltre non è concepibile una scala dei livelli di atrocità. Il detenuto in galera, il soldato che si addestra o che combatte nel fango di una trincea, l’operaio che incappa in un incidente di lavoro, il contadino che fatica sedici ore al giorno, hanno ciascuno diverse buone ragioni per riscontrare nella propria condizione un colmo dell’orrore.
In effetti una società solida ed efficiente sa ricoprire un rapporto d’oppressione col miele delle soddisfazioni parziali. L’umanizzazione del lavoro non è forse un programma costante del capitale? E poi, in una società “libera” e democratica non bisogna solo produrre ricchezze, occorre soprattutto «trovare un’occupazione». Ora anche in carcere finalmente lo hanno capito, nessuno dovrà più stare in ozio: si concederà un lavoro al prigioniero per accaparrarsi il suo tempo e per mobilitarlo, tappandogli i buchi di tempo. Come sostiene anche un novello ministro — il concetto di pena inflittiva e basta, non è riabilitativa, è storicamente e culturalmente superato. Così, quegli stessi soggetti che non sono riusciti a riempire e a “nobilitare” in tal modo la loro esistenza quando erano all’esterno delle mura, si ritroveranno al loro interno davanti ad un’occupazione che offrirà davvero notevoli vantaggi, a loro e allo Stato.
Quale che sia il numero dei detenuti che ospita, l’istituzione penitenziaria è necessaria alla società delle classi. La sua soppressione è un’illusione così come lo sarebbe l’idea di un’economia gestita dal basso, di aziende dove i salariati potrebbero “autogestire” il proprio sfruttamento (un orrore degno del più sanguinario dei dittatori). Il carcere ha una funzione simbolica insostituibile; la reclusione di alcuni richiama l’esistenza stessa della norma continuamente violata, ma che non cessa comunque di funzionare come riferimento, rozzo confine dei limiti da non superare troppo.
La società d’oggi, società della massima impotenza, è anche quella dell’assistenza generalizzata. Ormai, l’esistenza intera ha bisogno di intermediari, così proliferano i servizi pubblici la cui funzione è assicurata dal reticolo dei bisogni indotti. Lo Stato riempie il vuoto dell’esistenza con strumenti che utilizza nel contempo come controllori, mentre mantiene strutture come la prigione in quanto luoghi di scarico sociale. Certo, questa funzione potrebbe essere anche assicurata in altri modi; una società capace di autoriformarsi se la sbrigherebbe con minori costi (sociali e contabili), ma non cesserebbe comunque di mantenere in qualche modo quella funzione.
Le critiche superficiali e interessate, incapaci di pensare ad una fine della giustizia, ritengono che questa possa e debba essere mantenuta, magari senza bisogno che intervenga, immaginando una società futura senza violenza, attribuendo tutta la violenza attuale ai misfatti della società di classe. Tale è stato il sogno di parecchi illuministi e dei fautori di tutte quelle scuole di pensiero che descrivono un mondo “perfetto”.
Meccanismo separato di risoluzione dei conflitti attraverso la proiezione di una immagine e l’esclusione di un individuo, la giustizia non sarà affatto abolita se si affidano le sue funzioni ad un’altra entità, posta al di sopra delle persone, benché più malleabile, rinnovabile, sottoposta a elezioni, controllata da riunioni popolari. Una giustizia spontanea, con leggi flessibili o anche senza testo del tutto, non cesserebbe per questo di essere una macchina che divide il Bene dal Male indipendentemente dalle relazioni sociali, e fatalmente contro di esse. Che i giudici siano burocrati o forse no, che i codici siano rigidi o adattabili, per noi non c’è differenza. È la nozione stessa della Legge che vogliamo distruggere. Che la Legge cambi tutti i giorni con «l’evoluzione dei costumi» non modifica la sua funzione.
Quale che sia la sentenza delle urne, l’ordine sociale e democratico ci guadagna ogni volta che lo si vota. Allo stesso modo, quale che sia il voto della giuria, l’esistenza della giustizia costituisce la sua vittoria: non ha bisogno d’altro.
Solo bravi ragazzi?
Il moderno apparato giudiziario è estremamente razionale e scientifico, mentre ostenta la sua superiore “imparzialità” attraverso l’applicazione di procedure che pesano quasi al milligrammo le possibilità concesse all’accusa e alla difesa. Può perfino permettersi di essere scrupoloso, di fronte a individui costretti a sottomettervisi: li controlla, li depreda di tutto, avendo acquisito pieni poteri sulla loro esistenza. La sua vittoria è di esistere, di costringere tutti, ivi compresi quelli come noi che lo contestano, a giocare secondo le sue regole.
Solo l’incorreggibile sinistra politicante e bacchettona può considerare una vittoria o una sconfitta della giustizia una condanna o un’assoluzione. E non è strano che proprio quelli che rifiutano di criticare la giustizia in quanto tale non comprendano o accettino la natura della democrazia. Per costoro, l’opposizione di fondo è tra dittatura e democrazia, tra fascismo e antifascismo, e così via. Così come partecipano alle elezioni o reclamano il diritto di voto per gli immigrati, oppongono in tribunale i giurati “popolari” ai giudici “borghesi”. La loro prospettiva non è affatto di distruggere la giustizia in quanto tale, ma di democratizzarla, come tutto il resto. Comunque la si veda, in maniera tragica o comica, la riproduzione che spesso si verifica da parte degli stessi sfruttati delle caratteristiche della giustizia e del suo corollario carcerario, mostra l’effettiva portata del problema.
Qualcuno può talora sentirsi costretto a passare sul terreno dell’avversario ed argomentare in termini giuridici, magari per «patteggiare», ma ciò non costituisce mai una vittoria. E comunque si tratta pur sempre di un compito che è meglio lasciare all’avvocato. Facciamo un esempio. Un’azione pubblica svolta dall’esterno capace di sollevare qualche dubbio agitando lo spauracchio di un clamoroso “errore giudiziario”, un buon lavoro degli avvocati nel corso del dibattimento, possono anche costringere la magistratura a rinunciare a calcare la mano sull’imputato, ma ciò non toglie la che la giustizia avrà comunque agito secondo le sue regole per di più costringendo noi a rispettarle. D’altronde un’istituzione che sa riconoscere i propri errori è un’istituzione che si rafforza.
Allo stesso modo un tribunale che assolve, come un tribunale che condanna, resta pur sempre un tribunale: si riesce difficilmente ad immaginare un luogo dove i diseredati abbiano meno potere di un’aula di tribunale. Un caso eccezionale potrebbe essere costituito dalla pressione esercitata da un movimento sociale sulla magistratura, quando ad esempio una folla si raduna per esigere un’assoluzione, proprio come un commissariato può essere assediato da centinaia di manifestanti che pretendono che si liberino gli arrestati. Ma questa pressione è comunque esterna: è sempre altrove che si può costituire la forza degli sfruttati.
E tuttavia molto spesso è arduo sradicare la convinzione che il solo modo per ottenere un trattamento benevolo da parte dell’apparato giudiziario sia di darsi da fare al suo interno per mettere in mostra l’inoffensività sociale di chi vi è incappato.
Sì — teoricamente ne siamo tutti convinti — il modo migliore per solidarizzare con un atto di rivolta è di compierne un altro. Di fronte a un’azione riuscita, in molti sono capaci di applaudire e di elogiare quanto accaduto e non mancano i compagni pronti a mettere in pratica questa massima riproponendo, e quindi contribuendo alla sua generalizzazione, l’azione di rivolta compiuta in precedenza da altri. Ma un atto di sovversione è tale al di là dell’esito finale, nel bene come nel male. Invece, regolarmente, quando le cose “vanno male” e magari gli autori del gesto di ribellione vengono individuati o arrestati, a nessuno viene più in mente di agire a propria volta. La solidarietà non si concretizza più in azione (nostra) ma in reazione all’azione altrui, in questo caso dei giudici. Allora si preferisce aspettare, ascoltare i consigli dell’avvocato, il pronunciamento dei compagni arrestati, il completamento delle indagini. Si attende di vedere come si mettono le cose. Se prima ciò che contava erano i nostri desideri, e i nostri tentativi per realizzarli, ora si tratta solo di “far uscire” i compagni.
Pur non intendendo agire strumentalmente, pur non volendo che si creino nuovi «martiri per la causa», sebbene strappare dalla galera dei compagni sia indubbiamente un nostro scopo primario, tuttavia bisognerà non mancare di valutare i mezzi che si intendono impiegare ed essere consapevoli della loro natura come dei loro limiti.
Invece succede che d’incanto appaia più proficuo accantonare le solite critiche rivolte alla giustizia, dimenticare le bellicose dichiarazioni di guerra contro la società, per limitarsi ad invitarla ad essere “giusta” e di conseguenza ad assolvere un “innocente”, a rilasciare un “ammalato”, a considerare “ragazzate” quelli che, in diverse circostanze, saremmo pronti ad esaltare come gesti di rivolta. Ma è davvero questo ciò che vogliamo? Appellarci ai sentimenti umanitari di chi disprezziamo?
Di fronte alla Giustizia e al timore che incute, sembra che non sappiamo fare altro che smentire noi stessi e ciò che diciamo di desiderare.
Ribelli e rivoluzionari quando siamo liberi, una volta in mano al nemico siamo capaci solo di mettere in mostra i nostri malanni fisici, la nostra “innocenza”, o la sostanziale innocuità delle azioni da noi compiute.
Il potere manda in galera i sovversivi, gli anarchici perché in quanto tali sono «socialmente pericolosi», noi per tirarli fuori sappiamo solo dipingerli come inoffensivi agnellini.
Siamo cinici? Facciamo l’apologia del sacrificio? Niente di tutto questo, abbiamo semplicemente un fastidioso cruccio che ci assilla: siamo solo bravi ragazzi?
[da Anarchismo n. 74 del settembre 1994]
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The Virtue of Torment

from Revolutionary Solidarity, Elephant Editions

La virtù del supplizio, “Anarchismo” n. 74

Aldo Perego

Prison, a physical territory distinct and separate from the rest of social life and what it represents and determines, seems to occupy a reserved space in our thoughts and minds.

The law is a concentrate of the way society has chosen to regulate its conflicts (by force and through image), whereas prison sums up what directly crushes and oppresses us. For us it is a question of understanding how and where one can act to put an end to all the filth of survival, including facing the problem of the destruction of prison and the law. And in order to put an end to the law it is also essential to stop thinking and talking in its language, that normally used to denounce the “abuses” of power. By so doing we certainly don’t want to contest the prisoner’s possibility to demand to be treated properly when tormented by the screw. But by shutting oneself up in particular wrongs (the screw’s abuses) without considering the monstruosity of the very existence of prison, the prisoner finds himself drawn into a perverse accountancy: what does it mean to ask for the right to be treated properly? Would any individual whatsoever not prefer not to be treated at all?

The other side of the law

Law as the right of an individual to obtain or do such and such a thing, or as a whole including texts and legal practices. The latter apparently include and guarantee the former. So the democratic procedure always consists of padding out law with the rights of man, whereas any law we might benefit from is itself a dispossession, a search for ourselves in something other than ourselves. But what do laws define? Freedom conceived of only in negative terms: “my freedom ends where another’s begins”. A vision of the individual as a territory limited by others, a vision of small proprietors, precursors of the famous “my body belongs to me”. It is not by chance that the temporal dimension, a fundamental human value, is lacking in these concepts.

Every right is by nature both a principle and a practical means of exclusion and privation. Whoever says right says exchange, because the law is these to organise a measured repartition of rights and duties and, in the case of damage, it prescribes the amount of compensation. A right always belongs to a miserable proprietor, because he needs a property title for something he is afraid of losing or that could be taken from him. Law is always aimed at governing a community which is incapable of living as such, in order for it not explode completely.

Law is also an ideology: a mental and rational construction that serves to justify the real social function of justice.

Today law is a precise quantifiying coded instrument which determines and points out what each individual, including each civil servant, must do. The police are held to respect very severe regulations and at the Same time they are continually having to break them in order to function. Legal control of their work is a fake: everyone knows the pig uses particular techniques in order to function and to exert pressure, which judges nearly always close a eye to. No matter whether it is applied to the investigator or the common citizen, the law does not prevent excesses, it merely keeps them within reasonable limits so as not to put the social order and institutions at risk. In the same way a prison sentence serves to circumscribe the revenge of the injured party by keeping it within the Limits that have been established and applied by a third party “above the party”, as all societies dispose of norms to allow those in power to regulate their arguments, legitimize their power and obtain the consensus of the exploited.

The Bible does not define, it lists, justifying such an operation with the unknowable and inscrutable divine will concerning what one should and shouldn’t do. The modern era also supplies a definition of man on which to organise its social rules. The same goes for the law, with the pretext of establishing what is right and what is wrong. Hence the classification into good and bad. Innocence and guilt are attributes of the legal mechanism as they contain a judgement (which the person concerned is heartily invited to interiorise). Now, to understand and live the crudest acts (rape, murder, torture) does not mean to judge them. Whoever sits in judgement is action in the name of something that goes beyond the social relations which determined these same acts.

Precisely in the Same way as morals do in interpersonal relations, the law applies a pre-established norm to a conflict or violence to solemnize the trauma, defining it in order to exorcise it. In this logic it is necessary for there to be a guilty party, not just someone responsible as guilt penetrates the guilty, becoming their whole being. This is complete when the law claims to judge not only action but the whole person in the light of their action, reinforced with an analysis of the motivations, psychiatric reports and personality tests.

The law and Democracy

The sphere of State control is extending as rights increase, as it is necessary to have them respected and to sanction transgressions. The tendency of democratic society is to penalise everything. It has a clause and a punishment for every form of violence from the slap of the parent to rape. The extension of rights is synonymous with generalised criminalisation. It is claimed that violence has been banished from all social relations. But that reinforces the monopoly of violence that has been “legitimised” by the State, which is infinitely worse than any other kind. The law does not eliminate violence, it normalises it. Like democracy, it constitutes a filter to intolerance and violence alike.

Like democracy, the law functions on the basis of reason without having recourse to force. But for this reason brute force is also necessary in order for it to express itself, for any discussion to take place on its own terms. In the Same way democracy bases itself on the refusal of the violence it has generated and which it needs in order to perpetuate itself.

And so this filter also affects radical action, when it enters a court for example, rendering it incapable of proposing anything other that what is acceptable to the law. However, that is not a reason for not acting, or for regretting having acted, but rather for doing it knowingly: no revolutionary intervention can exist within the ambit of the law. The legal apparatus separates the accused from the discussions that concern him by delegating his power, as is continually done in democracy, to a few of its representatives: in this case to lawyers.

The worst thing is that, because the trial is public, one is convinced one is controlling the law, whereas it is really the law that is controlling the public. The Image that comes from the court carries an essential, hypnotically repeated message: violence is the monopoly of the State. And when conflicts between parties lead to confusion and uncertainty it is the State that sorts things out: “I also have a monopoly of truth”. The trilogy “police-justice-media” must therefore be analysed as a whole. Even if the game between the three partners overturns it is still able to absorb any scandal. There is a scandal when it transpires that someone has broken the rules: but such an accusation presupposes one’s remaining inside the game. The real rupture would be to break out of it.

No denunciation, no blinding glare of truth contains on its own the strength to threaten the existence of social institutions and relations.

The social prison

So, why take up the question of repression and the law? Certainly not just because of the existence of the primary, essential, exemplary horror of the courts and prisons. We have no need to seek a peak of horror in order to put the whole of society in question, as that would fail to supply us with elements for getting to the roots of exploitation and alienation. Moreover, a scale of atrocities would be inconceivable. The prisoner in jail, the soldier being trained for fighting in the mud of a trench, the worker who has an accident at work, the peasant who toils sixteen hours a day, each one has a number of good reasons for finding the ultimate horror in their own condition.

In effect a solid, efficient society knows how to cover up a relationship of oppression with the honey of partial satisfactions. Is the humanisation of work not one of Capital’s constant programmes? And then, in a “free” and democratic society it is not necessary to simply produce wealth, it is necessary above all to “find a job”. In prison too they now understand that no one should stay idle any longer: the prisoner will be conceded a job in order to “earn his time”, and will be allowed to move himself, “fall up his time”. The concept of the inflicted sentence alone is now historically and culturally out of date. So these same subjects who failed to fulfill and “ennoble” their existence when they were outside the walls, now find themselves with an occupation that offers considerable advantages to themselves and the State.

The penal institution is necessary to the class society, no matter how many or how few prisoners it holds. The idea of an eventual suppression of it is a pure illusion, just as the idea of an economy managed from the Base is, the existence of firms where the wage earners could “self-manage” their own exploitation (a horror worthy of the most sanguinary dictatorships). Prison has an indispensable symbolic function. The reclusion of the few not only recalls the existence of the norm that has been violated, but also functions as a point of reference, a rough border of the limits not to be ventured beyond.

Today’s society is one of maximum impotence and generalised assistance. The whole of existence now requires intermediaries, so there is a proliferation of public services whose function is assured thanks to a network of induced needs. The State fills the void of existence with the instruments that it uses to control at the same time as it maintains structures like prison as places of social dumping. Of course, this function could be assured in other ways. A society that was capable of reforming itself would do so with lower costs (social and accounting), but it would still maintain that function in some way.

Superficial critiques that are incapable of conceiving of an end to the law consider that it can and must be maintained, at best without intervening, imagining a future society without violence and attributing the violence of today to the misdeeds of the class society. This has been the dream of many enlightened partisans of all the schools of thought desirous of a “perfect” world.

A separate mechanism for the resolution of conflict by projecting an image and excluding the individual, the law will never be abolished even though its functions may be entrusted to another entity that is not above people and is far more maleable, revocable, submitted to elections, or controlled by popular assembly. A spontaneous form of justice with flexible laws or even without any text at all would not for that cease to be machinery dividing good from evil independently of and against social relations. It makes no difference to us whether judges be bureaucrats or not, the penal Code rigid or adaptable. It is the very notion of law that we want to destroy Even if the law changes daily with the “evolution of customs” it does not change its function.

No matter what the opinion folk say, the social order wins every time one votes, in the Same way that no matter what the jury vote, the very existence of the law is what constitutes the victory: it does not need anything else.

Just good boys and girls?

The modern legal apparatus is extremely rational and scientific as it ostentates its superior “impartiality” through the application of procedures which weigh up the possibilities conceded to the accused and their defence almost to the milligram. It can even allow itself to be scrupulous to the individuals who are obliged to submit to it: it controls them, despoils them completely, having acquired full powers over their existence. Its very existence is a victory as it constrains everyone, including those like us who contest it, to play according to its rules.

Only the incorrigible political lefty zealot can consider a sentence or an acquittal to be a victory or defeat of justice. And it is no wonder that it is precisely those who refuse to criticise the law as such who do not understand or accept the nature of Democracy, Fascism, Antifascism, and so on. Just as they participate in elections or claim immigrants’ right to vote. They call for working class juries instead of “bourgeois” judges. Their perspective is not at all that of destroying justice as such, but of democratising it like everything else. However, one sees there, tragically or comically, the reproduction of the characteristics of justice and its prison corollary. This often takes place among the exploited themselves, which gives an idea of the extent of the problem.

At times some might feel obliged to pass over to the enemy camp and argue in legal terms, but that never constitutes a victory And anyway it is always a task that is best left to the lawyer. For example, a public action capable of raising doubts, waving the scarecrow of a clamorous “legal” error and some good work by the lawyers during the debate can even Force the judiciary to renounce coming down heavily an the accused, but that does not alter the fact that in any case the law has acted according to its own rules by obliging us to respect them. Moreover, an institution that is capable of admitting its mistakes is an institution that strengthens itself.

In the same way a Court that acquits, like one that convicts, is still a Court. It would be hard to imagine anywhere that the disinherited have less power than in a court. An exceptional case could arise from pressure exercised on the judiciary by a social movement, for example when a crowd gathers demanding an acquittal precisely in the same way as a police station can be besieged by hundreds of demonstrators demanding that those arrested be freed, but this pressure is external. It is always elsewhere that the strength of the exploited can constitute itself.

All the same, eradicating the conviction that the only way to obtain benevolent treatment by the legal apparatus is to busy oneself from the inside to show up the social inoffensiveness of those caught up in it is often an arduous task

Yes, and in theory we are all convinced that the best way to solidarise with an act of revolt is to commit another. Many are capable of applauding and praising a successful action, and there is no lack of comrades ready to put this maxim into practice by reproposing it, thereby contributing to its generalisation. Any act of subversion goes far beyond its actual outcome, in good as in evil. On the contrary, regularly when things “go wrong” and the authors of the act of rebellion are singled out or arrested, it does not occur to anyone to act in turn. Solidarity no longer concretises in our action but in the reaction to the actions of others, in this case, those of the judges.

So we prefer to wait, listen to lawyers’ advice, the arrested comrades’ declarations, the completion of investigations. We wait to see how things are going as though what mattered before was our desires and our attempts to realise them, and now it is simply a question of getting our comrades “out”.

Not intending to act instrumentally, getting comrades out of prison is undoubtedly our primary aim. All the same, it is necessary to evaluate the means one intends to use and to be aware of their nature and Limits.

Instead it turns out that it would seem more becoming to put the usual critiques of the law aside. Forget the bellicose declarations of war against society, and limit oneself to being just, and consequently to having an innocent person acquitted, freeing a sick comrade, or considering what in other circumstances we would accept as gestures of revolt, as nothing but childish pranks. But is that really what we want? To appeal to the humanitarian sentiments of those we despise?

In the face of the law and the fear it arouses, it seems that we are incapable of doing anything other than recanting ourselves and what we say we desire.

Rebels and revolutionaries when we are free, once we are in the hands of the enemy we are only capable of showing the innocuousness of the actions we carried out.

Power puts subversives, anarchists, in prison because as such they are “socially dangerous”. Is painting them as inoffensive lambs all we can do to get them out?

Are we cynical? Are we making an apology for sacrifice? Nothing of all that. We are simply tormented by a question that is beginning to worry us — are we just good boys and girls?