Internazionalismo pratico

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Alfredo M. Bonanno
Il capitale, nelle sue molteplici espressioni, sia a livello di formazione economico-sociale, sia a livello di progettualità repressiva e di controllo, si estende su tutta la superficie del globo, nessun piccolo recesso geografico escluso. Ciò comporta, com’è ormai comunemente accettato, un processo relazionale costante, nel senso che non c’è azione, qui, in questa parte del mondo, che non si possa porre, e di fatto non si ponga, in relazione con le situazioni di tutte le altri parti del mondo. Ciò determina conseguenze, spesso non visibili a livello immediato, ma che si insinuano nei rapporti del capitale e ne modificano i processi.

Ora, a causare queste conseguenze, non sono soltanto i progetti repressivi e di controllo, i quali stanno ripassando i confini Stato-capitale, per fare la strada inversa a quella che avevano percorso agli inizi degli anni 80, ma sono anche le azioni di resistenza e di attacco che vengono poste in essere dai movimenti rivoluzionari, dalle organizzazioni specifiche che combattono contro il nemico di classe, dai movimenti insurrezionali di massa che si vanno formando un po’ dappertutto, ecc.
Tutte le manifestazioni che, dichiaratamente, si pongono nell’ottica dell’internazionalismo rivoluzionario, cioè nell’ottica di lottare a fianco dei popoli oppressi, in tutte le parti del globo, a partire dal posto dove ci si trova o, comunque, a partire da un momento particolarmente significativo, in cui il capitale, a livello internazionale, celebra i suoi programmi, assumono un atteggiamento corretto.
Questo modo di porsi nei riguardi delle lotte riscuote consensi dappertutto ed anche noi ci siamo posti in senso favorevole, per cui le brevi note critiche che qui appaiono vogliono soltanto essere un momento di riflessione più generale sulle possibilità e, perché no, sui limiti della lotta internazionalista rivoluzionaria.
Per prima cosa, la “scadenza”. A fissarla, quasi sempre, a ben riflettere, è il potere. Il movimento gli va dietro come un cane dietro una salsiccia fumante. Ciò comporta tutta una serie di rischi. Non è detto, infatti, che la scadenza fissata sia veramente importante. Può esserlo a livello di propaganda, cioè nel senso che in certi momenti il potere internazionale del capitale si programma incontri, conferenze, congressi, o altre diavolerie del genere, per camuffare i processi decisionali più significativi che vengono presi altrove. Spesso, ancora, in certi momenti, proprio perché diretti alla platea, si fanno discorsi che sono “accettabili”, progetti umanitari, sbandieramenti di disponibilità che lasciano stupefatta la gente, la quale non è preparata per capire i motivi di un dissenso, proprio nel momento in cui tutti si dimostrano disponibili a risolvere il problema. E tutto ciò mentre altrove, nel chiuso dei consigli di amministrazione, nelle sale ristrette dove si riuniscono i gruppi di sotto-potere, nei dialoghi a due o a tre, si prendono le decisioni traumatiche che condizionano milioni di vite, che causano milioni di morti.
In secondo luogo, il mito della “massa”, nel senso che si pensa sia indispensabile convogliare, in queste grandi occasioni, il maggior numero di compagni, o di persone, per far vedere quanta e quale sia la forza del movimento. In sostanza, questo secondo punto, limitante se ben si riflette, è strettamente connesso col primo. Se si sceglie la strada di manifestare – in un modo o nell’altro, qua non si sta facendo questione di metodo –   nel corso dei grandi momenti celebrativi del potere del capitale internazionale, non si può fare diversamente, se non altro per non sembrare troppo pochi per impensierire chicchessia. E qui casca un’altra riflessione, connessa a queste scelte, la pretesa di potere “pubblicizzare” l’intervento facendo ricorso ai grandi mezzi di informazione, i quali non possono tacere di fronte ad azioni del genere. Quest’ultimo punto non merita di essere affrontato, sia perché ne abbiamo parlato molte volte, sia perché pensiamo ormai sia chiara la possibilità che hanno questi mezzi d’informazione di recuperare e rimacinare tutto quello che accade ad uso e consumo del potere. Scadenza esterna, massa e pubblicizzazione sono quindi tre elementi che dovrebbero essere sottoposti ad un serio dibattito critico da parte del movimento, nell’ottica dell’internazionalismo rivoluzionario.
Manifestazioni di massa potrebbero altrettanto bene essere organizzate contro questi centri reali del potere, risultando non meno (se non di più) efficaci. Solo che questi centri reali dovrebbero essere individuati e ciò riporta il discorso alle effettive possibilità del movimento rivoluzionario di avere le necessarie informazioni. Ma queste informazioni non vengono regalate da nessuno, devono essere espropriate, cioè sottratte, rubate, violentemente prese a quegli organismi che le tutelano e le difendono con ferocia proprio perché consci della loro grande importanza. Quanto è invece più facile leggere semplicemente il giornale e apprendere che il giorno tale, nel tale paese, c’è la tale manifestazione? Si fa prima, si corre allora all’appuntamento, qualcosa a metà tra gita in campagna ed esercitazione sado-masochista per ragazzi muscolosi, incerti tra l’essere boy-scout o hooligan. In alcuni paesi, come l’Inghilterra, ad esempio, queste occasioni sono momenti molto ricercati per dare sfogo a quello che potrebbe essere definito lo sport nazionale più recente e praticato, cioè fare a botte con la polizia. Questa mentalità è equamente condivisa anche dai cop inglesi, armati quasi sempre solo da pesanti randelli di caucciù, i quali reagiscono con furiosi ma, in fondo, abbastanza corretti, corpo a corpo agli assalti condotti dal movimento inglese con spirito sportivo tipicamente anglosassone.
Ecco, non diciamo che non si verificano anche altre cose, o che non esiste anche un’altra mentalità e ciò sia altrove che nella stessa Gran Bretagna, diciamo che la prima mentalità è decisamente prevalente.
Comunque, qualora queste manifestazioni di massa dovessero risultare poco appetibili se condotte nei confronti dei centri effettivi delle decisioni di potere, o essere considerate cose troppo pericolose (quei centri sono sempre protetti e con sistemi e metodi molto più brutali e immediati di quanto non accada nelle occasioni delle grandi assise del potere dove la protezione è in massima parte fatta per colpire l’immaginazione delle grandi masse), allora si può sempre ripiegare sulle azioni minoritarie, propedeutiche o meno ad eventuali future azioni di massa. Considerare questa decisione uno sganciamento dalle masse, una classica fuga in avanti, ci pare veramente eccessivo. La realtà sta davanti al naso di tutti, occorre saperla cogliere attraverso le opportune documentazioni, questo è certamente difficile, ma non è impossibile. Dal momento in cui queste documentazioni si possiedono sorge il problema se decidersi per un coinvolgimento di massa nell’azione di disturbo, o di attacco, o distruttiva, o semplicemente di denuncia – qui non facciamo questioni in questo senso – in caso contrario resta sempre la possibilità di un’azione minoritaria.
Una volta si affrontava il problema del vecchio rapporto – tipico anni 70 – tra la situazione dei paesi più diseredati, sottosviluppati e in miseria, e le grandi metropoli dove si intendeva scatenare una lotta di sostegno ad opera del movimento e del (possibile) proletariato metropolitano. Allora si pensava di “trasportare” il “terzo mondo” nella metropoli. Non è questo il luogo per accennare alle lunghe e tragiche conseguenze di questo “guevarismo” di rimessa che per fortuna è cessato. Solo che, messo in cantina, a chiare lettere – nel senso di affermare apertamente, anche da parte dei sostenitori di ieri, che non si vuole ciò – non si è sentito il bisogno di proporre qualcosa di diverso. In sostanza si è detto: quello che si faceva una volta era praticamente un’illusione, non è andato avanti, anzi è stato una delle cause del fallimento delle grandi organizzazioni chiuse di carattere armato, come ad esempio RAF o BR, non bisogna più fare in questo modo. Ma qual è l’alternativa che viene indicata? Nessuna in senso specifico. Non è stato seriamente approfondito il problema del rapporto tra lotte nelle metropoli, o comunque nei paesi avanzati, e situazioni dei paesi più poveri, sottosviluppati, terzomondisti, ecc.
Internazionalismo va bene. Ma quale? Quello delle vecchie “brigate” che prendevano armi e bagagli e si trasferivano nei paesi dove era in corso una lotta più avanzata fra le classi, per dare il loro contributo in senso rivoluzionario? Oppure quello del guevarismo di rimessa? Oppure quello del sostegno platonico fondato sulla denuncia e sul dissenso? Oppure il boicottaggio, il sabotaggio, l’attacco diretto contro gli interessi periferici del capitale internazionale nelle sue forme più coinvolte in questa o quella zona del mondo che si pone alla nostra attenzione? Una risposta non è facile. Se non altro sul piano dei possibili effetti.
Prendiamo il caso del Sudafrica [1988], di Israele, del dominio inglese in Irlanda del Nord o di quello spagnolo nei paesi Baschi. Prendiamo il caso della Francia in Corsica o in Nuova Caledonia, dell’URSS nei vari paesi satelliti e così via. Il capitale internazionale è interessato a queste situazioni. Non solo la Shell in Sudafrica, ma gli interessi ebraici negli USA o quelli dei grandi paesi industriali nelle recenti prospettive gorbacioviane in URSS [1988]. Attaccare è sempre possibile, ma come evitare che l’attacco medesimo si trasformi in platonico dissenso, per cui si finisce per non vedere differenza tra l’effettiva distruzione di certi interessi, sia pure periferici, e la manifestazione di un’opinione discordante? Il problema non è affatto semplice.
Dobbiamo qui dare per scontata la capacità di tanti compagni di capire che la strada delle grandi manifestazioni di massa, a livello più o meno d’opinione, è ormai bloccata. Montalto di Castro e Comiso, sono finiti, perché è finita un’era del capitale e delle sue capacità di risistemare il dominio. Ciò comporta la necessità di rivedere le strategie di una crescita quantitativa che se era accettabile, se non altro in termini di illusione ideologica, per gli schieramenti che si richiamavano al pensiero marxista (più o meno rivisitato), era certo contraddittoria per gli anarchici. Si possono ripresentare “occasioni” di lotta di massa, occasioni che occorrerà sfruttare per condurle verso uno sbocco più o meno coscientemente insurrezionale, ma non possiamo pensare ancora di impostare, a priori, un lavoro nella sola ottica di uno sbocco del genere. Se questo si presenterà, forse, lo sapremo sfruttare, ma la realtà sta andando verso altre forme di ristrutturazione e quindi “pretende” altre forme di intervento rivoluzionario.
Pensiamo che queste forme non siano tanto “nuove” nella loro fattispecie esteriore, quanto lo siano nella prospettiva in cui vogliamo usarle. Ad esempio la condanna a priori di interventi minoritari, ritenuti troppo “avanguardistici’” ci sembra un luogo comune della più tarda retorica del rivoluzionarismo di massa. Andava bene, impostata in questi termini, in epoche in cui ci si illudeva di potere smuovere, in tempi brevi, le grandi masse, sul modello in base al quale queste venivano mosse dai partiti della sinistra e dai sindacati in vista di obiettivi diversi. Ci si illuse, in un’epoca non remota ma che adesso pare mille anni lontana, che bastava modificare le motivazioni perché la gente si muovesse come fatto ineluttabile, quasi deterministicamente necessario. Oggi bisogna intendersi. Dobbiamo muoverci, ora, non domani, quando saranno cambiate le prospettive del movimento, e anche il capitale avrà aggiustato i termini della sua azione. E muoversi oggi significa attaccare. Quello che manca non sono tanto le “masse”, quanto le documentazioni. In questo senso, riteniamo, si debba lavorare ancora molto.
[Pubblicato su “Anarchismo” n. 62, dicembre 1988]