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1. L’irruzione dell’insurrezionalismo
Nelle loro lettere al «Llar», i compagni arrestati per la rapina di Cordoba, confrontano le loro posizioni con quelle dei CNTisti che scrivono allo stesso bollettino. Le loro posizioni sono quelle proprie dell’anarchismo insurrezionalista, che proprio attraverso queste pagine trova eco per la prima volta in Spagna. Agli inizi del 1997 si pubblica a Barcellona l’opuscolo di A. Bonanno La tensione anarchica. E questo è praticamente tutto quello che i sostenitori e i detrattori dell’insurrezionalismo in Spagna, possono conoscere in merito.
Questo e l’esempio pratico della rapina di Cordoba, naturalmente, esempio che sin dall’inizio provoca un malinteso, a causa del quale molte persone credono che i metodi insurrezionalisti si limitino all’esproprio, o che la rapina sia il metodo insurrezionalista per eccellenza.
Sicuramente non è la prima volta che si parla di insurrezionalismo nella penisola. In particolare, lo scomparso gruppo “Rivolta”, di Comella, lo divulgava da anni nel suo bollettino.
Sicuramente non è la prima volta che si parla di insurrezionalismo nella penisola. In particolare, lo scomparso gruppo “Rivolta”, di Comella, lo divulgava da anni nel suo bollettino.
Attraverso lo stesso gruppo viene diffusa la convocazione del primo incontro della IAI (Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista) nel 1996, al quale intervengono compagni di varie regioni spagnole.
L’invito per esempio arriva anche alla FIJL [Federazione Iberica della Gioventù Libertaria] quando ancora è nell’orbita della CNT.
In quel momento – prima dei fatti di Cordoba – la federazione giovanile rifiuta l’invito e considera l’insurrezionalismo come una deviazione: così si risolvono in certi ambienti le discussioni.
Come nota a margine, vogliamo ricordare che anche il periodico «CNT» ha pubblicato occasionalmente alcuni articoli di A. Bonanno che hanno causato la perplessità, se non lo scandalo, di molti lettori.
Nessuno di questi testi ha riscosso successo, dato che la situazione spagnola non lo permetteva.
Al ritardo con cui il capitalismo spagnolo affronta la sua ristrutturazione, bisogna aggiungere l’inadeguatezza ancora maggiore con cui gli ambienti di sinistra si trovano ad affrontare questo cambiamento storico.
L’antagonismo giovanile non ha raggiunto il necessario grado di maturità e l’anarchismo ufficiale di putrefazione, affinché si produca la rottura in entrambi i fronti di uno strato giovanile libertario. Solo in quel momento l’insurrezionalismo ha una penetrazione reale.
Arrivati a questo punto, dobbiamo fare alcune precisazioni.
Quella che chiamiamo “l’epidemia di rabbia” è un tentativo collettivo, ma non unitario né coordinato, di superare l’impotenza e la paralisi degli ambienti politici che in Spagna aspirano ad essere “anticapitalisti” e “rivoluzionari”.
Se gli attribuiamo questo nome un po’ lirico è per non confondere il tutto con una parte – certamente importante – che corrisponde all’insurrezionalismo.
Questa variante dell’anarchismo, sviluppata e messa a punto tra l’Italia e la Grecia, ha un’influenza molto importante per quanto riguarda l’epidemia, determinando in parte il suo sviluppo. Ma non è la sua unica componente, né è sufficiente da sola per spiegarla.
L’epidemia di rabbia è frutto di dinamiche spagnole che abbiamo cercato di descrivere nella prima parte di questo scritto. Un’appropriazione acritica dell’insurrezionalismo non è la sua causa, ma il suo effetto.
L’insurrezionalismo non è l’unica nuova corrente che fa irruzione nel campo libertario dopo la frattura apertasi riguardo ai fatti di Cordoba. Una volta rotto il monopolio ideologico esercitato in questo campo dall’anarchismo ufficiale, attraverso la stessa crepa iniziano ad infiltrarsi posizioni e idee diverse.
Alcune, come il primitivismo, dimostrano di non essere altro che effimere mode ideologiche. Altre, come la critica anti-industriale, hanno dimostrato maggior solidità teorica.
Si disseppelliscono vecchie correnti marxiste come il consiliarismo, e con tutta la buona volontà di questo mondo ci si sforza di autoconvincersi che siano di rabbiosa attualità.
Anche se non è cosi, la loro diffusione serve almeno per indebolire il tradizionale anticomunismo dell’anarchismo spagnolo: scopriamo cosi un Marx molto più vicino a noi. In questo senso la teoria situazionista, accessibile per la prima volta in spagnolo nella sua interezza, ha anch’essa un notevole impatto.
Riassumendo, a partire dal l998, e per almeno 5 anni, vengono discusse moltissime teorie diverse a un ritmo vertiginoso. Come abbiamo già segnalato, intorno a questa data si produce una mutazione generale di tutti i movimenti al di là della sinistra istituzionale, e non solamente dell’anarchismo. Questa trasformazione apre spazi di dibattito che prima non c’erano, e obbliga a una messa in discussione generale.
Per questo è accompagnata da un’esplosione editoriale “antagonista” senza precedenti dagli anni Settanta. In questo modo riaffiora la memoria di molte lotte e momenti storici volutamente dimenticati, modificati o esorcizzati nelle tradizioni dell’estrema sinistra spagnola.
Si passa molto rapidamente da una mancanza assoluta a una sovrabbondanza di materiali e informazione, cosa che provoca una scorpacciata più che indigesta.
L’epidemia di rabbia si nutre anche di questi argomenti, letture e idee, presenti in maggiore o minor misura.
In questo modo vogliamo chiarire che il tema di questo articolo non è l’insurrezionalismo in sé, ma la ricapitolazione e il bilancio critico di un’esperienza collettiva durata un decennio, alla quale prendono parte persone che non si considerano insurrezionaliste, e molte neanche anarchiche.
Dovendo precisare la relazione tra questa esperienza – che non sarebbe corretto definire di movimento – e l’insurrezionalismo, diremmo che tutte le sue componenti finiscono col girare attorno a questioni centrali impostate da quest’ultimo.
L’insurrezionalismo non fornisce tutte le risposte come farebbe un dogma, ma detta le domande a cui tutti cerchiamo di rispondere in questi anni. In questo senso abbiamo affermato, nella prima parte di questo articolo, che le idee insurrezionaliste sono, «punto d’incontro e comune denominatore».
Per questo, la narrazione che ci siamo proposti risulta più chiara se affrontiamo alcune caratteristiche salienti dell’insurrezionalismo.
La prima è che non è assolutamente una dottrina strutturata, in massima parte perché manca di istanze organizzative centrali che veglino sulla sua “purezza”.
Questo rende più difficile la sua analisi critica, che cerchiamo di portare avanti comunque sulla base di alcuni testi che ci sembrano rappresentativi, ma senza pretendere di poterlo ridurre ad essi.
2. Un individualismo avanguardista
L’insurrezionalismo come teoria politica ha notevoli limiti: a quelli intrinseci dell’anarchismo ne aggiunge di propri. Dato che i testi italiani, oltre ad essere di per sé farraginosi, in molti casi sono anche mal tradotti, il tutto doveva trasformarsi in un vero e proprio rebus.
L’insurrezionalismo afferma che l’attacco contro il capitale e lo Stato è sempre possibile, qui e ora, al di là delle condizioni oggettive e soggettive e di altre inezie che anticamente limitavano i rivoluzionari.
Il sistema ha raggiunto un livello di complessità tale da rendere impossibile qualunque previsione strategica, così che è inutile scervellarsi. Bisogna attaccare e basta.
Una volta effettuata questa separazione dalle condizioni storiche e [sociali] – con maggiore o minore mancanza di pudore a seconda di quale teorico insurrezionale si tratti – il soggetto rivoluzionario protagonista di questo attacco, può essere solo l’anarchico, cioè l’individuo in lotta contro il sistema che l’opprime. Questo “ribelle” è indicato con diversi nomi nella letteratura insurrezionale, però costituisce uno dei suoi referenti teorici centrali e costanti.
Il “ribelle” dell’ideale insurrezionalista è un eroe tragico. Il suo eroismo risiede nel suo continuo sforzo di liberarsi da qualsiasi legame con il sistema. La sua tragedia deriva dalle conseguenze pratiche e dirette di un simile compito, e da un rapporto di forza tanto impari da non lasciar spazio a nessuna speranza. Il “sistema” è una macchia da colpire, il pretesto che da inizio alla personale odissea dell’individuo in lotta.
Per questo tanti scritti nati da questa ideologia eroica, sono pieni di imperative esortazioni alla rottura violenta della routine quotidiana, alla coerenza, all’autosuperamento per uscire dal gregge, a sconfiggere la paura etc.
In questo modo l’insurrezionalismo porta con sé una forte componente individualista. D’altro lato è incapace di indicare con chiarezza un soggetto collettivo capace di portare avanti l’attacco contro il sistema, al di là di vaghe allusioni agli oppressi, agli sfruttati o agli esclusi.
La scarsa strutturazione delle teorie insurrezionaliste, unita alla sua vaghezza, lascia ampi margini per attribuire a tale o tal altra figura sociologica la sublime missione di farla finita con il capitalismo, o perlomeno di condurre uno scontro fino alla morte e senza compromessi.
Così nel caso spagnolo c’è chi si convince che questa figura corrisponda ai prigionieri e chi vuole tornare alle vecchie idee sul proletariato rivoluzionario. Alcune analisi più recenti, hanno trovato un nuovo soggetto negli esclusi ammassati nelle periferie metropolitane, soprattutto dopo le rivolte francesi del 2004.
Niente di tutto questo è sufficiente, senza dubbio, per fare da contraltare alla base individualista di questa ideologia – pienamente rivendicata del resto – né per gettare le basi di una lotta collettiva, anche se non mancano tentativi in questo senso.
All’interno della concezione insurrezionale, la rinuncia a qualsiasi prospettiva strategica e la valutazione della guerra sociale come una resa dei conti strettamente privata, attribuiscono all’azione un valore intrinseco. L’azione si giustifica da sola, come una specie di catarsi che ci eleva dal piano dell’alienazione quotidiana a quello della ribellione totale.
Dunque, l’azione insurrezionale si dispiega su due modalità, perfettamente differenziate dai vari autori del gruppo, anche se le chiamano diversamente.
Le definiremo qui come “attacco diffuso” e “radicalizzazione delle lotte”. Entrambe fungono da sostitute della prospettiva strategica cui l’insurrezionalismo ha rinunciato volontariamente.
L’“attacco diffuso” è una pratica di sabotaggio slegata da qualunque conflitto o rivendicazione concreta. Estendendosi a tutti gli aspetti della vita, il dominio offre molteplici fianchi, e pertanto può essere colpito in ognuno di essi.
La “radicalizzazione delle lotte” ha già altre connotazioni. Qui l’insurrezionalismo rivela un fondo che possiamo qualificare solo come avanguardista. Per spiegarlo ci permettiamo di citare alcuni testi che abbiamo scelto come significativi all’interno del pensiero insurrezionalista:
«Ogni obiettivo di lotta specifico racchiude in sé, pronta ad esplodere, la violenza di tutti i rapporti sociali. La banalità delle loro cause intermedie, si sa, è il biglietto da visita delle rivolte nella storia. Cosa potrebbe fare un gruppo di compagni risoluti in situazioni simili? (…) è abbastanza chiaro che l’interruzione della vita sociale rimane un punto decisivo. Verso questa paralisi della normalità deve tendere l’azione sovversiva, quale che sia la causa di uno scontro insurrezionale. (…) La pratica insurrezionale sarà sempre sopra la gente (…) sono i libertari che possono spingere attraverso i metodi (l’autonomia individuale, l’azione diretta, la conflittualità permanente) a oltrepassare il quadro della rivendicazione, a negare tutte le identità sociali (…) Al momento non si può dire rimarchevole la capacita dei sovversivi di lanciare lotte sociali (…) Resta l’altra ipotesi (…), quella di un intervento autonomo in lotte – o in rivolte più o meno estese – che nascono spontaneamente. (…) Se si pensa che quando i disoccupati parlano di diritto al lavoro si deve fare altrettanto (…) allora l’unico luogo dell’azione appare la piazza affollata di manifestanti.» (Ai ferri corti)
«Ogni obiettivo di lotta specifico racchiude in sé, pronta ad esplodere, la violenza di tutti i rapporti sociali. La banalità delle loro cause intermedie, si sa, è il biglietto da visita delle rivolte nella storia. Cosa potrebbe fare un gruppo di compagni risoluti in situazioni simili? (…) è abbastanza chiaro che l’interruzione della vita sociale rimane un punto decisivo. Verso questa paralisi della normalità deve tendere l’azione sovversiva, quale che sia la causa di uno scontro insurrezionale. (…) La pratica insurrezionale sarà sempre sopra la gente (…) sono i libertari che possono spingere attraverso i metodi (l’autonomia individuale, l’azione diretta, la conflittualità permanente) a oltrepassare il quadro della rivendicazione, a negare tutte le identità sociali (…) Al momento non si può dire rimarchevole la capacita dei sovversivi di lanciare lotte sociali (…) Resta l’altra ipotesi (…), quella di un intervento autonomo in lotte – o in rivolte più o meno estese – che nascono spontaneamente. (…) Se si pensa che quando i disoccupati parlano di diritto al lavoro si deve fare altrettanto (…) allora l’unico luogo dell’azione appare la piazza affollata di manifestanti.» (Ai ferri corti)
«Aprire un ventaglio di possibilità concrete di distruggere il potere, significa legare la tensione della rivolta individuale a tutti quei momenti che nel sociale, al di là dell’agire anarchico, emergono come momenti di autodeterminazione o di rottura con l’ordine imposto. Questo tentativo di collegamento esclude però ogni strumentalizzazione e avanguardismo. Gli anarchici non hanno nulla da insegnare sulla rivolta contro l’ordine costituito. In questo modo, il legame tra la tensione anarchica e le forze sociali ribelli, si concretizza come stimolo alla radicalità della lotta e della ribellione, accentuando alcuni elementi dell’autodeterminazione e suggerendone altri.» (C. Cavalleri)
«… bisognerà costruire gruppi di affinità, costituiti da un numero non molto esteso di compagni (…) i gruppi di affinità possono a loro volta contribuire alla costituzione di nuclei di base. Lo scopo di queste strutture è quello di sostituire, nell’ambito delle lotte intermedie, le vecchie organizzazioni sindacaliste di resistenza(…) Ogni nucleo di base viene costituito quasi sempre dall’azione propulsiva degli anarchici insurrezionalisti, ma non è formato solo da anarchici. Nella sua gestione assembleare gli anarchici devono sviluppare al massimo il loro compito propulsivo contro gli obiettivi del nemico di classe (…). Il campo d’azione dei gruppi di affinità e dei nuclei di base è costituito dalle lotte di massa. Queste lotte sono quasi sempre intermedie, e non hanno un carattere direttamente e immediatamente distruttivo, ma si propongono spesso come semplici rivendicazioni, aventi lo scopo di recuperare forze per meglio sviluppare la lotta verso altri obiettivi.» (Nuove svolte del capitalismo)
Tutti questi brani – e molti altri che si potrebbero citare – condividono una peculiarità comune: il disprezzo assoluto verso l’autonomia delle lotte sociali e gli interessi e necessità immediate delle persone che le portano avanti, cosi come la volontà chiaramente parassitaria di utilizzare queste lotte come piattaforma della propria ideologia.
Ciò dipende dal fatto che, come si afferma con cinismo in Ai ferri corti: «non si può dire rimarchevole la capacità dei sovversivi di lanciare lotte sociali». Lanciamoci pertanto su quelle che possono sorgere “spontaneamente” al di fuori dei ristretti ambiti sovversivi.
Per non dilungarci oltre, lasciamo al lettore il compito di sviluppare le implicazioni di queste posizioni. Vogliamo solo constatare che, disgraziatamente, i militanti di questa corrente non hanno mai avuto a disposizione troppe situazioni insurrezionali o conflitti sociali su cui incidere. Diversamente, si sarebbe evidenziato fino a che punto un’insurrezione può prescindere dall’insurrezionalismo, e fino a che punto un conflitto sociale può essere rovinato e uscire completamente sconfitto, se lo si obbliga a camminare nella direzione segnalata da pochi illuminati, completamente lontani dalle circostanze che hanno fatto sorgere il conflitto , e carenti di ogni altro orientamento che non sia la propria ideologia.
Sospeso tra “l’attacco diffuso” e “la radicalizzazione delle lotte”, l’insurrezionalismo non contempla — perché non lo può fare — l’ipotesi che risulterebbe maggiormente interessante: quella di una pratica di sabotaggio guidata da considerazioni strategiche fatte su interessi collettivi, non condizionata necessariamente dall’esistenza di movimenti sociali, però in ogni caso attenta al loro nascere e rispettosa di essi e delle loro caratteristiche.
Abbiamo rispolverato sommariamente le risposte date dall’insurrezionalismo alle questioni della pratica rivoluzionaria e del soggetto che dovrebbe portarla avanti.
Non possiamo concludere questo breve sunto – che non pretende peraltro di essere esauriente – senza introdurre la sua visione su un altro problema fondamentale: quello dell’organizzazione.
In primo luogo, perché le idee insurrezionaliste su questo punto costituiscono in alcuni casi l’elemento di maggior interesse e originalità di questa corrente.
Poi perché, nel caso iberico, è la critica insurrezionalista verso le forme organizzative tradizionali e la sua proposta positiva in questo campo ad avere il maggior impatto sulla nostra generazione di militanti.
Ed è questo che nei fatti favorisce maggiormente la sua diffusione.
La proposta organizzativa dell’insurrezionalismo ruota attorno alla cosiddetta “organizzazione informale”. Secondo i suoi presupposti teorici, l’organizzazione informale non aspira a durare nel tempo, né a conquistare alcun tipo di egemonia.
Per questo, può prescindere da sigle e da tutto l’armamentario del proselitismo abituale. Un’organizzazione informale è – per utilizzare un’espressione di moda – “in costruzione permanente”. Nasce dalle relazioni di affinità, fiducia e conoscenza tra compagni. Prende corpo intorno a compiti e progetti precisi, momenti di accordo e/o situazioni concrete di conflitto.
In essa, la comunicazione e l’accordo devono avvenire in maniera fluida e non attraverso congressi, delegazioni, riunioni periodiche etc.
L’idea motrice è preservare integralmente l’autonomia di ogni gruppo e individuo, che non deve essere sacrificata sull’altare della sua unificazione in quella che Bonanno chiama “organizzazione di sintesi”.
L’impostazione dell’organizzazione informale poggia, in ultima istanza, nel substrato individualista proprio dell’insurrezionalismo. Si tratta di creare un’organizzazione di “unici”.
A fianco di quanto di negativo c’è in questa impostazione, vogliamo far risaltare una serie di implicazioni positive.
In primis, vengono desacralizzate in un colpo solo le forme organizzative. Non solo quelle concrete dell’anarchismo iberico, ma le forme organizzative in senso generico, astratto.
Questa concezione permette di tornare a pensare l’organizzazione come un mezzo, non come un fine in sé. Come qualcosa che pertanto deve evolvere – e nel caso scomparire – in base alle trasformazioni storiche e alle condizioni della lotta. Valorizza gli aspetti qualitativi rispetto a quelli quantitativi. Sblocca il problema dell’organizzazione e lo affronta con una flessibilità che all’interno dell’anarchismo spagnolo si era completamente persa.
Si aprono così le porte per una sperimentazione creativa delle diverse forme organizzative.
In secondo luogo, dentro l’organizzazione informale non c’è spazio per il militantismo.
Per dirlo con altre parole: non c’è spazio per l’alienazione riguardo la propria militanza. L’organizzazione informale non sottopone il militante alla pressione di ritmi decisi da istanze superiori; non lo fa sentire come un verme che deve essere all’altezza della “grandezza” dell’organizzazione e della sua storia mitizzata; permette di mettere in discussione tutto e in qualsiasi momento.
L’organizzazione informale impedisce, in breve, la comparsa di un feticismo dell’organizzazione. Ciò che comparirà, disgraziatamente, sarà un feticismo dell’informalità, che tratteremo un po’ più avanti.
In ultimo, l’impostazione dell’organizzazione informale affronta pienamente una questione completamente dimenticata nei nostri ambienti: quella della qualità delle relazioni umane all’interno dell’organizzazione; dato che non è il possesso di un carnet o il sottomettersi a “principi, tattiche e finalità” ciò che trasforma in compagni delle persone che non si conoscono.
Per l’organizzazione informale, la relazione di solidarietà, di “compañerismo”, è determinata dalla conoscenza reciproca, diretta, dalla discussione e dalla collaborazione pratica. Passiamo dall’avere compagni astratti ad avere compagni concreti, e questo ci permette di conoscere tanta gente interessante.
Si tratta, come abbiamo detto, di implicazioni positive, contenute potenzialmente dentro al concetto di “organizzazione informale”. In generale, non sono sviluppate nei testi insurrezionalisti, e si traducono in gran parte nelle esperienze di chi tenta di plasmare nella pratica le formulazioni – sempre tanto vaghe – dell’organizzazione informale. […]
[Estratti da L’epidemia di rabbia in Spagna (1996-2007), Ed. Laramaccia]