Per una pratica di situazione… abbasso l’astensionismo!

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Cari compagni,

è con forte emozione che stiamo assistendo alla fin troppo rinviata messa in discussione di metodi e prospettive in uso da tempo immemore all’interno del movimento anarchico, e che ormai emanano un fetore di chiuso e di stantio. Pratiche e linguaggi considerati consolidati, come quelli legati all’azione individuale, vengono messi da parte per via della loro inanità. E ben altre pratiche e altri linguaggi – un tempo inaccettabili per il loro significato – sono finalmente accolti in virtù delle loro attuali potenzialità di successo pratico. La cosa sta destando un certo scalpore, del resto prevedibile, solo fra i soliti pochi marginali tetragoni ad ogni cambiamento. Ovviamente il censimento di coloro che amano barricarsi nella propria torre d’avorio per non farsi sfiorare dagli spifferi della realtà non è molto utile… ma il vostro atteggiamento ha ben altra portata.

È un attacco a dogmi e tabù. State quindi agendo da sovversivi coscienti e strategici, nauseati dai regolamenti disciplinari e desiderosi di scuotere l’ammuffito movimento. Bravi.

Il movimento anarchico, se non vuole ridursi a essere sterile espressione di una Idea ma dare impulso all’agitazione pratica, non può accontentarsi di esistere. Deve fare. In tutte le situazioni di conflittualità che si stanno aprendo, deve perciò non semplicemente essere, ma esserci. La differenza fra i due termini è basilare. Il primo esprime una staticità individuale destinata all’invecchiamento, il secondo un moto collettivo indice di gioventù selvaggia. Il grande errore storico del movimento anarchico è sempre stato quello di trascurare l’aspetto strategico della lotta sociale, l’unico che conti veramente in una guerra, limitandosi a fare da guardia a quello ideologico. Ma a cosa serve essere coerenti con le proprie idee se queste non possono mai venire praticate?
Oggi si comincia finalmente a capire che le idee non sono àncore pesanti ed arrugginite, buone solo ad immobilizzare. Sono piuttosto delle vele, agili e leggere, da issare o abbassare in base al vento che tira. Puri strumenti da usare solo finché non si deteriorano. Dopo di che, meglio buttarle e cercarne di nuove e più efficienti. È questa la grande intuizione che finalmente si sta diffondendo.
Prendiamo il concetto stesso di anarchia. È chiaro che, al di fuori degli antiautoritari, nessuno intende sentir parlare di anarchia come scopo da realizzare, essendo una parola che evoca per lo più caos e disordine. Perché attardarsi nella difesa affettiva di un concetto desueto, incompreso, e quindi praticamente inutile? Se si vogliono attrarre più persone possibile, se si vuole fare comunità – giacché è inutile nascondere che il favore della massa è condizione preliminare ad ogni rivoluzione – va da sé che è meglio accantonare un linguaggio troppo spiccatamente anarchico. Al massimo si potrebbe calibrarlo a seconda delle circostanze. Se si vogliono attrarre cittadini indignati, meglio conquistarne la stima e la fiducia a suon di critiche al «denaro pubblico che finisce nelle tasche dei privati» o alle grandi opere considerate «illegittime». Concetti che non urtano di certo la loro sensibilità, in quanto già parte del loro immaginario. Se viceversa è sulla teppa che si vuole fare colpo, allora si potranno anche esaltare le barricate in fiamme, i passamontagna calati sul volto e decantare lo scatenamento del riot. È vieppiù indispensabile abbandonare la vecchia e stupida idea della coerenza, della consequenzialità, del nesso fra mezzi e fini. Detto in altre parole, l’importante è capire che non esiste una propria strada lineare da percorrere; i campi di battaglia vanno attraversati.
Finché si andrà alla ricerca di compagni affini, distribuendo il biglietto da visita delle proprie idee anarchiche, si rischierà sempre di restare bloccati in un isolamento impotente. Spezzare questa marginalità ineffettuale è più facile di quanto sembra: basta mettersi in gioco, mettersi in movimento, sporcarsi le mani… cercare e coltivare le amicizie politiche giuste. Che farsene della purezza quando si è ridotti alla solitudine? Meglio la comunanza, a costo di infrangere qualche tabù.
E sono molti i tabù caduti nel corso degli ultimi anni. Molti, ma ancora troppo pochi. Certo, la persecuzione contro chi collabora con forze riformiste se dio vuole è finita. Organizzare iniziative comuni con rivoluzionari autoritari è diventata prassi abituale. I migliori uomini di Chiesa sono i benvenuti. Persino fra i giornalisti si è saputo distinguere fra manipolatori da evitare ed informatori da corteggiare. Passi da gigante. Ma non basta. Una volta preso lo slancio, dobbiamo avere il coraggio di andare fino in fondo.
Facciamo un esempio. L’astensionismo individuale, espressione di disgusto, è senz’altro comprensibile. Ma l’astensionismo eretto a dogma, imposto ideologicamente, è la capitolazione. La formula di passività diventa qui come altrove un paravento dietro cui si nascondono tutte le vigliaccherie e tutte le impotenze. L’astensione diventa un’azione, diventa la azione. «Sei rivoluzionario? – Sì, mi astengo dal votare». Tutto ciò è ridicolo. Se gli uomini e le donne che vogliono trasformare l’attuale sistema sociale intendono costruire qualcosa di concreto, non devono più attardarsi con simili sottigliezze. Devono cercare dei mezzi pronti ed efficaci per evadere dall’odierno orrore; devono impiegare questi mezzi e dare un calcio ai vangeli dei pontefici dell’ortodossia, la cui sola preoccupazione è quella di vedere gli individui capitolare davanti ai loro dogmi.
Ora, sia che il sistema rappresentativo sparisca oppure no, è evidente che su un simile risultato l’astensione elettorale non ha la minima influenza. È ora che qualcuno abbia il coraggio di dirlo a voce alta. Negli Stati Uniti la frequentazione dei seggi elettorali da parte della popolazione è assai limitata, una delle più basse nel mondo, ma ciò non scalfisce affatto la stabilità di quel governo. Astenersi è quindi del tutto inutile. Malgrado ciò, c’è chi persiste a sostenere che per combattere la tara politica bisogna astenersi, non essere elettori né candidati; pur essendo ormai chiara l’idiozia di una simile tattica: un’analisi serena e approfondita del sistema parlamentare dimostra che questo esecrabile sistema deve essere attaccato non soltanto dall’esterno, ma anche e soprattutto dall’interno.
Il ragionamento è estremamente convincente nella sua linearità e semplicità: se la strategia dell’astensione si è sempre rivelata fallimentare, perché non cambiare metodo e battere l’altra strada, quella della partecipazione in massa alle elezioni?
Sappiamo bene che non sono mancati – e non mancheranno neanche in futuro – quei fedeli custodi del dogma che, libri di storia alla mano, vi faranno notare che la via delle elezioni è costellata da rinnegamenti e da insuccessi. Non fateci caso.
Inoltre, per dirla tutta, una volta presa la rincorsa non resta che lanciarsi. Affermare la legittimità del voto va bene, ma è ancora poco. Perché non sostenere apertamente la possibilità, anzi la necessità di candidarsi alle elezioni? Guardiamo i municipalisti libertari. Loro sì che si comportano da uomini liberi, senza pregiudizi. Loro vogliono prendersi tutto, vogliono organizzare, gestire, controllare tutto. E per ottenere questo risultato indubbiamente rivoluzionario, propongono la partecipazione diretta alle elezioni, la candidatura di uomini e donne dotati di una sensibilità antigerarchica che si buttino nella mischia per riuscire a strappare i posti chiave dell’amministrazione comunale.
Vi sembra una impresa impossibile? No, si può fare! Basti pensare che proprio in questi giorni, in Francia, si sono tenute le elezioni municipali. E sapete, nel minuscolo villaggio di Tarnac, chi si è candidato ed ha vinto? Due di quei sovversivi arrestati nel novembre 2008 con l’accusa di aver sabotato la linea dell’Alta Velocità! Il fatto che essi simpatizzino più per Blanqui che per Bakunin è irrilevante. Ciò che è meraviglioso ed esemplare è la loro capacità di sfidare ogni limite. Lo stesso rivoluzionario che all’indomani del suo arresto non aveva esitato a definirsi un semplice «épicier» con la passione storica per le rivoluzioni, oggi – nella sua veste di «commerciante», ex studente di amministrazione e diritto pubblico, con all’attivo esperienze professionali nelle istituzioni nazionali ed europee – si è unito alla lista «Tarnac, un avvenire comune!». Ed è stato eletto! Assieme ad un’altra sua coimputata («professoressa di musica, delegata dei genitori degli alunni») nell’affaire di Tarnac.
Perché non avrebbero dovuto tentare questa esperienza? Solo perché li si sospetta di essere fra gli autori di un libretto in cui si irride la democrazia e la sinistra, e si incita all’insurrezione? Facciamola finita una volta per tutte con il ricatto della coerenza. E poi, chi lo dice che l’insurrezione non necessiti anche di un riconoscimento esterno, di elezioni e di eletti? Ciò che conta, in fondo, sono le buone intenzioni. Non ci sono dubbi che questi due “sovversivi” contribuiranno a gestire bene il Comune di Tarnac, anche se non è la Comune, spendendo bene i 617.000 euro di fondi ad esso destinati ogni anno.
E se l’entrismo istituzionale ha funzionato nel piccolo, perché non provarci più in grande? Perché non puntare al Parlamento Europeo? Nel mese di maggio ci saranno le elezioni ed è già iniziata la campagna elettorale. Hanno fatto bene, benissimo, i due noti attivisti NoTav valsusini — Nicoletta Dosio e Gigi Richetto  — a candidarsi con la lista di Tsipras. Le lotte si fanno dal basso, lo sanno tutti, ma è innegabile che si aiutino meglio stando in alto. E non sono i soli ad aver saltato il fosso. Se il droghiere di Tarnac è stato eletto, perchè non dovrebbe riuscirci anche la Partita Iva di Venezia? Bene ha fatto quindi anche l’ex leader delle Tute Bianche, Luca Casarini, a candidarsi con Tsipras. Il Parlamento Europeo non è riformabile, non è riverniciabile, ma basta che un partigiano del conflitto sociale vi metta un piede dentro per «aprirlo come una scatola di tonno».
Sappiamo bene che tutti coloro che non vogliono più perdersi dietro a fantasticherie ineffettuali si ritrovano a percorrere un cammino pieno, da tutti i lati, degli ostacoli frapposti dai partigiani del dogma astensionista, una tara che non si manifesta solo in campo elettorale. Agli anarchici dogmatici che invitano tutti a «non partecipare», bisogna imparare a rispondere a tono: «se non partecipiamo finirà che gestiranno tutto loro, allora molto meglio metterci la faccia e partecipare».
Prendiamo ad esempio l’antimilitarismo. Quali sono in questo campo le proposte fino ad ora sentite e sulla cui inefficacia non c’è nemmeno da spendere una parola? L’obiezione, dirà uno. La diserzione, dirà un altro. La renitenza, dirà un terzo. L’astensione, sempre e dovunque l’astensione. E se invece ci decidessimo a entrare anche noi nell’esercito, a mettere le mani in pasta per trasformarlo? Dei soldati o degli ufficiali anarchici potranno essere molto più utili all’antimilitarismo di quanto non lo siano degli sparuti e disarmati antimilitaristi astensionisti. Se si dovesse mai arrivare ad una guerra, chi si potrà adoperare di più per evitarla, chi avrà più voce in capitolo: un obiettore totale, coerente ma isolato, o un generale anarchico che sia all’altezza della situazione?
E la polizia, e la magistratura? Riusciremo a sconfiggere questi abomini solo restando le eterne vittime dei loro soprusi, o prendendo parte attiva alle loro vicissitudini? Ma riflettete, compagni, quale migliore garanzia per una giustizia giusta di un magistrato anarchico? Quale miglior modo per evitare la brutalità poliziesca se il reclutamento dei tutori dell’ordine avvenisse fra uomini e donne di indiscussa rettitudine morale quali si sono sempre dimostrati gli anarchici?
Auspichiamo che il dogma dell’astensionismo, fonte di millenaria impotenza, decada per sempre e che la libera azione degli anarchici, infine scevri da pregiudizi e tabù, riesca a compiere ciò che è stato più volte inutilmente tentato: un cataclisma sociale, un reale cambiamento della vita di tutti. E siamo certi che la condizione indispensabile perché ciò accada non sia soltanto l’abbandono di ogni velleità nichilistico-distruttiva, cara a un certo anarchismo passatista, infantile e autolesionista, ma anche e soprattutto l’entusiastica adesione al realismo politico il quale sembra davvero avere le carte in regola per dare una svolta epocale al nostro movimento.
Forza e coraggio a tutti/e
[27/3/2014]
http://finimondo.org/node/1381

3 thoughts on “Per una pratica di situazione… abbasso l’astensionismo!”

  1. Questo scritto a mio vedere è irricevibile sotto vari punti di vista. Innanzi tutto mi pare che nasca dalla frustrazione di chi, viste le difficoltà ed i pericoli che affronta ogni “ribelle”, cerchi una strada più sicura e perché no, più socialmente accettata. Mi viene da rilevare di come gli organi istituzionali siano intrisi di tutto ciò che personalmente rifuggo, e che giocare con le carte del nemico non può che portare ad una sconfitta inevitabile nonché a fare una figura grama.
    Accettare di partecipare all’istituzione vuol dire scendere necessariamente a patti con la gerarchia, che è insita nel meccanismo di rappresentanza, nonché a perpetrare il concetto che la delega è l’unica possibilità alla quale affidare il proprio riscatto. Già nel passato remoto dell’anarchismo abbiamo assistito a compagni che prima sono stati possibilisti riguardo alla delega, per poi finire addirittura in parlamento (Andrea Costa, Saverio Merlino) e tutto ciò a cosa è servito? Ma forse mi si dirà che non erano sinceri rivoluzionari. E sia, torniamo all’oggi. L’accettazione del ruolo istituzionale impone che ci si ponga al di sopra del comune elettore, i privilegi sono insiti nel mestiere di governanti, non c’è scelta, con il ruolo di gestore della cosa pubblica si accettano anche i privilegi che chi ha immaginato e creato la struttura ha riservato per sé e per i suoi successori. Una pistola è fatta per sparare e anche se si prova ad usare come ferma carte prima o poi sparerà, l’istituzione è fatta per governare e la sua struttura ha in sé tutti gli anticorpi necessari per disinnescare ogni possibilità di scardinamento dall’interno. Pare così strano che per fuggire dalle manette si decida di mettersele volontariamente…ma questo, credo, fa certo parte dei risultati che la macchina del consenso e della repressione esercitano su certi individui. Oltretutto l’accettazione del gioco istituzionale prevede la mediazione ed il compromesso come motore della gestione dell’esistente, con il risultato o di un immobilismo istituzionale in caso di muro contro muro, o di una soluzione condivisa e quindi sicuramente priva di una qualsiasi spinta rinnovatrice. Rammento che l’istituzione nasce come istituzione borghese, come argine del diritto di nascita, del diritto nobiliare, contro quello dei produttori della nascente borghesia; l’istituzione è quindi da sempre uno strumento di classe che si esercita sulle spalle della massa, che spesso, più schifosa e stupida di quanto ci si possa figurare, accetta di portarlo a testa china. Cedere alla frustrazione è umano ma le proprie debolezze non andrebbero giustificate con pretese di rinnovamento ideologico. In un momento come questo, dove ci troviamo isolati, attaccati, repressi, certe volte uccisi, una posizione dimessa come questa non serve che a dare ragione alle azioni del nemico. Chi non si sente di lottare si faccia da parte.Questo scritto a mio vedere è irricevibile sotto vari punti di vista

    1. Mah, a me sembra un testo ironico e provocatorio. Ma tu davvero credi che dicano sul serio?

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