Senza colpo ferire

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La non-violenza? Gran bella idea, quella resa celebre molti anni fa da Gandhi! Da allora in tutto il mondo sono risuonate le sue parole, che parlano dell’orrore della violenza e della felicità che attende gli uomini non appena si decideranno ad addomesticare le proprie passioni. Siccome la dottrina proviene da una delle terre più povere del mondo; siccome udendola si ha davanti agli occhi l’immagine del sant’uomo che, per mettere in pratica le proprie convinzioni, si spogliò di tutto e visse in totale frugalità; siccome non si può dimenticare che il suo autore, a causa delle idee che professava, fu arrestato dalle truppe del colonialismo britannico; siccome è noto che egli morì tragicamente da martire della verità — non si può fare a meno di emozionarsi intimamente al suo pensiero.

La lacrime riempiono gli occhi, ma il disgusto sale alla gola. Ecco un politicante figlio di politicanti dedito all’intrigo e all’opportunismo. Ecco un vecchio ipocrita che, dopo essere stato interventista guerrafondaio quando viveva in Inghilterra, si trasforma in pacifista non appena fa ritorno in India. Ecco un mistico fanatico che bramava per il proprio paese «la supremazia religiosa del mondo». La teoria lanciata da questo pontefice di tutte le castrazioni è il riassunto delle sue dottrine avvelenate. Non uccidere! Niente spargimenti di sangue! Nessuna violenza! Il bene finirà per trionfare sul male. Vale a dire: soffrite, accettate tutto, rassegnatevi alla volontà divina, pregate per coloro che vi perseguitano…
I seguaci del Mahatma s’indigneranno. A loro dire la non-violenza è una vera e propria tattica di lotta che ha dato prova della sua efficacia, in India, all’epoca dell’indipendenza dal dominio britannico. Eccolo qua, il mito fondativo che amano sbandierare per rendere più appetibile la loro dieta di rassegnazione. Il loro braccio potrà anche non ricorrere alla forza, ma la loro lingua di certo non rifugge la menzogna. Come ogni brava leggenda, anche l’acclamata vittoria del pacifismo in India si fonda sulla manipolazione. Nessun conflitto sociale presenta un’uniformità di metodi, in ogni contesto convivono azioni nonviolente e violente. È risaputo anche dai seguaci della non-violenza, che infatti sono costretti a cancellare dalla storia tutto ciò che mal si concilia coi loro precetti morali.
Volete sentire una favola? C’era una volta un paese estremamente povero, l’India, vessato dal colonialismo di Sua Maestà l’Inghilterra. Sebbene la sua popolazione subisse massacri e feroci repressioni, non amava ricorrere alla violenza poiché questa ripugnava alla sua indole sensibile. Sotto l’illuminata guida di Gandhi, essa preferì costruire un movimento non-violento di massa dedito ad azioni di protesta, di non-cooperazione, di boicottaggio, a scioperi della fame e ad atti di disobbedienza civile che finirono col mettere in crisi il dominio britannico. Alla fine il Bene vinse la sua battaglia contro il Male, e l’India conquistò senza colpo ferire la sua indipendenza.
Purtroppo la storia è assai meno nobile d’animo del mito. In realtà sono molti i fattori — fra cui anche le violente pressioni ricevute — che consigliarono al governo inglese di ritirarsi. L’Inghilterra non era più in grado di mantenere il controllo sulla sua colonia dopo le batoste riportate durante le due grandi guerre mondiali. Anche la lotta armata condotta sia da arabi che da ebrei in Palestina, dal 1945 al 1948, aveva contribuito ad indebolire l’Impero Britannico. E se gli echi di quella lotta fossero arrivati fino in India, cosa sarebbe successo? Ipotesi nient’affatto peregrina, se si considera che l’immagine non-violenta del movimento che si batté per l’indipendenza dell’India è del tutto selettiva e affetta da una certa parzialità. La non-violenza non fu prerogativa di tutti in India, l’opposizione al colonialismo inglese incluse anche l’azione armata. Ma i non-violenti preferiscono tacere questo aspetto, per poter meglio propagandare la leggenda che vuole Gandhi e i suoi seguaci come gli unici animatori della resistenza indiana. Nessuno di loro ricorderà Chandrasekhar Azad, che combatté a mano armata i colonizzatori inglesi, oppure Bhagat Singh, il rivoluzionario (e fiero ateo) che lottò per il «rovesciamento di entrambi i capitalismi, quello straniero e quello indiano» e le cui azioni di attacco contro strutture e uomini del dominio britannico gli valsero l’ammirazione e la simpatia di larghi strati della popolazione (catturato dagli inglesi, Singh venne impiccato senza che Gandhi muovesse un dito in suo favore, cosa che gli procurò numerose ed aspre critiche; ma non è anche così che si eliminano i concorrenti?). E se davvero gli indiani erano tutti fedeli alla morale non-violenta, come spiegare che Subhas Chandra Bose, il candidato dell’ala più “estremista” del movimento, venne eletto per due volte presidente del Congresso Nazionale Indiano, nel 1938 e nel 1939?
Insomma, se oggi la storia si premura di ricordare il solo Gandhi a scapito di tutti gli altri che si sono battuti contro l’Impero britannico, non è perché abbia rappresentato la voce unanime dell’India. Egli era semplicemente il più rappresentativo dal punto di vista occidentale, colui su cui era più conveniente puntare: ecco perché la stampa britannica gli prestò tanta attenzione e perché venne ammesso ai negoziati con il governo inglese. Meglio avere a che fare con un leader politico riformista e religioso che più volte aveva espresso “fedeltà” e benevolenza nei confronti del dominio inglese, piuttosto che con qualche pericolosa testa calda sovversiva.
A questo proposito va anche precisato che il movimento di liberazione in India non vinse affatto: gli inglesi non furono costretti a lasciare l’India. Caso mai, scelsero di modificare la forma di governo, passando da quella diretta a quella indiretta. Che razza di vittoria è quella che permette ai perdenti di dettare tempi e modi dell’ascesa dei vincitori? Gli inglesi vararono una nuova costituzione e trasferirono il potere sui propri successori scelti. Agitarono lo spettro del separatismo religioso ed etnico in modo da dividere l’India, le impedirono di acquisire prosperità e la resero dipendente dagli aiuti degli Stati occidentali. L’India è ancora sfruttata dalle multinazionali occidentali (sebbene diverse multinazionali indiane si siano unite al banchetto) e fornisce ancora risorse e mercati agli Stati occidentali. Sebbene l’India goda di maggiore autonomia in alcune aree, il che ha permesso ad un pugno di indiani di occupare posizioni di potere, sotto molti aspetti la povertà della sua popolazione non è diminuita e lo sfruttamento è diventato ancora più efficiente. Ciò non depone a favore della non-violenza, ma la sua utilità la si vede altrove e serve ben altri interessi. Nel Medioevo tutto ciò che era umano, e voleva durare, doveva accettare la livrea della fede; le scienze, le arti, la filosofia, erano tutte costrette ad indossare il cilicio. Oggi la fede, perduto l’antico prestigio, ricorre al travestimento umanitario. Finge di rinunciare ai dogmi per conservare solo la morale, lo spirito benefattore. Si copre con la maschera della devozione all’Umanità. La superstizione si camuffa in guida per la felicità terrestre.
Gandhi è stato utile come apripista. Dietro di lui si agitano un groviglio di personaggi sfuggiti ai seminari, vomitati da tutte le fognature, che predicano la passività e la rassegnazione. Dappertutto li si può sentir recitare le litanie della rinuncia e della pazienza. Si mescolano anche fra i ribelli, seminando lo scoraggiamento, incitando alla sfiducia, castrando le energie. Vengono a parlare di tolleranza. Ma non ci può essere tolleranza per il nemico. E nemico è anche colui che predica pazienza e rassegnazione, colui che si oppone all’uso della violenza. Nemico è anche chi sostiene che non bisogna attaccare e che bisogna attendere.
Attendere! L’operaio crepa bruciato vivo; attendete. La povertà costringe la donna a vendersi; attendete. Il bambino, fra il martello della famiglia e l’incudine della scuola, viene allevato al mestiere di bestia da soma; attendete. Il cibo con cui ci nutriamo è contaminato; attendete. L’aria che respiriamo è inquinata; attendete. Il territorio dove viviamo viene devastato; attendete. I ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri diventano sempre più poveri; attendete. I banchieri vengono soccorsi, i risparmiatori vengono truffati; attendete. Il politico ciarlatano prospera e ingrassa; attendete. Le guerre mietono vittime in tutto il mondo; attendete.
Attendere cosa? Dopo la spaventosa mistificazione del passato, cosa c’è da attendere? Ricordate le speranze che i continui passi avanti del progresso fecero nascere in molti? Tutte le chiacchiere sulla liberazione dalla schiavitù del lavoro, sul benessere infine disponibile per tutti, sulla parità e l’uguaglianza sociale… Anni e anni di miseria, di attesa vana, di disperazione. Guardate a che punto siamo oggi: all’imminente catastrofe del presente, alla terrificante assenza di futuro. E questo perché? Perché, anziché lasciare che la rabbia armasse i nostri cuori e le nostre braccia, si è preferito dare ascolto alle infamie della moderazione, della tolleranza, della non-violenza.
Attendere cosa? Non siamo forse divisi da un abisso, i poveri da una parte e i ricchi dall’altra? Tutti i poveri sanno che, se soffrono e crepano, è a causa dell’esistenza dei ricchi. Tutti i ricchi sanno che, se godono e gozzovigliano, è grazie alla mansuetudine dei poveri. Esiste un solo ricco che non sappia perché mangia? Esiste un solo povero che ignori perché viene mangiato? Non c’è più tempo per le ipocrisie. Non si può più fare spallucce.
I non-violenti predicano una religione di pace… vogliamo forse la pace, noi? No di certo! È la guerra, la guerra senza quartiere contro l’ordine sociale imposto dall’Autorità e dal Mercato. I non-violenti ci aspettano al varco per rammentarci che tutte le rivoluzioni del passato sono fallite, finendo col dar vita a nuovi regimi ancora più oppressivi. Da quale pulpito elevino questa loro predica, lo abbiamo già visto. Non ci risulta che esista un’idea o un metodo che possa vantarsi di aver dato la felicità all’uomo. E allora, dovremmo per questo rinunciare a cercare di raggiungerla? Già udiamo la seconda obiezione: non si può eliminare la violenza con altra violenza! Ma benedette creature, noi non vogliamo affatto eliminare la violenza. Mica siamo frati. Vogliamo che essa sia una delle tante occasionali espressioni dell’Individuo nei suoi rapporti diretti con ciò che lo circonda, e non la perenne intimidazione dello Stato che impone la propria autorità. D’altronde, senza la violenza come si potrà costringere il Potente e il Ricco a rinunciare ai propri privilegi, come si potranno neutralizzare i loro cani da guardia? I non-violenti lo sanno. Sono astuti, loro. Pensano che alla fine la virtù trionferà sul vizio. «La nostra santità li fulminerà», blateravano anni fa alcuni di loro. Macchè! I tiranni non hanno una coscienza da convertire e godono di ottima salute, almeno finché non finiscono sotto un mirino. È solo la nostra dignità a rimanere fulminata.
Bisogna condannare ogni forma di violenza, dicono i politici che votano in favore della guerra. Bisogna farla finita con ogni forma di violenza, dicono i militari mentre sganciano le loro bombe. Bisogna contrastare ogni forma di violenza, dicono gli sbirri dal manganello facile. Anche loro sono contro la violenza, ma solo quella degli oppressi. La violenza in uniforme, quella sempre pronta a scattare sull’attenti, la adorano e la praticano con fervore. Cos’altro è lo Stato se non il monopolio della violenza? Anziché sfidare questo monopolio, i non-violenti lo ribadiscono. Sappiate che solo noi possiamo usare la violenza, tuonano i funzionari di Stato. Sappiate che noi non useremo mai la violenza, tuonano gli ideologi della non-violenza. Gli opposti si attraggono e fanno una coppia perfetta. Lo Stato e la non-violenza sono fatti per intendersi, come il sadico e il masochista.

(Machete, n. 3, novembre 2008)