Contro la scienza delle sommosse (it/fr) 2000

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Observatoire de téléologie
Non solo non è mai esistita una scienza delle sommosse, ma sembra proprio che, a meno di un’eccessiva deriva del concetto di sommossa, non possa esistere. Lo garantiscono i limiti della sommossa stessa. Poiché ciò che nega prima di tutto questo atto offensivo collettivo, è l’organizzazione. Se la mitica spontaneità della sommossa è un amalgama abbastanza grossolano, c’è sempre in questo genere di rivolta una immediatezza, un che di inatteso, una subitaneità che sfugge alla preparazione. Così come la rivolta si basa sull’incontro e sul piacere, essa si distingue per l’irrazionalità e l’imprevisto.

Uno dei cavalli di battaglia contro la democrazia era questa convinzione di Maurras che democrazia si contrapponesse ad organizzazione dato che ogni forma di organizzazione non era altro che un tentativo di compensare l’ineguaglianza, mentre l’uguaglianza era considerata il principio della democrazia. Ci sarebbe molto da ribattere al riguardo ed un’analogia fra democrazia e sommossa costituirebbe allo stesso modo un ampio argomento di disaccordo, ma pare proprio che ci sia comunque contraddizione fra sommossa e organizzazione. Poiché se la sommossa, che è di primo acchito rifiuto di tutto ciò che è, è in un primo tempo un tutto è possibile, tutto non può diventare realmente possibile se non viene concepito e progettato, e concepire e progettare sono precisamente il contrario di ciò che costituisce una sommossa. Se una sommossa venisse organizzata, perderebbe l’irrazionalità e l’imprevedibilità che la contraddistinguono; e lo si può verificare nel momento in cui gli insorti si organizzano. Se la loro organizzazione permette loro di durare, non è più una sommossa, è una insurrezione, e se questa organizzazione viene battuta sul terreno in cui si è costituita, essa servirà essenzialmente a recuperare l’imprevisto insorto che le sfugge ancora e a razionalizzare l’irrazionale. Una organizzazione di insorti è una contraddizione in termini e, del resto, non c’è mai stata una simile pretesa nel mondo.
Ovviamente ci sono i professionisti delle sommosse. Ma sono quelli che sono organizzati e pagati per combatterle, per farle cessare, per impedire il loro superamento nell’insurrezione: i poliziotti e i militari. Non ci possono essere professionisti che sostengono la sommossa perché la sommossa è già una sospensione di ogni professione, salvo quelle che la contrastano in modo particolare. In verità esiste una fascia intermedia fra insorti e professionisti della sommossa. Questi semi-professionisti sono quelli che vogliono dare alla sommossa uno scopo dall’esterno e non contribuire a farle trovare il proprio scopo all’esterno. Questa frangia intermedia va alla sommossa, vale a dire che vi arriva sempre in ritardo. Laddove la sommossa è una negazione della ragione, questa frangia intermedia fornisce delle ragioni alla sommossa. Questa fascia intermedia è composta da persone pagate per stare là, da professionisti, ma non dediti alle sole sommosse, gli informatori, e i militanti delle diverse ideologie rivoluzionarie. Per queste due categorie di partecipanti, non si tratta di comprendere la sommossa ma di spiegarla. Nel conflitto fra la sommossa ed il mondo si tratta di dare ragione al mondo, anche se spesso, per fare ciò, bisogna giustificare la sommossa. Ciò che differenzia principalmente gli informatori dai militanti è che i primi scelgono, il più delle volte, di posizionarsi nei ranghi degli altri professionisti della sommossa, mentre i secondi cercano di farsi passare per insorti, accanto agli insorti. È vero che lo scontro semplice e diretto qual è una sommossa è uno dei momenti del mondo in cui la neutralità ha meno spazio. Occorre scegliervi il proprio campo.
Gli informatori all’inizio vanno sul posto molto in fretta, a volte persino prima della sommossa, e si è anche visto la loro promessa di spettacolo generare delle sommosse. D’altro canto, cercano sovente di posizionarsi fra le linee, cosa che li fa finire sotto tiro da entrambi i campi. Le forze presunte o sedicenti degli insorti si dividono in quelle che si uniscono alla prima battaglia, e quelle che arrivano solo con la prospettiva di una seconda battaglia. Così come ci sono spesso informatori fin dalla prima battaglia, vi si trovano altrettanto frequentemente i militanti, in particolare quando i giornalisti annunciano la probabilità di una sommossa, ad esempio alla vigilia di certe manifestazioni. Quando sono presenti fin dall’inizio, a volte questi semi-professionisti dimenticano la ragione per cui si trovano là e si identificano con l’una o con l’altra parte. Ma il più delle volte è quando la sommossa riprende dopo una tregua (spesso il giorno dopo, dopo una pausa di riposo) che i militanti della sommossa cercano al contrario di guadagnare gli insorti alle loro motivazioni ideologiche. Nella seconda battaglia bisogna ancora distinguere fra quelli che sono stati chiamati dagli insorti, e quelli che arrivano solo perché hanno sentito parlare dell’avvenimento. Questi ultimi costituiscono gli autentici militanti della sommossa: spesso in battaglioni compatti, più vecchi degli insorti della prima battaglia, pretendono di mettere a profitto la loro esperienza; cercano di organizzare la sommossa; cercano di imporre i loro apriori ideologici nel dibattito nascente.
La questione delle forze degli insorti è un antico pomo della discordia nella sommossa moderna. L’informazione dominante ha spesso tentato di screditare una sommossa perché alcuni rinforzi, qualche «elemento esterno» sono comparsi, il che rende già pertinenti simili forze. D’altra parte, criticare questi arrivi esterni condanna la sommossa all’isolamento e nega la solidarietà di coloro che hanno interessi e gusti che la sommossa stessa mette in gioco. Indipendentemente dalla difficoltà pratica di respingere efficacemente, vale a dire combattendoli, questi sovrannumeri, è quasi impossibile per gli insorti, proprio perché non sono una unità organizzata, valutare coloro che arrivano. Ma quelli che vanno alla sommossa, senza essere invitati da chi c’è già, sono privi di ciò che costituisce la sommossa: una rabbia iniziale che fa vacillare la pace sociale e che costringe il nemico a combattere; l’intensità dell’istante in cui tutto diventa possibile; l’assenza di prospettiva che le permette tutte. Ad un punto tale che i rinforzi cacciano dalla sommossa ciò che vi è di più ricco: quel momento particolare in cui una offensiva comincia; la gioia, la rabbia, la libertà di un istante senza regole; le alternanze vertiginose tra panico e trionfo. Generalmente i rinforzi delle sommosse non apportano un cambiamento quantitativo del rapporto di forze; per contro, spesso fanno pendere il rapporto di forze qualitativo in favore del nemico. I militanti della sommossa sono soprattutto nemici della sommossa perché ne abbassano l’intensità sotto la soglia di un possibile illimitato.
La solidarietà con la sommossa è essere coinvolti dalla sua rabbia e dal suo gioco laddove ci si trova. La solidarietà ha luogo quando la sommossa va verso gli altri poveri e non quando gli altri poveri vanno verso la sommossa. Ma nemmeno là c’è qualcosa da preparare, né da organizzare. Ed è proprio questa congiunzione molto difficile tra sommossa e insorti che fa sì che gli insorti non possano essere che molto occasionali. Pochissimi insorti hanno partecipato a più di una sommossa nella loro vita; e chi ha partecipato a più di una decina di avvenimenti di questo tipo è verosimilmente un militante.
Così come organizzare una sommossa è una contraddizione in termini, una ideologia o una scienza della sommossa sarebbero in contraddizione con la sommossa. Perché la sommossa sfugge alla logica, sfugge alla scienza, e non può costituirsi in sistema. Pensare la sommossa, di conseguenza, si scontra con la ragione, così come la sommossa stessa si scontra con l’organizzazione. Nel momento di comunicazione imprevista e irrazionale della sommossa, si ritrova un vecchio paradosso dell’amore: parlarne, in un certo senso, significa dirne il contrario; e non parlarne, in un altro senso, significa distruggerne il possibile.
È perché la sommossa lascia intravedere oggi il più grande possibile che questo momento del discorso così contrario al discorso merita il discorso. La prospettiva della sommossa è immediatamente la totalità, perché non solo tutte le regole, ma tutto — la totalità — è messo in gioco. Ma mettere in gioco la totalità, prendere la totalità per oggetto pratico, significa concepire la totalità compiuta, realizzata, finita. È attraverso la grandezza della prospettiva nell’atto che contiene ogni verifica pratica che tutto ha una fine è presente nella sommossa moderna.
[trad. da OT, 2000]
http://www.finimondo.org/node/1204

Contre toute émeutologie

 

Non seulement il n’y a jamais eu d’émeutologie, mais il semble bien qu’à moins d’une dérive outrancière du concept d’émeute il ne puisse pas y en avoir. Les limites de l’émeute elle-même en sont le garant. Car ce que nie d’abord cet acte offensif collectif, c’est l’organisation. Si la mythique spontanéité de l’émeute est un amalgame assez grossier, il y a toujours, dans ce type de révolte, une immédiateté, un inattendu, une soudaineté qui échappent à la préparation. Comme c’est par la rencontre et le plaisir que l’émeute se fonde, c’est par l’irrationalité et l’imprévu qu’elle se distingue.
L’un des chevaux de bataille contre la démocratie était cette conviction de Maurras que démocratie s’opposait à organisation parce que toute forme d’organisation n’était qu’une tentative de compenser l’inégalité, alors que l’égalité était censée être le principe de la démocratie. Il y aurait beaucoup à répondre là-dessus et une analogie entre démocratie et émeute serait également un vaste sujet de désaccord, mais il semble bien qu’il y ait en tout cas contradiction entre émeute et organisation. Car si l’émeute, parce qu’elle est d’emblée refus de tout ce qui est, est d’abord un tout est possible, tout ne peut devenir réellement possible que conçu et projeté, et concevoir et projeter sont précisément le contraire de ce qui constitue une émeute. Si une émeute était organisée, elle aurait perdu l’irrationalité et l’imprévu qui la distinguent ; et on peut le vérifier dès que les émeutiers s’organisent. Si leur organisation leur permet de durer, ce n’est plus une émeute, c’est une insurrection, et si cette organisation est battue sur le terrain où elle s’est formée, elle servira essentiellement à récupérer l’imprévu émeutier qui lui échappe encore et à rationaliser l’irrationnel. Une organisation d’émeutiers est une contradiction dans les termes et, du reste, il n’y a jamais eu une telle prétention dans le monde.
Il y a, bien entendu, des professionnels de l’émeute. Mais ce sont ceux qui sont organisés et payés pour les combattre, pour les faire cesser, pour empêcher leur dépassement dans l’insurrection : policiers et militaires. Il ne peut y avoir de professionnels qui soutiennent l’émeute, puisque l’émeute est déjà une suspension de toute profession, sauf celles qui lui sont spécialement opposées. Il existe en vérité une couche intermédiaire entre émeutiers et professionnels de l’émeute. Ces semi-professionnels sont ceux qui veulent donner à l’émeute un but de l’extérieur et non pas contribuer à lui trouver son but à l’extérieur. Cette frange intermédiaire va à l’émeute, c’est-à-dire qu’elle y arrive toujours en retard. Alors que l’émeute est une négation de la raison, cette frange intermédiaire donne des raisons à l’émeute. Cette couche intermédiaire se compose de gens payés pour être là, des professionnels, mais pas affectés aux seules émeutes, les informateurs, et les militants des différentes idéologies révolutionnaires. Pour ces deux catégories de participants, il ne s’agit pas de comprendre l’émeute, mais de l’expliquer. Dans le conflit entre l’émeute et le monde, il s’agit de donner raison au monde, même s’il faut souvent, pour cela, justifier l’émeute. Ce qui différencie principalement les informateurs des militants, c’est que les premiers choisissent, le plus souvent, de se positionner dans les rangs des autres professionnels de l’émeute, alors que les seconds tentent de se faire passer pour des émeutiers, auprès des émeutiers. Il est vrai que l’affrontement direct et simple qu’est une émeute est un des moments du monde où la neutralité a le moins de marge. Il faut y choisir son camp.
Les informateurs sont, en principe, très rapidement sur place, parfois même avant l’émeute, et on a même vu leur promesse de spectacle provoquer des émeutes. Souvent, ils essaient d’ailleurs de se positionner entre les lignes, ce qui leur vaut d’être pris à partie par les deux camps. Les renforts présumés ou autoproclamés des émeutiers se divisent entre ceux qui rejoignent la première bataille, et ceux qui ne viennent que dans la perspective d’une seconde bataille. Comme il y a souvent des informateurs dès la première bataille, on y trouve aussi fréquemment des militants, notamment lorsque les journalistes annoncent la probabilité d’une émeute, par exemple au préalable de certaines manifestations. Lorsqu’ils sont présents au départ, ces semi-professionnels oublient parfois leur raison d’être là et s’identifient avec l’un ou l’autre camp. Mais c’est le plus souvent lorsque l’émeute reprend après une trêve (souvent le lendemain, après une pause de sommeil) que les militants de l’émeute essaient au contraire de gagner les émeutiers à leurs motivations idéologiques. Dans la deuxième bataille il faut encore distinguer entre ceux qui ont été appelés par les émeutiers, et ceux qui viennent parce qu’ils ont seulement entendu parler de l’événement. Ces derniers constituent les véritables militants de l’émeute : souvent en bataillons compacts, plus âgés que les émeutiers de la première bataille, ils prétendent faire profiter de leur expérience ; ils tentent d’organiser le combat ; ils tentent d’imposer leurs a priori d’idéologues dans le débat naissant.
La question des renforts des émeutiers est une vieille pomme de discorde dans l’émeute moderne. L’information dominante a souvent tenté de discréditer une émeute parce que des renforts, des “ éléments extérieurs ” y apparaissaient, ce qui déjà donne de la pertinence à ces renforts. D’autre part, critiquer ces arrivées extérieures condamne l’émeute à l’isolation et nie la solidarité de ceux qui ont des intérêts et des goûts que l’émeute elle-même met en jeu. Indépendamment de la difficulté pratique de refuser effectivement, c’est-à-dire en les combattant, ces surnuméraires, il est presque impossible pour les émeutiers, justement parce qu’ils ne sont pas une unité organisée, d’évaluer ceux qui arrivent. Mais ceux qui vont à l’émeute, sans y être invités par ceux qui y sont, y manquent de ce qui fait l’émeute : une colère initiale qui a fait basculer la paix sociale et qui force l’ennemi à combattre ; l’intensité de l’instant du tout est possible ; l’absence de perspectives qui les permettent toutes. Si bien que les renforts y cassent généralement ce qu’elle a de riche : ce moment singulier où une offensive commence ; la joie, la rage, la liberté d’un instant sans règles ; les alternances vertigineuses entre panique et triomphe. Les renforts des émeutes n’apportent pas, en général, un changement du rapport de force quantitatif ; par contre, ils font souvent basculer le rapport de force qualitatif en faveur de l’ennemi. Les militants de l’émeute sont surtout ennemis de l’émeute parce qu’ils en abaissent l’intensité sous le seuil d’un possible illimité.
La solidarité avec l’émeute, c’est d’être gagné par sa colère et son jeu là où l’on est. La solidarité a lieu quand l’émeute va vers les autres pauvres et non quand les autres pauvres vont vers l’émeute. Mais là non plus, il n’y a rien à préparer, à organiser. Et c’est justement cette conjonction très difficile entre émeute et émeutier qui fait que les émeutiers ne peuvent être que très occasionnels. Très peu d’émeutiers ont participé à plus d’une émeute dans leur vie ; et quelqu’un qui aurait participé à plus de dix événements de ce type serait vraisemblablement un militant.
De même qu’organiser l’émeute est une contradiction dans les termes, un émeutisme ou une émeutologie seraient en contradiction avec l’émeute. Parce que l’émeute échappe à la logique, elle échappe à la science, et ne peut se constituer en système. Penser l’émeute, par conséquent, se heurte à la raison, comme l’émeute elle-même se heurte à l’organisation. Dans le moment de communication imprévue et irrationnelle de l’émeute, on retrouve un vieux paradoxe de l’amour : en parler c’est, d’une certaine manière, en dire le contraire ; et ne pas en parler c’est, d’une autre manière, en détruire le possible.
C’est parce que l’émeute laisse entrevoir le possible le plus grand aujourd’hui que ce moment du discours si contraire au discours mérite le discours. La perspective de l’émeute est immédiatement la totalité, parce que non seulement toutes les règles, mais tout, la totalité, est en jeu. Mais mettre en jeu la totalité, prendre la totalité pour objet pratique, c’est concevoir la totalité achevée, réalisée, finie. C’est par la grandeur de la perspective dans l’acte qui contient toute vérification pratique que tout a une fin est présent dans l’émeute moderne.
[Observatoire de téléologie, texte de 2000]