Alle Origini del Potere (it/fr)

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Aviv Etrebilal
«Non amo i popoli, amo solo i miei amici»
Hannah Arendt
Un mito è un racconto che si ritiene esplicativo e soprattutto fondatore di una pratica sociale comune. Può essere portato originariamente da una tradizione orale, che propone una spiegazione per certi aspetti fondamentali del mondo e della società che ha forgiato o che veicola detti miti, può anche essere costruito di sana pianta da gruppi che hanno la ferma intenzione di servirsene per i propri fini. Il mito è fondatore per definizione. Fonda religioni, nazioni, popoli, identità.

Partiamo qui dall’evidenza che il mito, come la religione, è uno strumento d’oppressione e di auto-oppressione, di servitù a false utopie, utile solo a minoranze – o anche a maggioranze nell’ambito di un democraticismo utopico – per consolidare il loro dominio sulla base di un’adesione ben accetta. Il fatto di governare è inseparabile dal mito e dalla creazione di un immaginario, e l’analisi materialista della storia di un Marx per esempio, che nella storia umana vuol vedere solo rapporti economici laddove ci sono sogni, credenze, miti e ideologie, appare superficiale se si considera, più che le quotazioni del grano, la storia delle idee e dei rapporti fra individui e gruppi di individui.
Si possono fare numerosi esempi. I sistemi totalitari moderni più brutali e assolutisti, come quelli diffusi nella prima metà dello scorso secolo (nazismo, fascismi, etc.), erano tutti basati su un immaginario ed una base di comuni credenze differenti: l’esistenza di divisioni razziali in seno all’umanità accompagnata da una gerarchia fra di esse, la necessità di un superuomo per guidare il gregge dei deboli, la volontà di ritornare a una forma mitica priva di ogni esistenza reale (la romanità, la Grande Germania, etc.) o ancora la negazione delle differenze fra individui che conduce ad una forzata unità sotto forma di una massa immaginata come tendente alla totalità e altri miti fondatori.
La nazione stessa, per la quale il sangue non ha mai cessato di essere versato in nome di interessi che non sono quelli degli individui, non è altro che il prodotto di un immaginario utilitarista e un assemblaggio di miti sparsi. I creatori di nazionalismi sono talvolta disposti ad ammetterlo loro stessi, fino a farne la propria forza. In effetti, è innegabile che non c’è nazionalismo che non si fondi su miti e visioni erronee della storia. La Nazione è un concetto vicino a quello di Popolo, che a sua volta è un concetto mobilitante basato su interpretazioni semplicistiche della storia. La nazione come il popolo si ritiene che ricoprano la pseudo-realtà di una comunità umana identificata entro dei confini geografici (talvolta fluttuanti nel corso della storia), ma il cui presunto tratto comune è la coscienza di un’appartenenza allo stesso gruppo. Ma in fondo, quale appartenenza comune esiste fra piccardi, celti e germani dei secoli passati, integrati più o meno forzatamente nella gogna dell’assai concettuale nazione francese e del suo Stato? Nessuna, se non un’umanità non meno differente da quella dell’aborigena Australia. È quindi a partire dal mito che si possono forgiare nei sogni concetti come Nazione o Popolo. Di fatto apparteniamo a una nazione come apparteniamo a una religione, si è francesi o tedeschi come si è cattolici o musulmani, ovvero grazie all’addomesticamento civilizzatore. Nulla nei nostri geni ci collega a un popolo, a una terra o ad una nazione. Come scriveva Rocker nel 1937 nel suo Nazionalismo e cultura, non esiste Stato che non consista in un gruppo di popolazioni diverse che in origine erano di differenti discendenze e differenti lingue, forgiate insieme in nazione unica soltanto da interessi dinastici, economici e politici.
Il bisogno del mito è costante nella storia dell’umanità, è intrinseco in tutte le dinamiche di potere e di gestione delle popolazioni, in altre parole, nella politica. Non ci sarebbe nessun bisogno di politica se l’uomo non provasse il bisogno universale e tellurico di raggrupparsi, ma come governare degli uomini senza stabilirne i criteri di raggruppamento? Di fatto, in questo mondo gli individui non si scelgono gli uni con gli altri, non si associano ma vengono associati. Ciò significa che essi non hanno alcun potere sui criteri ritenuti in grado di radunarli fra di loro e raggrupparli attorno ad una nazione, un paese, un popolo o tra le frontiere prestabilite di uno Stato. E se in quanto individuo posso sentirmi più vicino ad un individuo “Quechua” del Perù che a un mio fratello biologico, non sono comunque io a scegliere quello che sono agli occhi del potere: la mia carta di identità attesta che sono francese, che i miei occhi sono di tale colore e che a mia madre si sono rotte le acque in quell’angolo del globo, ed è questo che mi definisce, non la mia creatività, non le mie idee, non il mio modo di vivere e di amare. Quando si espelle una persona che ha attraversato una frontiera senza le autorizzazioni necessarie, se gli accordi diplomatici fra Stati lo permettono, viene rimandata nel suo paese. I poliziotti, giudici e altri prefetti che eseguono tale ordine nei diversi anelli della catena del comando non si pongono la domanda di sapere se l’individuo in questione (che non è di fatto un individuo, ma una particella di una unità più vasta, come un paese) identifichi quel paese come il suo. Non è in discussione se egli vi abbia già vissuto indipendentemente dalla nascita o da un timbro in un ufficio, se il suo cuore abiti accanto ad un essere caro che è qui o altrove non rientra nemmeno nell’equazione, poiché la sua identità geografica è forgiata da un timbro e non dal luogo in cui il suo cuore ha scelto di gettare l’ancora.
Il raggruppamento in un mondo in cui la vita in comune è basata sul principio di autorità è esattamente questo: l’assenza di scelta, il predominio della ragione di Stato sulle ragioni del cuore. La libertà è quindi bandita dalle forme di associazione che ci vengono imposte ancor prima di essere in grado di fare le nostre scelte. E se non possiedo il carburante della vita soggetta alla dominazione, il denaro, non potrò mai rinunciare del tutto a questo sistema di dominio, esso stesso basato in buona parte sul denaro.
«Se un’unione si è cristallizzata in una società, ha cessato di essere un’unione, perché l’unione è un riunirsi incessante; l’unione diventata un essere-già-riuniti, stabilizzatasi […] è il cadavere dell’unione, cioè è – una società, una comunità»
Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà, 1845
Perché quindi siamo raggruppati, parcheggiati all’interno di categorie immaginarie come la nazione, lo stato, il popolo o l’etnia? Perché, per governare, occorre sapere chi si governa, occorre delimitare i contorni di un “dominion” da governare, e bisogna ben trovare dei criteri geografici per delimitare e creare una mitologia in grado di assicurare la coesione di questi criteri geografici per forza di cose irrazionali. Qui, il mito gioca il suo ruolo mobilitante che crea adesione, giacché è più facile aderire a una forma di dominio quando essa si traveste col velo del mito che quando il ferro rutilante della sua spada si mostra così com’è. La forza metafisica del mito si esprime nel fatto che provoca ben più della semplice accettazione, provoca l’adesione e anche l’entusiasmo fino al sacrificio; le guerre fra nazioni, etnie e religioni attraverso il mondo e la storia lo testimoniano.
Abbiamo dunque visto che, per dominare, bisogna poter raggruppare e che per raggruppare occorre un mito. Le dittature più fredde che non si sono minimamente agghindate col velo mitico non sono mai durate. Ad ogni forma di Stato occorre una forma di religiosità per durare, una giustificazione ontologica spiritualizzata, giacché la pura violenza può essere efficace solo per un periodo, fino a quando l’intollerabilità di questa vita esplode in faccia al potere; il mito serve appunto a rendere sopportabile la vita sotto il dominio. Avere una religione, una comunità, una ideologia e altri artifici per renderci comuni piuttosto che unici, permette di dare un senso accomodante e confortevole alla propria vita, permette di ripulirla da ogni singolarità, come una maniera vile di scongiurare l’assurdità del mondo e della vita, che preferiamo impaurita e messa in sicurezza piuttosto che libera e azzardata. Da tutti i lati dello spettro del dominio, dalla sinistra alla destra del potere, i dominatori hanno interesse a sviluppare questi meccanismi di appartenenza immaginaria, talvolta persino fino a farli diventare pericolosi per il potere in carica. Si tratta di ridurre gli effetti distruttivi e smobilitanti della guerra permanente che impone necessariamente la forma statale.
George Sorel, grande teorico del sindacalismo rivoluzionario, principale introduttore del marxismo in Francia e noto proto-fascista, teorizzava l’importanza del mito in politica e il suo ruolo mobilitante, senza il quale nessuna conquista di potere stabile è possibile. Sceglierà di sviluppare il mito dello sciopero generale, consapevole (per sua stessa ammissione) che questo non avverrà mai, giacché poco importa in fondo che accada o meno, non è questo lo scopo, il fine autentico di questa strategia non è in realtà lo sciopero generale, ma la mobilitazione di una massa acritica di credenti pronti a sacrificarsi per raggiungere gli obiettivi da lui scelti.
Non è che la forma più basilare della manipolazione delle folle, in altre parole, la politica. In altre parole ancora, ciò si chiama prendere le persone per coglioni, cosa efficace se ci si attiene alla storia. Il ruolo mobilitante del mito in Sorel – in particolare quello dello sciopero generale – e la funzione anti-integratrice e rigeneratrice della violenza aveva come solo scopo quello della presa del potere al posto del potere in carica.
Il fascismo francese, così come fu definito da Sternhell e che ispirerà presto il differente fascismo italiano, il quale sì arriverà al potere, fu una delle prime teorie moderne ad ammettere freddamente che la creazione del mito non è di fatto che una mossa tattica in cui si può certo finire per credere, ma il cui solo scopo è mobilitare le truppe per la conquista ed il mantenimento del potere. Si imprigiona, si uccide, si mutila, si mente, si domina, ma ciò è accettabile, perché è per una ragione superiore, quella stessa ragione che trasforma questa vita da cani in una vita accettabile; o, almeno, più accettabile dell’assurdità della creatività totale e dell’abbandono di ogni modello predefinito. È così che, per mezzo di un «contratto sociale», si finisce per affidare il controllo della propria vita ad uno Stato, il proprio corpo ad un padrone, la propria salute ad un medico, la propria responsabilità individuale a un giudice che ci giudicherà meglio di noi stessi.
Non esiste Contratto Sociale senza mito fondatore, e non vi è un solo sistema politico che non sia durato senza una mitologia sacrificale che assicura la sua sussistenza e l’adesione delle masse al suo calendario mortale. Senza unità, nessuna coesione sociale e, senza mito, nessuna coesione fra persone che a priori non hanno alcun interesse in comune. In effetti, quale poteva essere l’interesse comune fra il semplice soldato che è stato carne da cannone nelle trincee del grande massacro del 14-18 e il grosso industriale, se non quello – basato sulla polvere del mito – della nazione in pericolo? Come spiegare la Sacra Unione se non attraverso la forza metafisica e la miracolosa capacità mobilitante del mito? La Sacra Unione era il nome dato al movimento di riconciliazione politica che ha unito i francesi di ogni tendenza politica e religiosa e di tutte le classi durante lo scatenamento della Prima Guerra Mondiale. Il termine venne utilizzato per la prima volta alla Camera dei deputati il 4 agosto 1914, dal presidente Poincaré nel suo messaggio alle Assemblee. L’unione fu collaudata nei fatti immediatamente perché l’insieme delle organizzazioni sindacali e politiche di sinistra, essenzialmente la CGT e la SFIO, si allinearono al governo. Questa unanimità nazionale durò fino alla fine del conflitto, fatta eccezione per qualche dissidenza di sinistra o anarchica o per qualche troppo raro ma bellissimo ammutinamento di soldati delle due parti. Un movimento analogo si produsse nell’insieme delle parti belligeranti come in Inghilterra, in Russia o in Germania, quando il Partito socialista di Germania, il SPD, votò l’ingresso in guerra nell’agosto 1914, lanciando il movimento che prese il nome di Burgfrieden. La Sacra Unione confermerà le tesi fasciste di Sorel sul ruolo mobilitante del mito, in tal caso quello della nazione minacciata; e sulla funzione rigenerante della violenza, nello specifico la guerra e i suoi effetti rigeneranti sull’economia e sull’unione di diverse frange contro altre.
«Dobbiamo essere terribili per dispensare il popolo dall’esserlo»
Danton, discorso del 10 marzo 1793
Prendiamo la nota ideologia del contratto sociale, detta contrattualismo. Il contrattualismo è una corrente moderna della filosofia politica che pensa l’origine della società e dello Stato come un contratto originario fra gli uomini, attraverso il quale questi accettano una limitazione della propria libertà in cambio di leggi che garantiscano la perpetuazione di una data società. Il contratto sociale presuppone uno stato di natura con cui rompere, stato preesistente a qualsiasi società organizzata. Questo stato di natura non corrisponde affatto ad una realtà antecedente l’instaurazione delle leggi, ma allo stato teorico e ipotetico dell’umanità sottratta ad ogni legge presente nella mente di qualche teorico all’origine dei moderni modi di governare. Abbandonare questo stato di natura benché così ipotetico, se non bislacco, è la ragione invocata per giustificare il trasferimento del controllo di ogni individuo sulla propria vita a quello di una entità vasta e strutturata da un potere e da leggi, cioè allo Stato.
La teoria del contratto sociale, rompendo con il naturalismo politico dei filosofi classici (platonici e aristotelici), ha provocato l’emergere della nozione di uguaglianza politica, formale e materiale, mito fondatore di numerose forme di Stato attraverso gli ultimi secoli, dall’Urss alle attuali democrazie parlamentari e capitaliste, senza mai garantire in realtà una qualsivoglia uguaglianza, nemmeno una uguaglianza nella miseria.
Ponendosi in prima fila fra i pensatori della «scienza» giuridica e della filosofia di Stato, Grotius fu il primo nella storia della filosofia politica, nel XVII secolo, a teorizzare il contratto sociale moderno. Il contrattualismo sarà ripreso e discusso da Kant, Fichte ed Hegel, i quali tenteranno di riconciliare la «libertà originaria e radicale dell’uomo» (Hegel) con lo Stato e il riconoscimento sociale. Ma i pensatori che possono essere oggi identificati come i principali teorici del contrattualismo, all’origine del nostro modo di vita attuale, sono certamente Hobbes e Rousseau (ma anche Locke, in maniera meno importante).
Perché questa società? Perché la società? Perché vivere con uomini e donne con cui non si vuole necessariamente vivere, e perché sottomettersi a regole alle quali non si è scelto di sottomettersi? Tanti interrogativi che iniziano a malapena a tormentare un XVII secolo in piena crisi di significato. Ma di fronte a questi interrogativi ai quali di fatto è impossibile rispondere se si estromette consapevolmente la possibilità di un altro mondo costruito sulla libera associazione degli individui secondo i propri criteri e senza alcuna autorità al di sopra delle loro teste, di fronte a questi interrogativi che avrebbero potuto far sorgere risposte incendiarie, che avrebbero potuto lasciar posto ad una esplosione di creatività iconoclasta e all’abbandono di tutti i modelli del vecchio mondo, questi filosofi hanno costruito schemi rigidi, strutture ideologiche nelle quali era impossibile immaginare altra cosa senza essere immediatamente tacciati di anti-modernismo e di andare contro il senso di marcia dell’inevitabile Progresso. Attraverso queste strutture di potere, costoro hanno veicolato ciò che pensavano di dover porre al centro della società. Rousseau, che per schematizzare si distaccherà creando dopo di lui una specie di ala sinistra del contrattualismo, porrà al centro di questo contratto sociale l’uguaglianza, mentre Hobbes, precursore della destra moderna, privilegerà la sicurezza. Per i propri fini, i due preconizzeranno comunque di barattare una parte di libertà contro un po’ di uguaglianza per l’uno o di sicurezza per l’altro.
Entrambi partono quindi dal principio che la libertà è divisibile, che può frammentarsi in piccoli pezzi e che si può, come con un mercante di tappeti sull’agorà, barattare un piccolo pezzo di libertà contro un piccolo pezzo di qualcos’altro. La libertà è così vista come qualcosa di quantificabile, misurabile, sezionabile, parziale.
Questa visione della libertà è oggi al potere, negli emicicli come nella testa di ciascuno, che sia parlamentare, extraparlamentare o anche rivoluzionario, l’essere umano moderno frammenta la libertà in piccoli pezzi e la coniuga al plurale piuttosto che al singolare. Libertà di espressione, libertà di installazione, libertà di circolazione, libertà di lavorare, libertà di non lavorare e le diverse declinazioni giuridiche: diritti dell’uomo, diritto alla vita, diritti dell’infanzia, diritto alla casa, diritto al lavoro, diritto del lavoro, diritti degli animali, diritti delle donne, etc. E così si dà agli oppositori, siano essi più o meno rivoluzionari, un osso da rosicchiare, dei chiodi fissi da difendere in grado di garantire al potere che rimarranno nei confini prestabiliti dal potere e dalla legalità, nei confini di una lotta delimitata dalla borghesia e pattuita con lo Stato.
Quale potere vorrebbe veder nascere movimenti insurrezionali di massa che non rivendicano niente, che non gli domandano niente, nemmeno una briciola di libertà, che non vogliono nemmeno riconoscere la sua esistenza e cessano di dialogare con esso se non attraverso la distruzione?
Penso che la lotta contro ogni autorità cominci con l’affermazione dell’individuo come essere indivisibile e non sezionabile, come un’unità e non come una particella di unità che si può allineare nelle categorie del potere. Essa necessita di un pensiero e di una pratica iconoclasta in quanto deve avere come fine la distruzione di tutti i miti mobilitanti che permettono ai poteri di dividere l’umanità, di effettuare raggruppamenti autoritari secondo criteri – come gli Stati, le Nazioni, le etnie, le religioni, le ideologie – che non sono quelli dell’individuo. Questa lotta non deve accettare che si possa dividere la libertà in categorie separate e mercificate, la libertà non si coniuga, non si negozia, non si compra né si baratta, essa è totale e indivisibile oppure non è, come l’individuo. Citiamo ancora Stirner: «La libertà non può essere che tutta la libertà; un pezzo di libertà non è la libertà».
La lotta contro l’autorità è il rifiuto totale di ogni forma di gestione dell’essere umano, e quindi di ogni forma di politica. Bisognerà sbarazzarsi di tutti i miti fondatori per distruggere le fondamenta sociali e ritrovare una libertà che possa coniugarsi solo al singolare.
[scritto nel gennaio 2011, pubblicato ora da Ravage Editions]
http://www.finimondo.org/node/1150