Che cos’è il terrorismo ? (it/en/fr/de)

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Mare Almani

Nel maggio del 1898 re Umberto I, preoccupato per le notizie che giungevano da Milano, dove era appena scoppiato uno sciopero generale, affidò al generale Bava Beccaris il compito di reprimere la sommossa. Ai soldati venne dato ordine di sparare a vista, e Bava Beccaris fece aprire il fuoco sulla città con i mortai. Il bilancio fu di 80 morti e 450 feriti. Fiero dell’impresa compiuta, il generale telegrafò al re che Milano era ormai “pacificata”.

Il capo del governo, il marchese Di Rudini, fece sopprimere oltre cento giornali di opposizione, le Camere del Lavoro, i circoli socialisti, le Società di Mutuo Soccorso, nonché 70 comitati diocesiani e 2500 comitati parrocchiali. Furono inoltre chiuse le Università di Roma, Napoli, Padova e Bologna e vennero eseguiti migliaia di arresti. Più tardi, i tribunali distribuiranno 1400 anni di carcere. A Bava Beccaris, Umberto I inviò subito un telegramma di felicitazioni e la croce dell’Ordine Militare di Savoia «per i preziosi servigi resi alle istituzioni e alla civiltà». Due anni dopo, il 29 luglio 1900, l’anarchico pratese Gaetano Bresci sollevava re Umberto I dal peso delle proprie responsabilità, uccidendolo a Monza.

Il Re e l’anarchico. Entrambi assassini, con le mani sporche di sangue: è innegabile. Eppure, sono forse equiparabili? Non lo penso. Né penso che le motivazioni e le conseguenze delle loro rispettive azioni si possano considerare alla stessa stregua.

E allora, giacché essi non possono venir uniti in una comune esecrazione, quale dei due si può dire che commise un atto di terrorismo? Il re che fece massacrare la folla, o l’anarchico che sparò al re?

Domandarsi cosa sia il terrorismo è uno di quegli interrogativi che in apparenza è inutile porre perché destinati a una risposta univoca, ma che in realtà — se formulati in modo rigoroso — non mancano di suscitare reazioni sorprendenti. Le risposte infatti sono sempre varie e contraddittorie. «Terrorismo è la violenza di chi combatte lo Stato», diranno alcuni; «terrorismo è la violenza dello Stato», ribatteranno altri; «macché, terrorismo è qualsiasi atto di violenza politica da qualsiasi parte provenga», preciseranno altri ancora. Per non parlare delle dispute che si aprono di fronte alle ulteriori distinzioni che si possono fare al riguardo; ad esempio, il terrorismo è solo la violenza contro le persone o anche quella contro le cose? Deve possedere necessariamente una motivazione d’ordine politico? O si caratterizza solo per il panico che semina?

La molteplicità di significati assegnati a questo termine è sospetta. La sensazione in questo caso non è di trovarsi al cospetto dei soliti equivoci dovuti all’incapacità delle parole di esprimere una realtà la cui complessità trascende i simboli che vorrebbero rappresentarla. L’impressione al contrario è quella di trovarsi di fronte ad un confusionismo interessato, ad una relativizzazione di interpretazioni creata artificialmente con l’intento di svuotare le idee di ogni significato, di neutralizzarne la forza pratica, di banalizzare l’intera questione riducendo a chiacchiericcio ogni riflessione che si potrebbe fare in proposito. Eppure questa parola di dieci lettere avrà pure una sua origine, una sua storia, da cui è possibile ricavare un significato in grado di dissipare, se non tutti, almeno buona parte degli equivoci che oggi il suo uso ingenera. In effetti è così.

La prima definizione che viene assegnata a questo termine dalla gran parte dei dizionari è di carattere storico: «Il governo del Terrore in Francia». Sappiamo quindi con precisione l’origine del vocabolo. Terrorismo è il periodo della Rivoluzione Francese che va dall’aprile 1793 al luglio 1794, quando il Comitato di salute pubblica guidato da Robespierre e Saint-Just ordinò un alto numero di esecuzioni capitali. Il Terrore era quindi rappresentato da quella ghigliottina sotto la cui lama persero la testa migliaia di persone, che si presumeva costituissero una minaccia per la sicurezza del nuovo Stato in formazione. A partire da questa premessa, gli stessi dizionari giungono per estensione a una definizione di terrorismo più generale: «ogni metodo di governo fondato sul terrore».

Ora, questa prima interpretazione del concetto di terrorismo è estremamente chiara. Innanzitutto mette in luce lo stretto legame che intercorre fra terrorismo e Stato. Il terrorismo è nato con lo Stato, è esercitato dallo Stato, è appunto un «metodo di governo» che lo Stato impiega contro i suoi nemici per garantire la propria conservazione. «La ghigliottina — diceva Victor Hugo — è la concrezione della legge». Ed è solo lo Stato a poter promulgare la legge che, lungi dall’essere espressione di quel contratto sociale garante dell’armoniosa convivenza fra gli esseri umani, rappresenta il filo spinato con cui il potere protegge i propri privilegi. Chi osasse oltrepassarlo, dovrà fare i conti con le mani del boia. Comunque, già prima dell’aprile 1793 sul patibolo erano saliti alcuni cosiddetti criminali comuni e anche degli insorti. Checché se ne pensi, la ghigliottina non è affatto un’invenzione di monsieur Guilloton. Nella stessa Francia questo strumento di esecuzioni capitali aveva già una sua tradizione, ma nessuno ancora parlava di Terrore. Solo quando l’autorità dello Stato, in quel momento in mano ai giacobini, si vedrà minacciata dall’ondata rivoluzionaria, solo quando lo Stato dovrà fare i conti non con semplici fuorilegge o insorti isolati, ma con un enorme movimento sociale sul punto di travolgerlo, solo allora la violenza repressiva si chiamerà Terrore.

Ma, oltre alla sua natura istituzionale, esiste un’altra caratteristica che contraddistingue il terrorismo: chiunque ne può rimanere vittima. Durante il periodo del Terrore nella sola Parigi sarebbero avvenute circa 4.000 esecuzioni. Louis Blanc avrebbe ritrovato i documenti di 2750 ghigliottinati, scoprendo che solamente 650 di loro appartenevano a classi agiate. Ciò significa che la macchina statale della ghigliottina non faceva poi tante distinzioni, decapitando chiunque venisse ritenuto scomodo o sospetto. Ad aver perso la testa durante quelle giornate non sono stati solo i nobili, i militari e i preti — come vorrebbe la propaganda più conservatrice e tradizionalista — ma soprattutto semplici artigiani, contadini, poveri. Il terrorismo è tale perché colpisce alla cieca, da cui il sentimento di panico collettivo che esso ispira. L’uso indiscriminato della ghigliottina, sistematizzato dalla semplificazione delle procedure giudiziarie autorizzata dalla legge di Prastile, crea un effetto irreversibile di operazioni fatte in serie, annullando le differenze individuali fra tutti questi decapitati. Questa pratica dell’amalgama ha un significato politico preciso: raggruppando in una stessa seduta persone sospettate di “crimini” di natura o di entità assai differenti, il Terrore mira ad annientare le diversità individuali a vantaggio del consenso popolare, e a distruggere «l’abiezione dell’io personale» (Robespierre), giacché deve esistere una sola entità nella quale fondere gli individui: lo Stato.

Il terrorismo è nato quindi come strumento istituzionale e indiscriminato. Entrambi questi due aspetti riecheggiano anche in espressioni di uso corrente come, ad esempio, «bombardamenti terroristici». Un bombardamento, infatti, non solo avviene nel corso di una guerra condotta fra Stati, ma semina terrore e morte in tutta la popolazione. Lo stesso discorso si potrebbe fare per quanto riguarda il terrorismo psicologico, che viene considerato una «forma intimidatoria o ricattatoria di manipolazione dell’opinione pubblica, attuata soprattutto attraverso i mezzi di comunicazione con l’esagerare i pericoli di certe situazioni o addirittura inventandoli, allo scopo d’indurre le masse a determinati comportamenti sul piano politico, sociale, economico». Si vede bene come solo chi detiene il potere sia in grado di manipolare i grandi mezzi di comunicazione e, attraverso essi, il comportamento delle “masse” al fine di raggiungere i propri scopi.

Dunque, il terrorismo è la violenza cieca dello Stato. L’origine del termine lo dimostra in maniera inequivocabile. Ma il linguaggio non è mai espressione neutra. Lungi dall’essere meramente descrittivo, il linguaggio è anzitutto un codice. Il senso delle parole indica sempre la direzione verso cui sta pendendo la bilancia del dominio. Chi detiene il potere detiene anche il significato delle parole. Ciò spiega come mai con il passare del tempo il concetto di terrorismo abbia assunto un nuovo significato, che se contraddice completamente la sua genesi storica corrisponde però alle esigenze del dominio. Oggi con questo termine viene indicato un «metodo di lotta politica, basato su violenze intimidatorie (uccisioni, sabotaggi, attentati dinamitardi, ecc), impiegato in genere da gruppi rivoluzionari o sovversivi (di sinistra o di destra)». Come si vede, questa interpretazione, che cominciò a diffondersi fin dall’Ottocento, si contrappone completamente a quanto detto finora. Nella accezione originaria del termine è lo Stato a ricorrere al terrorismo contro i suoi nemici; nella seconda, sono i suoi nemici che impiegano il terrorismo contro lo Stato. Il capovolgimento di senso non potrebbe essere più esplicativo. L’utilità per la Ragion di Stato di una simile operazione è fin troppo palese. Ma come nasce la mistificazione? Il Terrore in Francia fu opera di uno Stato nato durante una Rivoluzione. Per giustificare il significato attuale del concetto di terrorismo, l’ideologia dominante ha dovuto scambiare i soggetti e attribuire alla Rivoluzione quella responsabilità che in realtà apparteneva allo Stato. Così, oggi ci viene insegnato che il Terrore è opera della Rivoluzione che, in quel lontano contesto storico, si era incarnata in uno Stato. Il Terrore sarebbe quindi sinonimo di violenza rivoluzionaria. Un salto acrobatico della logica che continua a incantare le platee degli spettatori di tutto il mondo, i quali sembrano non accorgersi della truffa pur evidente.

In realtà non si può attribuire il Terrore alla Rivoluzione, al popolo sollevato, giacché è solo quando la Rivoluzione si è fatta Stato che esso è apparso. È una clamorosa menzogna ideologica, nonché un grossolano falso storico, fare del Terrore l’espressione stessa della violenza rivoluzionaria “massacrante”, quella della strada, delle giornate sulle barricate, della vendetta popolare. Prima del 17 aprile 1793 (giorno della fondazione del tribunale rivoluzionario) la violenza esercitata contro il potere, anche quella espressa con forme particolarmente crude, non aveva mai assunto il nome di terrorismo. Né le cruente jacqueries del XIV secolo, né gli eccessi avvenuti durante la Grande Rivoluzione — come ad esempio il corteo delle donne di Marsiglia che portano in giro, in cima a un bastone, le viscere del maggiore De Beausset al grido di «Chi vuole frattaglie?» — sono stati considerati atti di terrorismo. Termine con cui è stata indicata soltanto la violenza repressiva dell’apparato statale nel momento in cui si doveva difendere — per la prima volta nella storia — da un assalto rivoluzionario. Insomma, l’origine storica del termine dimostra come il terrorismo sia la violenza del potere che si difende dalla Rivoluzione, non quella della Rivoluzione che attacca il potere.

Bisogna dire, a questo proposito, che ad incoraggiare la persistenza di questo equivoco hanno contribuito a lungo anche gli stessi rivoluzionari che hanno accettato di buon grado questo appellativo, senza accorgersi che così facendo aiutavano la propaganda di quello Stato che intendevano colpire. E se il concetto di terrorismo può trovare legittimamente spazio in un contesto autoritario della rivoluzione (come dimostrato in Russia da Lenin e Stalin), esso è assolutamente privo di significato, per non dire aberrante, in una prospettiva di liberazione antiautoritaria. Non a caso furono proprio gli anarchici i primi a rivedere l’uso improprio di questo termine, spinti forse anche dagli avvenimenti. Nel 1921 ci fu il tragico attentato al cinema-teatro Diana di Milano che causò la morte e il ferimento di numerosi spettatori, pur avendo come obiettivo il questore della città reo di tenere in prigione alcuni noti anarchici. Malgrado le intenzioni dei suoi autori, un atto di terrorismo. Com’era immaginabile, questo fatto provocò aspre discussioni all’interno del movimento anarchico. Così, di fronte alla condanna del gesto da parte di numerosi anarchici, la rivista Anarchismo di Pisa, senz’altro la pubblicazione più diffusa dell’anarchismo autonomo in Italia, se da un lato continuava a difendere «questa verità anarchica cardinale; cioè dell’inscindibilità del terrorismo dall’insurrezionismo» dall’altro cominciava ad abbozzare le prime riflessioni critiche sul concetto di terrorismo: «O perché mai chiamare e bollar di “terrore catastrofico” — che è proprio dello Stato — l’atto di rivolta individuale? Lo Stato è terrorista, il rivoluzionario che insorge, mai!». Mezzo secolo più tardi, in un contesto di forti tensioni sociali, questa critica verrà ripresa e sviluppata da chi non intende accettare l’accusa di terrorismo lanciata dallo Stato contro i suoi nemici.

Le parole sono sempre state oggetto di evoluzione di significato. Non desta sorpresa che anche il senso del termine terrorismo si sia modificato. Tuttavia non è accettabile che esso contraddica entrambe le sue due caratteristiche originarie, che sono quelle della istituzionalità e della indiscriminazione della violenza. Questa violenza può essere esercitata contro le persone o contro le cose, può essere fisica o psicologica, ma perché si possa parlare di terrorismo bisogna che almeno una di queste due caratteristiche permanga. Ad esempio, si è giustamente parlato di terrorismo per indicare le azioni contro i militanti dell’Eta condotte dagli squadroni della morte dello Stato spagnolo. Queste azioni erano sì indirizzate contro un obiettivo preciso, ma si trattava comunque di una forma di violenza istituzionale contro una minaccia considerata rivoluzionaria. Allo stesso modo, il terrorismo può anche non essere sempre opera delle istituzioni. Ma perché si possa considerare tale, le sue manifestazioni devono colpire in maniera indiscriminata. Una bomba in una stazione ferroviaria, o all’interno di un supermercato aperto, o su una spiaggia affollata: questo si può a ragione definire terrorismo. Anche quando è frutto del delirio di un folle, anche quando viene rivendicata da un’organizzazione rivoluzionaria, il risultato di una simile azione è seminare il panico fra la popolazione.

Quando invece la violenza non è istituzionale e non è indiscriminata, non ha senso parlare di terrorismo. Il singolo individuo che in preda a un raptus di follia stermina la famiglia non è un terrorista. E non lo è neppure il rivoluzionario, o l’organizzazione sovversiva, che sceglie con cura gli obiettivi delle proprie azioni. Quest’ultima è sì violenza, violenza rivoluzionaria, non terrorismo. Non mira a difendere lo Stato, né a seminare terrore fra la popolazione. Se in occasione di simili attentati l’Informazione suole parlare di “psicosi collettiva” o di “intere nazioni che tremano”, è solo in omaggio alla vecchia menzogna che vuole identificare l’intero paese con i suoi rappresentanti (per meglio giustificare il perseguimento di interessi privati dei pochi in nome e a scapito di quelli sociali dei molti). Se qualcuno dovesse cominciare ad uccidere politici, industriali e magistrati, ciò seminerebbe terrore solo fra i politici, gli industriali e i magistrati. Nessun altro ne sarebbe materialmente toccato. Ma se qualcuno ponesse una bomba su un qualsiasi treno, chiunque potrebbe esserne vittima, senza esclusioni: il politico come il nemico della politica, l’industriale come l’operaio, il magistrato come il pregiudicato. Nel primo caso siamo di fronte a un esempio di violenza rivoluzionaria, nel secondo si tratta invece di terrorismo. E per quante obiezioni, critiche e perplessità si possano sollevare sul conto della prima forma di violenza, non la si può certo equiparare alla seconda.

Detto questo, torniamo al quesito iniziale. Fra il re che fece massacrare la folla e l’anarchico che sparò sul re, chi è il terrorista?

Mare Almani

[Diavolo in corpo, n. 3, novembre 2000]

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What is terrorism?

In May 1898, king Umberto I, worried about the news
reaching him from Milan where a general strike had
broken out, entrusted general Bava Beccaris with the task of repressing the revolt. The order is given to the soldiers to shoot at sight, and Bava Beccaris opens fire on the town with canon shot. The balance is 80 dead and 450 wounded. Proud of having done his duty, the general telegraphs the king that Milan is now ‘pacified’. The head of the government, the marquis Di Rudini, prohibits over one hundred opposition newspapers, the Bourses de Travail, socialist circles, Mutual Societies, and also at least 70 diocesain committees and 2,500 parish committees. Moreover, the universities of Rome, Naples, Padova and Bologne are closed, while thousands of arrests are made. Umberto I immediately sends a telegramme of congratulations to Bava Beccaris and decorates him with the cross of the Military Order of Savoy ‘for precious services rendered to the institutions and civilisation’. Two years later, on July 29 1800, the anarchist Gaetano Bresci relieves king Umberto I of the weight of his responsibilities by killing him in Monza. The King and the anarchist. Two assassins, their hands stained with blood, that’s undeniable. Yet, can one put them on the same level?I don’t think so, any more than one can consider the motivations and consequences of their acts in the same way.
And so, because they can’t be united in a common execration, which of the two committed an act of terrorism? The king who had the crowd massacred, or the anarchist that slayed the king?
To ask oneself what is terrorism is one of those questions that it would seem pointless to ask, because it is destined to get a univoque answer. In reality – when it is formulated rigorously – it doesn’t fail to give rise to surprising reactions. The answers are actually different and contradictory. ‘Terrorism is the violence of those that fight the State’, some say, ‘Terrorism is the violence of the State’, others answer, ‘but no, terrorism is any act of political violence, no matter where it comes from’, the last point out. And all the debates that open up in the face of the distinctions that can then be made on the subject: for example, terrorism is only violence against people or can also be against things? Must it necessarily have a political motivation or is it only characterised by the panic is seminates?
The multiplicity of meanings assigned to this term is suspect. The sensation here is not of finding oneself in the presence of the usual malcomprehensions linked to the incapacity of words to express a reality whose complexity goes beyond the symbols that would like to represent it. On the contrary, one gets the impression that one is face to face with deliberate confusion, a relativism of interpretations created artificially with the intention of emptying ideas of their meaning, or neutralising practical strength, banalising the whole question by reducing all reflection that one might carry out on the subject to chatter.

All the same, this nine-letter word must have an origin, a history, from which it would be possible to deduct a meaning capable of dissipating at least a good part of the ambiguities that its use generates today. And that is in fact so.

The first definition that is given of this term by most dictionaries is of an historical character: ‘the government of terror in France’. One thereby discovers the precise origin of the word. Terrorism corresponds to the period of the French Revolution that goes from April 1793 to July 1794, when the Committe of public health led by Robespierre and Saint-Just ordered a huge number of capital executions. The terror was therefore represented by the guillotine whose blade cut the head off thousands of people who, one presumes, constituted a threat for the security of the new State in formation. Starting off from this base, the same dictionaries add by extension a more general definition of terrorism: ‘all methods of government based on terror’.

At the present time this interpretation of the concept of terrorism is extremely clear. First of all, it highlights the narrow line that exists between terrorism and the State. Terrorism is born with the State, is exercised by the State, is precisely a ‘method of government’ that the State uses against its enemies to guarantee its own conservation. ‘The guillotine – said Victor Hugo – is the concretisation of law’. Only the State can promulgate laws. And law, far from being the expression of this social contract garantor of harmonious cohabitation among humans, represents the barbed wire with which power protects its privileges.Whoever dares to go beyond it will have to pass through the hands of the hangman. In fact, before the month of April 1793, some so-called common law criminals and some insurgents had already climbed the scaffold.

Whatever one might think, the guillotine is not actually an invention of monsieur Guillotin. In France this instrument of capital execution already had a history, but nobody had talked about Terror yet.It is only when the authority of the State, then in the hands of the jacobins, is threatened by a revolutionary wave, when it is no longer a question of simple outlaws or isolated insurgents, but a huge social movement capable of overthrowing it, only then does repressive violence come to be called terror’.

But, apart from its institutional character, another characteristic distinguishes terrorism: anyone can become a victim of it. During the period of the Terror there were no fewer than 4,000 executions in Paris alone. Louis Blanc found the identity of 2,750 guillotined people, discovering that only 650 of them belonged to the wealthy classes. That means that the State machine of the guillotine did not make many distinctions, decapitating anyone it considered a nuisance or suspect. It was not only noblemen, military men and priests that lost their heads these days – as the most conservative and traditional propaganda would have it – but above all simple artisans, peasants, poor people. Terrorism is such because it strikes blindly, hence the feeling of collective panic it inspires. The indiscriminate use of the guillotine, systemised thanks to the simplification of judicial procedures consented by the law of Prairial, created the ineluctable effect of chain operations, annuling the individual differences between all the decapitated. This practise of amalgam has a precise political sense: regrouping into one single seance the people suspected of ‘crimes’ of a nature or identity that were completely different. Terror aims at eliminating individual differences to create popular consensus, and to destroy ‘the abjection of the personal me’ (Robespierre), given that there must only exist one single entity into which to melt individuals: the State. Terrorism is therefore born as an institutional and indiscriminate instrument. These two aspects also retentissent in current expressions, as for example ‘terrorising bombardments’. Not only does bombardment take place during wars carried out by States, it seminates death and desolation among the whole population. One could say the same thing concerning the psychological terrorism considered ‘a form of intimidation or blackmail’ in order to manipulate public opinion, effectuated above all through the means of communication, by the exaggeration of the dangers of certain situations or even inventing them, in order to induce the masses to behave in a certain way in political, social and economic projects. One can see clearly how only those who hold power are able to manipulate the great means of communication and, through them, the ‘masses’, in order to reach their aim.

Terrorism is therefore the blind violence of the State, as the origin of the term shows clearly. But language is never a neutral expression. Far from being merely descriptive, language is above all a code. The meaning of words always points to the side on which the balance of power is leaning. He who holds power also possesses the meaning of words. That explains how it is that, over time, the concept of terrorism has taken on a new meaning that completely contradicts its historical origins but corresponds to the needs of power. Today, this concept is defined ‘a method of political struggle based on intimidatory violence (murder, sabotage, explosive attacks, etc.) generally used by revolutionary groups or subversives (left or right)’. As we can see, this interpretation, which began to spread at the end of the 19th century, is in complete opposition to what has been said until now.In the initial acceptation of the word, it is the State that has recourse to terrorism against its enemies; in the second, it is its enemies that use terrorism against the State.The upturning of meaning could not be more explicit. The usefulness of such an operation for the Reason of State is only too clthe Terror in France was the work of a state born from the Revolution.To justifythe present meaning of the concept of terrorism, the dominant ideology has had to intervertire its subjects and attribute to the Revolution the responsibility that in reality belongs to the State. Ainsi, we are taught today that Terror is the work of the Revolution which, in this far off historical context, took the form of the State. Terror is therefore synonymous with revolutionary violence. An acrobatic jump in logic that continues to enchant the parterres of spectators the world over, who don’t seem to realise de l’arnaque more than obvious.

In reality, one cannot attribute Terror to the Revolution, the insurgent people, because it is only when the Revolution becomes a state that the Terror has appeared. It is an enormous ideological lie and a gross historical error to make Terror the very expression of ‘massacrante’ revolutionary violence, that in the streets, ythe days on the barricades, of popular vengeance. Before April 17 1793 (day of the foundatio of the revolutionarytribunal), the violence exercised against power, even that which was particularly cruel, had never recouvert the name of terrorism. Neither the bloody Jacqueries of the XIV century, nor the excesses that deroule during the Great Revolution (such as for example the demonstratio of the women of Marseille who carried a la ronde, on top of a pike, the visceres of Major De Beausset to the sound of ‘who’s for tripe?’) were ever considered as acts of terrorism.This term indicates only the repressive violence of the State apparutus at the moment in which it has to defend itself – for the first time in history – from a revolutionary assault. En somme, the historic aspect of the term shows how terrorism is violence of power that defends itself from the Revolution, not Revolution attacking power.

What a social monstruosity, what chef d’oeuvre of Machiavelism is this revolutionary government! For any being that reasons, government and revolution are incompatible.
Jean Varlet, Gare l’explosion, 15 vendemaire an III.

It should be said a ce propos that the persistence of this ambiguity has been encouraged for a long time by the revolutionaries themselves, who have accepted this qualificativ de bon gres, without realising that in so doing they were helping the propaganda of the very State that they wanted to strike. And if the concept of terrorism can legitimately find its place in an authoritarian concept of revolution (as Lenin and Stalin demonstrated in Russia), it is absolutely devoid of sense, not to say abhorrant, in an anti-authoritarian perspective of liberation. It is not by chance thast it is precisely the anarchists to have in first revu the improper use of this term, perhaps pushed by events. In 1921 the tragic attentat took place against the cinema-theatre Diana in Milan, causing the death and wounding of numerous spectators, although it had the objective the town prefect who was responsible for the imprisonment of some well-known anarchists. In spite of the authors’ intentions, it was an act of terrorism. As one can imagine, this act has led to many arguments within the anarchist movement. Ainsi, in the face of the condemnation of the gesture by many anarchists, both the revue Anarchisme of Pisa, undoubtedly the most widely distributed publication of autonomous anarchism in Italy, continued to defend ‘this cardinal anarchist truth, of knowing the impossibility of separating terrorism from insurrectionalism’, it began on the other hand to esquisser the first critical reflections on the concept of terrorism: ‘why name and tax with ‘catastrophic terror’ – which is the propre of the State – the act of individual revolt? The State is terrorist, the revolutionary who insurges, never!’ Half a century later, within a context of strong social tension, this critique was to be taken up again and developed by those who did not intend to accept the accusation of terrorism launched by the state against its enemies.

Words have always been subject to an evolution in meaning. It is not surprising that the meaning of the term terrorism has also been modified. It is all the same unacceptable that it contradict each one of its original characteristics, which are those of the institutional and indiscriminate aspectof violence. This violence can be exercised against people or against things, it can be physical or psychological, but in order to be able to speak of terrorism, there must be at least one of these two characteristics remains. For example, one has rightly spoken of terrorism to indicate actions carried out by death squads of the Spanish State against the militants of ETA. These actions were directed against a precise objective, but it was all the same a question of a form of institutional violence against a threat considered as revolutionary. In the same way terrorism can not always be carried out by institutions. But in order for us to consider it such, its manifestations must then strike in an indiscriminate way. A bomb in a station or an open supermarket or on a crowded beach can rightly be defined terrorist. Even when it is fruit of the delirium of a ‘madman’ or when it is claimed by a revolutionary orga nisation, the result of such an action is to seminate panic in the population.

When on the other hand violence is neither institutional nor indiscriminate, it is a non-sense to speak of terrorism. An individual that exterminates his family in prey of a crisis of madness is not a terrorist. Any more than a revolutionary or a subversive organisation that choses its objectives with care. Of course there is violence, revolutionary violence, but not terrorism. It is aimed neither a defending the State nor at seminating terror in the population. If, during such attacks, the media talk of ‘collective psychosis’ or ‘whole nations trembling in fear’, it is merely in reference to the old lie that wants to identify a whole country with its representatives, in order to better justify the pursuit of the private interests of some in the name and at the cost of the social interests of all the others. If someone were to start to kill politicians, industrialists and magistrates, that would merely seminate terror among politicians, industrialists and magistrates. Nobody else would be materially touched. But if someone were to put a bomb in a train, anyone could be a victim, without exclusion: the politician just like the enemy of politics, the industrialist just like the worker, the magistrate just like the repris de justice. In the first case we are faced with an example of revolutionary violence, in the second it is a question of terrorism on the other hand. And in spite of all objections, critiques and perplexities that the first form of violence can raise, one certainly cannot compare it to the second.

That said, we come back to the initial question. Between the king who has the crowd massacred and the anarchist that shoots the king, who is the terrorist?

Mare Almani

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Qu’est-ce que le terrorisme ?

En mai 1898, le roi Umberto I, préoccupé par les nouvelles qui lui parviennent de Milan où venait d’éclater une grève générale, confiait au général Bava Beccaris le soin de réprimer la révolte. L’ordre est donné aux soldats de tirer à vue, et Bava Beccaris fait ouvrir le feu sur la ville à coups de canon. Le bilan est de 80 morts et 450 blessés. Fier du devoir accompli, le général télégraphe au roi que Milan est désormais « pacifiée ». Le chef de gouvernement, le marquis Di Rudini, fait interdire plus de cent journaux d’opposition, les Bourses du Travail, les cercles socialistes, les Sociétés mutualistes, mais aussi pas moins de 70 comités diocésains et 2500 comités paroissiaux. De plus, les Universités de Rome, Naples, Padoue et Bologne sont fermées, tandis que se déroulent des milliers d’arrestations. Umberto I envoie immédiatement un télégramme de félicitations à Bava Beccaris et le décore de la croix de l’Ordre Militaire de Savoie « pour les précieux services rendus aux institutions et à la civilisation ». Deux ans plus tard, le 29 juillet 1900, l’anarchiste Gaetano Bresci allège le roi Umberto I du poids de ses responsabilités en le tuant à Monza. Le Roi et l’anarchiste. Deux assassins aux mains tâchées de sang, c’est indéniable. Pourtant, peut-on les mettre sur le même plan ? Je ne le pense pas, pas plus qu’on ne peut considérer les motivations et les conséquences de leurs actes de la même manière.
Et donc, puisqu’ils ne peuvent être unis dans une exécration commune, lequel des deux a commis un acte de terrorisme ? Le roi qui a fait massacrer la foule, ou l’anarchiste qui a abattu le roi ?

Se demander ce qu’est le terrorisme est une de ces questions qu’il est en apparence inutile de poser, parce qu’elle est destinée à recevoir une réponse univoque. En réalité – lorsqu’elle est formulée de manière rigoureuse –, elle ne manque pas de susciter des réactions étonnantes. Les réponses sont en effet toujours différentes et contradictoires. « Le terrorisme, c’est la violence de ceux qui combattent l’Etat » diront certains ; « le terrorisme c’est la violence de l’Etat » répondront d’autres ; « mais non, le terrorisme est tout acte de violence politique, d’où qu’elle vienne », préciseront les derniers. Et ne parlons pas des débats qui s’ouvrent face aux distinctions qui peuvent être faites par la suite en la matière : par exemple, le terrorisme est uniquement la violence contre les personnes ou également contre les choses ? Doit-il nécessairement posséder une motivation d’ordre politique ou se caractérise-t-il uniquement par la panique qu’il sème ?

La multiplicité de sens assignés à ce terme est suspecte. La sensation ici n’est pas de se trouver en présence des malentendus habituels liés à l’incapacité des mots à exprimer une réalité dont la complexité dépasse les symboles qui voudraient la représenter. Au contraire, l’impression est celle de se retrouver face à un confusionnisme intéressé, à une relativisation d’interprétations créée artificiellement, dans l’intention de vider les idées de leur sens, de neutraliser la force pratique, de banaliser toute la question en réduisant à du bavardage toute réflexion qu’on pourrait mener à son propos.

Pourtant, ce mot de dix lettres doit bien avoir une origine, une histoire, dont il serait possible de déduire un sens en mesure de dissiper au moins une bonne partie des ambiguïtés que son usage génère aujourd’hui. Et c’est en effet le cas.

La première définition qui est donnée à ce terme par la plus grande partie des dictionnaires est à caractère historique : « le gouvernement de la Terreur en France ». On connaît donc avec précision l’origine du vocable. Le terrorisme correspond à la période de la Révolution Française qui va d’avril 1793 à juillet 1794, lorsque le Comité de salut public mené par Robespierre et Saint-Just a ordonné un grand nombre d’exécutions capitales. La Terreur était donc représentée par cette guillotine dont la lame a tranché la tête à des milliers de personnes qui, présume-t-on, constituaient une menace pour la sécurité du nouvel Etat en formation. A partir de cette base, les mêmes dictionnaires ajoutent par extension une définition plus générale du terrorisme : « toute méthode de gouvernement fondée sur la terreur ».
A présent, cette première interprétation du concept de terrorisme est extrêmement claire. Tout d’abord, elle met au jour le lien étroit qu’il y a entre terrorisme et Etat. Le terrorisme est né avec l’Etat, est exercé par l’Etat, est justement une « méthode de gouvernement » que l’Etat emploie contre ses ennemis pour garantir sa propre conservation. « La guillotine – disait Victor Hugo – est la concrétion de la loi ». Seul l’Etat peut promulguer des lois. Et la loi, loin d’être l’expression de ce contrat social garant de la cohabitation harmonieuse entre les êtres humains, représente le fil barbelé avec lequel le pouvoir protège ses privilèges. Quiconque oserait l’outrepasser aura à passer entre les mains du bourreau. Ainsi, avant le mois d’avril 1793, de prétendus criminels de droit commun et quelques insurgés étaient déjà montés à l’échafaud.

Quoi qu’on en pense, la guillotine n’est en effet pas une invention de monsieur Guillotin. En France, cet instrument d’exécution capitale avait déjà une histoire, mais personne ne parlait encore de Terreur. Ce n’est que lorsque l’autorité de l’Etat, alors aux mains des jacobins, sera menacée par une vague révolutionnaire, ce n’est que lorsqu’il n’aura plus seulement affaire à de simples hors-la-loi ou à des insurgés isolés, mais à un énorme mouvement social capable de le renverser, ce n’est qu’à ce moment que la violence répressive se nommera Terreur.

Mais, en plus de son caractère institutionnel, une autre caractéristique distingue le terrorisme : tout un chacun peut en être victime. Au cours de la période de la Terreur, rien que dans Paris, il y aurait eu pas moins de 4 000 exécutions. Louis Blanc aurait retrouvé l’identité de 2 750 guillotinés, découvrant que seulement 650 d’entre eux appartenaient aux classes aisées. Cela signifie que la machine étatique de la guillotine ne faisait pas tant de distinctions, décapitant quiconque était estimé incommode ou suspect. Il n’y a pas que les nobles, les militaires et les prêtres qui ont perdu leur tête lors de ces journées – comme le voudrait la propagande la plus conservatrice et traditionaliste –, mais surtout de simples artisans, des paysans, des pauvres. Le terrorisme est tel parce qu’il frappe à l’aveugle, d’où le sentiment de panique collective qu’il inspire. L’usage indiscriminé de la guillotine, systématisé grâce à la simplification des procédures judiciaires permise par la loi de Prairial, crée l’effet inéluctable d’opérations à la chaîne, annulant les différences individuelles entre tous ces décapités. Cette pratique de l’amalgame a un sens politique précis : regroupant en une même séance des personnes soupçonnées de « crimes » de nature ou d’identité complètement différents, la Terreur vise à anéantir les différences individuelles pour créer un consensus populaire, et à détruire « l’abjection du moi personnel » (Robespierre), vu qu’il ne doit exister qu’une seule entité dans laquelle fondre les individus : l’Etat. Le terrorisme est donc né comme instrument institutionnel et indiscriminé. Ces deux aspects retentissent aussi dans des expressions courantes, comme par exemple « des bombardements terrorisants ». Un bombardement, en effet, non seulement se déroule lors d’une guerre menée entre Etats, mais sème la mort et la désolation dans toute la population. On pourrait faire le même discours concernant le terrorisme psychologique, considéré comme « une forme d’intimidation ou de chantage afin de manipuler l’opinion publique, effectuée surtout à travers les moyens de communication, par l’exagération des dangers de certaines situations ou bien en les inventant, afin d’induire les masses à des comportements déterminés au plan politique, social, économique ». On voit bien comment seul celui qui détient le pouvoir est en mesure de manipuler les grands moyens de communication et, à travers eux, les « masses », afin d’atteindre son but.

Le terrorisme est donc la violence aveugle de l’Etat, comme le montre sans ambiguïté l’origine du terme. Mais le langage n’est jamais une expression neutre. Loin d’être uniquement descriptif, le langage est avant tout un code. Le sens des mots indique toujours le côté vers lequel penche la balance de la domination. Celui qui détient le pouvoir possède aussi le sens des mots. Cela explique comment il se fait que, le temps passant, le concept de terrorisme ait recouvert un nouveau sens qui contredit complètement sa genèse historique mais correspond aux exigences de la domination. Aujourd’hui, ce concept est défini comme « une méthode de lutte politique fondée sur des violences intimidatrices (meurtres, sabotages, attentats explosifs, etc), employés généralement par des groupes révolutionnaires ou subversifs (de gauche ou de droite) ». Comme on le voit, cette interprétation, qui a commencé à se diffuser à la fin du XIXe siècle, s’oppose complètement à ce qui a été dit jusqu’à présent. Dans l’acceptation initiale du terme, c’est l’Etat qui recourt au terrorisme contre ses ennemis ; dans la seconde, ce sont ses ennemis qui emploient le terrorisme contre l’Etat. Le renversement de sens ne pourrait être plus explicite. L’utilité d’une telle opération pour la Raison d’Etat n’est que trop évidente. Mais comment naît cette mystification ? La Terreur en France a été l’œuvre d’un Etat né lors d’une Révolution. Pour justifier le sens actuel du concept de terrorisme, l’idéologie dominante a du intervertir les sujets et attribuer à la Révolution la responsabilité qui appartenait en réalité à l’Etat. Ainsi, on nous enseigne aujourd’hui que la Terreur est l’œuvre de la Révolution qui, en ce lointain contexte historique, s’était incarnée dans l’Etat. La Terreur serait donc synonyme de violence révolutionnaire. Un saut acrobatique de la logique qui continue à enchanter les parterres de spectateurs du monde entier, qui ne semblent pas se rendre compte de l’arnaque plus qu’évidente.

En réalité, on ne peut attribuer la Terreur à la Révolution, au peuple insurgé, parce que ce n’est que lorsque la Révolution s’est faite Etat que la Terreur est apparue. C’est un énorme mensonge idéologique et un faux historique grossier que de faire de la Terreur l’expression même de la violence révolutionnaire « massacrante », celle des rues, des journées sur les barricades, de la vengeance populaire. Avant le 17 avril 1793 (jour de la fondation du tribunal révolutionnaire), la violence exercée contre le pouvoir, même celle particulièrement cruelle, n’avait jamais recouvert le nom de terrorisme. Ni les sanglantes Jacqueries du XIVe siècle, ni les excès qui se sont déroulés lors de la Grande Révolution (comme par exemple la manifestation des femmes de Marseille qui portaient à la ronde, au bout d’une pique, les viscères du major De Beausset au cri de « qui veut des tripes ? ») n’ont été considérés comme des actes de terrorisme. Ce terme n’indiquait que la violence répressive de l’appareil étatique au moment où il devait se défendre – pour la première fois dans l’histoire – d’un assaut révolutionnaire. En somme, l’aspect historique du terme montre comment le terrorisme est la violence du pouvoir qui se défend de la Révolution, non pas la Révolution qui attaque le pouvoir.

Il faut dire à ce propos que la persistance de cette ambiguïté a été encouragée pendant longtemps par les révolutionnaires eux-mêmes, qui ont accepté de bon gré ce qualificatif, sans se rendre compte que ce faisant, ils aidaient la propagande de cet Etat qu’ils souhaitaient frapper. Et si le concept de terrorisme peut légitimement trouver sa place dans un concept autoritaire de la révolution (comme Lénine et Staline l’ont démontré en Russie), il est absolument privé de sens, pour ne pas dire aberrant, dans une perspective de libération anti-autoritaire. Ce n’est pas par hasard si ce sont justement les anarchistes qui ont en premier revu l’usage impropre de ce terme, peut-être poussés par les événements. En 1921 eut lieu le tragique attentat contre le cinéma-théâtre Diana de Milan, qui a causé la mort et des blessures à de nombreux spectateurs, bien qu’ayant comme objectif le préfet de la ville, responsable de l’incarcération de quelques anarchistes célèbres. Malgré les intentions de ses auteurs, ce fut un acte de terrorisme. Comme on peut l’imaginer, cet acte a provoqué d’âpres discussions à l’intérieur du mouvement anarchiste. Ainsi, face à la condamnation du geste par de nombreux anarchistes, si la revue Anarchismo de Pise, sans aucun doute la publication plus diffusée de l’anarchisme autonome en Italie, continuait à défendre « cette vérité anarchiste cardinale, à savoir l’impossibilité de séparer le terrorisme de l’insurrectionnalisme », elle commençait d’un autre côté à esquisser les premières réflexions critiques sur le concept de terrorisme : « pourquoi nommer et taxer de “terreur catastrophique” – qui est le propre de l’Etat – l’acte de révolte individuel ? L’Etat est terroriste, le révolutionnaire qui s’insurge, jamais ! ». Un demi-siècle plus tard, en un contexte de fortes tensions sociales, cette critique sera reprise et développée par ceux qui n’entendaient pas accepter l’accusation de terrorisme lancée par l’Etat contre ses ennemis.

Les mots ont toujours été sujets à une évolution de leur sens. Il n’est pas surprenant que le sens du terme terrorisme se soit également modifié. Il n’est toutefois pas acceptable qu’il contredise chacune de ses caractéristiques originaires, qui sont celles de l’aspect institutionnel et indiscriminé de la violence. Cette violence peut être exercée contre les personnes ou contre les choses, peut être physique ou psychologique, mais pour qu’on puisse parler de terrorisme, il faut au moins qu’une de ces deux caractéristiques demeure. Par exemple, on a justement parlé de terrorisme pour indiquer les actions menées par des escadrons de la mort de l’Etat espagnol contre des militants d’ETA. Ces actions étaient dirigées contre un objectif précis, mais il s’agissait de toute façon d’une forme de violence institutionnelle contre une menace considérée comme révolutionnaire. De même, le terrorisme peut ne pas toujours être mené par des institutions. Mais pour qu’on puisse le considérer ainsi, ses manifestations doivent alors frapper de manière indiscriminée. Une bombe dans une gare ou dans un supermarché en service, ou sur une plage surpeuplée peut à juste titre être définie comme terroriste. Même lorsque c’est le fruit du délire d’un « fou » ou lorsque cela est revendiqué par une organisation révolutionnaire, le résultat d’une telle action est de semer la panique dans la population.

Lorsqu’en revanche la violence n’est ni institutionnelle ni indiscriminée, c’est un non-sens de parler de terrorisme. Un individu en proie à une crise de folie et qui extermine sa famille n’est pas un terroriste. Pas plus qu’un révolutionnaire ou une organisation subversive qui choisit avec soin les objectifs de ses actions. Bien sûr que c’est de la violence, de la violence révolutionnaire, mais pas du terrorisme. Elle ne vise ni à défendre l’Etat ni à semer la terreur dans la population. Si, lors de telles attaques, les médias parlent de « psychose collective » ou « de nations toutes entières qui tremblent », ce n’est qu’en référence au vieux mensonge qui veut identifier un pays entier avec ses représentants, pour mieux justifier la poursuite des intérêts privés de quelques uns au nom et aux dépends des intérêts sociaux de tous les autres. Si quelqu’un devait commencer à tuer les politiciens, les industriels et les magistrats, cela ne sèmerait la terreur que parmi les politiciens, les industriels et les magistrats. Personne d’autre ne serait matériellement touché. Mais si quelqu’un posait une bombe dans un train, n’importe qui pourrait en être victime, sans exclusive : le politicien comme l’ennemi de la politique, l’industriel comme l’ouvrier, le magistrat comme le repris de justice. Dans le premier cas, nous sommes face à un exemple de violence révolutionnaire, dans le second il s’agit en revanche de terrorisme. Et malgré toutes les objections, critiques et perplexité que puissent soulever la première forme de violence, on ne peut certainement pas la comparer à la seconde.

Ceci dit, revenons au problème initial. Entre le roi qui a fait massacrer la foule et l’anarchiste qui a tiré sur le roi, qui est le terroriste ?

Mare Almani.

Traduit de Diavolo in corpo, n°3 (Turin), novembre 2000, extrait d’A Corps Perdu N°1.

http://www.acorpsperdu.net/

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Was ist Terrorismus ?

IM MAI 1898, beauftragt der König Umberto I., beunruhigt von den Neuigkeiten über einen Generalstreik, der sich gerade in Mailand ausbreitet, den General Bava Beccaris, sich um die Niederschlagung der Revolte zu kümmern. Die Soldaten erhalten den Befehl Stellung zu beziehen und Beccaris eröffnet das Kanonenfeuer auf die Stadt. Die Bilanz: 80 Tote und 450 Verletzte. Stolz auf seinen Erfolg, Telegraphiert der General dem König, dass Mailand von nun an «befriedet» sei. Der Chef der Regierung, Marquis Di Rudini, verbietet über Hundert oppositionelle Zeitungen, Arbeiterbüros, sozialistische Gruppen, Genossenschaften, sowie nicht weniger als 70 Diöszesen und 2500 Pfarreien. Des weiteren, werden die Universitäten von Rom, Neapel und Bologna geschlossen, während tausende Verhaftungen stattfinden. König Umberto I. schickte umgehend ein Gratulationstelegram an Bava Beccaris und zeichnete ihn mit dem militärischen Orden der Savoyen aus, «für den ausgezeichneten Dienst der den Institutionen und der Zivilisation erbracht wurde». Zwei Jahre später, am 29 Juli 1900, erleichtert der Anarchist Gaetano Bresci den König Umberto um die Last seiner Verantwortlichkeiten, und tötet ihn in Monza. Der König und der Anarchist. Zwei Mörder mit blutbefleckten Händen, das ist unbestreitbar. Kann man sie dennoch auf dieselbe Ebene setzen? Ich denke nicht, genau so wenig wie man die Absichten und die Konsequenzen der Handlungen in gleichem Masse berücksichtigen kann.
Nun, wenn man beide nicht zugleich verabscheuen kann, welcher der Beiden hat dann einen terroristischen Akt begangen? Der König, der ein Massenmassaker veranstaltet hat, oder der Anarchist, der den König erschoss?

Sich zu fragen, was denn Terrorismus ist, ist eine der Fragen, die sich zu stellen unnütz erscheinen, denn es ist klar, dass man eine eindeutige Antwort erhalten wird. Doch in Realität – wenn man sie genau formuliert –, ruft sie erstaunliche Reaktionen hervor. Die Antworten sind tatsächlich stehts verschieden und widersprüchlich. «Der Terrorismus, das ist die Gewalt jener, die den Staat bekämpfen» sagen die Einen; «Terrorismus ist die Gewalt des Staates» sagen die Andern; «aber nein, Terrorismus ist jegliche gewalttätige politische Handlung, woher auch immer sie kommt» erwidern die Letzten. Ganz zu schweigen von den Debatten die sich eröffnen angesichts der Unterscheidungen, in Bezug auf die Art und Weise: Zum Beispiel, ist der Terrorismus einzig Gewalt gegen Personen oder auch gegen Dinge? Muss er unbedingt durch politische Forderungen motiviert sein oder charaktarisiert er sich ausschliesslich durch die Panik, die er verbreitet?

Die Variabilität der Deutungen, die diesem Wort verliehen werden, ist verdächtig. Sie erweckt das Gefühl, nicht das alltägliche Missverständniss aufzuzeigen, das schlicht in dem Unvermögen der Wörter gründet, die Realität in ihrer Komplexität auszudrücken, die die Symbole, die sie repräsentieren wollen, bei weitem übertrifft. Im Gegenteil, es scheint eine beabsichtigte Verwirrung vorzuherrschen, eine künstlich herbeigeführte Relativierung der Deutungen, mit der Absicht, die Ideen ihres Sinnes zu entleeren, die praktische Kraft zu neutralisieren, jegliche Fragen zu banalisieren, um die Überlegungen, die man dazu anstellen könnte, auf sinnloses Geschwätz zu reduzieren.

Dennoch, dieses Wort aus elf Buchstaben hat sehr wohl einen Ursprung, eine Geschichte, von der es möglich wäre einen Sinn abzuleiten; der imstande wäre, einen guten Anteil der Ambivalenz im heutigen Gebrauch aufzuheben. Und das ist auch der Fall.

Die erste Definition, die von den meisten Wörterbüchern übernommen wurde, hat einen historischen Charakter: «die Regierung des “Terreur” in Frankreich». Man kennt also den präzisen Ursprung des Ausdrucks. Der Terrorismus steht in Verbindung mit der Periode von April 1793 bis Juli 1794 während der franzö­sischen Revolution, als der Wohlfahrtsausschuss durch Robespierre und Saint-Just unzählige Hinrichtungen anordnete. Der Terror wird also repräsentiert von jener Guillotine, deren Klinge tausende von Leuten enthauptete, die, so behauptete man, eine Bedrohung der Sicherheit des neu entstehenden Staates darstellten. Angsichts dieser Grundlage, fügen die selben Wörterbücher als Ergänzung eine allgemeinere Definition des Terrorismus an: «jegliche Methode des Regierens, die auf Terror basiert».

Heute erscheint diese erste Interpretation des Begriffs Terrorismus äusserst klar. Vorallem bringt sie die enge Beziehung zwischen Staat und Terrorismus ans Licht. Der Terrorismus ist mit dem Staat erschienen und wird vom Staat ausgeführt, ist also schlichtweg eine «Methode zu Regieren», die der Staat gegen seine Feinde einsetzt, um seine eigene Erhaltung zu sichern. «Die Guillotine ist die Konkretisierung des Gesetzes», wie Victor Hugo sagte. Nur der Staat kann Gesetze erlassen. Und das Gesetz, weit davon entfernt Ausdruck dieses Gesellschaftsvertrages zu sein, der der Garant des glückliche Zusammenlebens zwischen menschlichen Wesen ist, repräsentiert den Stacheldraht, mit welchem die Macht ihre Privilegien beschützt. Und wer auch immer dieses zu überschreiten wagt, gerät zwischen die Hände des Scharfrichters. So wurden vor dem April 1793 mutmassliche soziale Gesetzesbrecher und beliebige Aufständische auf den Schaffot geführt.

Was auch immer man denken mag, die Guillotine ist im Grunde keine Erfindung von Monsieur Guillotin. Dieser Enthauptungsapparat hatte in Frankreich schon eine längere Geschichte, doch man redete noch nicht von Terror. Nur dann, wenn die staatliche Autorität, damals in den Händen der Jakobiner, durch einen revolutionären Ansturm bedroht wird, nur dann, wenn es sich nicht mehr bloss um einfache Gesetzlose oder isolierte Aufständische handelt, sondern um eine gewaltige soziale Bewegung, fähig die Ordnung umzustürzen, nur in diesem Moment nennt sich die repressive Gewalt Terror.

Doch nebst seinem institutionellen Charakter, be­stimmt noch eine andere Eigenschaft den Terrorismus: Ein Jeder kann ihm zum Opfer fallen. Während der Zeit des “Terreur” haben allein in Paris nicht weniger als 4‘000 Exekutionen stattgefunden. Louis Blanc stellte bei der Indentifizierung von 2‘750 Guillotinierten fest, das nur 650 von ihnen der wohlhabenden Klasse angehöhrten. Dies zeigt, dass die staatliche Maschine der Guillotine keine grossen Unterscheidungen machte und jeden enthauptete, den man als unbequem oder verdächtig betrachtete. Nicht nur Edelleute, Militärs oder Priester haben während dieser Tage den Kopf verloren – wie es die äusserst Konservativen und Traditionalistischen propagieren wollen –, sondern vor allem einfache Handwerker, Bauern und Arme. Denn in der Stimmung kollektiver Panik, die er auslöst, schlägt der Terrorismus blind um sich. Der willkürliche Gebrauch der Guillotine, systematisiert dank der Vereinfachung der juridischen Prozesse, durch die erlassenen Prairal-Dekrete*, löste unvermeidlich serienmässige Operationen aus, die die individuellen Unterschiede zwischen den Geköpften aufhoben. Diese Vermischung hat einen bestimmten politischen Sinn: Die verdächtigten «Verbrecher», trotz völlig verschiedener Art und Identität, unter einer Vorstellung zu regruppieren. Der Terror hat die Auflösung der individuellen Differenzen angestrebt, um im Volk einen Konsens zu kreieren, «die Verwerflichkeit des persönlichen Ichs» (Robespierre) zu zerstören, da es nur noch eine Einheit geben darf, in der die Individuen zusammenlaufen: den Staat. Der Terorrismus ist also als institutionelles und willkürliches Instrument geboren. Diese beiden Aspekte hallen auch Heute in Ausdrücken, wie zum Beispiel der «terrorisierenden Bombardierungen» wider. Denn eine Bombardierung findet nicht nur zwischen zwei sich bekriegenden Staaten statt, sondern verbreitet auch Tod und Verzweiflung in der ganzen Bevölkerung. Denselben Diskurs kann man auch betreffend des psychologischen Terrorismus führen, bezeichnet als «eine vorwiegend durch Kommunikationsmittel erfolgende Form von Einschüchterung oder Erpressung, um die öffentliche Meinung durch Übertreibung oder gar Erfindung der Gefahren gewisser Situationen zu beeinflussen, mit dem Ziel, die Massen zu gewissen Verhaltensweisen eines politischen, sozialen oder ökonomischen Planes zu verleiten.» Es ist offensichtlich, dass alleine die Besitzer der Macht in der Lage sind, die grossen Kommunikationsmitel und durch sie die «Massen» zu beeinflussen, um ihr Ziel zu erreichen.

Der Terrorismus ist also die blinde Gewalt des Staates, wie der Ursprung des Wortes eindeutig aufzeigt. Doch die Sprache ist nie ein neutraler Ausdruck. Fern davon ausschliesslich beschreibend zu sein, ist die Sprache vor allem ein Code. Die Bedeutung der Wörter weist täglich darauf hin, auf welche Seite die Waage der Herrschaft sich neigt. Jene die an der Macht sind, bestimmen auch die Bedeutung der Wörter. Dies erklärt, wie es dazu kam, dass im Laufe der Zeit der Begriff des Terrorismus einen neuen Sinn besetzte, einen, der seiner historischen Entstehung komplett entgegensteht, jedoch mit den Ansprüchen der Herrschaft übereinstimmt. Heute wird der Begriff definiert als: «Eine Methode des politischen Kampfes, basierend auf einschüchternder Gewalt (Mord, Sabotage, Sprengstoffanschläge, etc.), die hauptsächlich von revolutionären Gruppierungen oder Subversiven (der Linken oder der Rechten) eingesetzt wird.» Man sieht, dass diese Interpretation, die sich gegen Ende 19. Jahrhundert zu verbreiten begann, dem was bis anhin gesagt wurde völlig widerspricht. Wenn man die Anfänge des Wortes akzeptiert, ist es der Staat, der gegen seine Feinde auf den Terrorismus zurückgreift, in zweiterem Fall, sind es seine Feinde, die den Terrorismus gegen den Staat einsetzen. Die Umkehrung der Bedeutung könnte nicht deutlicher sein. Die Nützlichkeit einer solchen Operation für die Staatsraison ist nur allzu offensichtlich. Doch wie entstand diese Mystifikation? Der “Terreur” in Frankreich war des Werk eines Staates, der aus einer Revolution hervorging. Um den aktuellen Sinn des Begriffs Terrorismus zu rechtfertigen, hat die herrschende Ideologie die Subjekte vertauscht, und schreibt der Revolution die Verantwortung zu, die eigentlich dem Staat zusteht. Man lehrt uns also Heute, der Terror sei das Werk der Revolution, die in ihrem fernen historischen Kontext, sich in dem Staat entwickelte. Der Terror sei also Synonym für revolutionäre Gewalt. Ein akrobatischer Sprung der Logik, der noch immer auf der ganzen Welt die Zuschauerreihen verzaubert, die sich des offensichtlichen Betrugs nicht bewusst zu werden scheinen.

In Wirklichkeit kann man den Terror nicht der Revolution, den aufständischen Leuten zuschreiben, denn erst als die Revolution zum Staat wurde, ist der Terror erschienen. Es ist eine enorme ideologische Lüge und ein grober historischer Fehler, dem Terror die gleiche Bedeutung bei zu messen wie der «unerwünsch­ten» revolutionären Gewalt, jener der Strasse, der Tage auf den Barrikaden, der Rache des Volkes. Vor dem 17. April 1793 (Gründungstag des revolutionären Tribunals) wurde der Gewalt, die gegen die Macht ausgeübt wurde, auch wenn sie teilweise grausam war, nie der Name des Terrorismus verliehen. Weder die Greueltaten der Jacqueries im 14. Jahrhundert, noch die Exzesse, die sich während der Französischen Revolution (1789-1799) abspielten (wie z.B. die demonstrierenden Frauen in Marseille, die die Eingeweide des Major De Bousset auf der Spitze eines Spiesses herumreichten, während sie «wer will die Kutteln?» schrien), sind als terroristische Handlungen bezeichnet worden. Das Wort betraf einzig die repressive Gewalt des Staatsapparates, in dem Moment, als er sich – zum ersten Mal in der Geschichte – gegen einen revolutionären Ansturm verteidigen musste. Schliesslich zeigt der historische Aspekt des Wortes also, dass der Terrorismus die Gewalt der Macht ist, die sich gegen die Revolution verteidigt, und nicht die Revolution, die die Macht angreift.

In diesem Zusammenhang muss erwähnt werden, dass das Fortdauern dieser Ambivalenz für lange Zeit auch von den Revolutionären selbst vorangetrieben wurde, die dieses adjektiv leichtfertig akzeptierten, ohne sich der Folgen bewusst zu sein. Nämlich, dass sie eben der Propaganda jenes Staates halfen, den sie eigentlich treffen wollten. Und auch wenn der Begriff Terrorismus in einem autoritären Revolutionskonzept legitime Verwendung findet (wie es Lenin und Stalin in Russland demonstrierten), ist er absolut sinnfremd, um nicht zu sagen absurd, angesichts einer anti-autoritären Befreiungsperspektive. Es ist kein Zufall, dass gerade die Anarchisten unter dem Druck der Ereignisse als erste den unpassenden Gebrauch dieses Wortes in Frage gestellt haben. 1921 fand das tragische Attentat auf das Diana de Milan Theater statt, das viele Tote und Verwundete unter den Zuschauern verursachte, obwohl das eigentliche Ziel der Polizeipräsident war, der für die Einkerkerung einiger bekanter Anarchisten verantwortlich war. Trotz der Absichten der Täter wurde daraus eine terroristische Handlung. Wie man sich vorstellen kann, provozierte diese Aktion viele Diskussionen im Inneren der anarchistischen Bewegung. Als das Revue Anarchismo aus Pisa, ohne Zweifel die meist verbreitete Publikation des autonomen Anarchismus in Italien, weiterhin «dieser elementaren anarchistischen Wahrheit, der Unmöglichkeit, den Terrorismus vom Insurrektionismus zu separieren, gewahr zu sein» verteidigte, begann sie andererseits, angesichts der Verurteilung der Handlung durch unzählige Anarchisten, die ersten kritischen Reflexionen über den Begriff des Terrorismus zu entwerfen: «Wieso den Akt der individuellen Revolte als “katastrophalen Terror” – der doch dem Staat eigen ist – benennen und beschuldigen? Der Staat ist terroristisch, der Revolutionär der sich auflehnt, niemals!» Ein halbes Jahrhundert später, wurde diese Kritik im Kontext starker sozialer Spannungen wieder aufgegriffen, und von jenen weiterentwickelt, die diese Anschuldigung des Terrorismus, die der Staat gegen seine Feinde lancierte, nicht akzeptieren wollten.

Die Wörter sind schon immer an eine Entwicklung ihrer Bedeutung gebunden gewesen. Es ist nicht Überaschend, das sich auch das Wort Terrorismus verändert. Doch es ist auf keinen Fall akzeptabel, wenn es jedem seiner ursprünglichen Charakteristiken widerspricht, jenen des institutionellen und willkürlichen Aspektes der Gewalt. Diese Gewalt kann gegen Personen oder Sachen ausgeführt werden, kann physisch sowie psychisch sein, aber damit man von Terrorismus sprechen kann, muss ihr mindestens einer der beiden Aspekte beiwohnen.

Zum Beispiel hat man mit Recht von Terrorismus gesprochen, um die Aktionen, die die Todesschwadronen des Spanischen Staates gegen die Militanten der ETA führten zu bezeichnen. Diese Aktionen richteten sich zwar gegen ein präzises Objekt, doch es handelte sich auf jeden Fall um eine Form institutioneller Gewalt gegen eine Bedrohung, die als revolutionär bezeichnet wird. Andererseits kann der Terrorismus nicht immer von Institutionen geführt werden. Doch um ihn als solchen zu benennen, müssen seine Äusserungen willkürlicher Art sein. Eine Bombe in einem Bahnhof, in einem geöffneten Supermarkt, oder an einem überbevölkerten Strand kann gerechtfertigt als Terrorismus definiert werden. Egal ob sie dem Wahn eines «Verrückten» oder einer sich als revolutionär bekennenden Organisation entspringt, das Ergebnis einer solchen Aktion ist die verbreitung von Panik in der Bevölkerung.

Wenn die Gewalt hingegen weder institutionell noch willkürlich ist, ist es Unsinn von Terrorismus zu sprechen. Ein Individuum, das dem Wahnsinn zum Opfer fällt und seine Familie auslöscht, ist kein Terrorist. Genauso wenig ein Revolutionär, oder eine subversive Organisation, die mit Bedacht die Ziele ihrer Aktion wählt. Bestimmt handelt es sich um Gewalt, um revolutionäre Gewalt, doch nicht um Terrorismus. Sie beabsichtigt weder den Staat zu verteidigen, noch unter der Bevölkerung Terror zu verbreiten. Wenn bei solchen Angriffen, die Medien von «kollektiven Psychosen» sprechen oder «ganzen Nationen die zittern», dann geschieht dies bloss in Bezug auf die alte Lüge, die ein ganzes Land mit seinen Repräsentanten identifizieren will, um die Verfolgung privater Interessen besser rechtfertigen zu können, im Namen der und in Verpflichtung für die sozialen Interessen aller Anderen. Wenn jemand beginnt Politiker, Industrielle, Magistrate zu ermorden, verbreitet das nur Terror unter den Politikern, den Industriellen und den Magistraten. Niemand sonst wäre materiell betroffen. Wenn aber jemand eine Bombe in einem Zug platziert, könnte jeder beliebige ein Opfer sein, ohne Ausnahme: Politiker sowie Feinde der Politik, Industrielle sowie Arbeiter, Magistrate sowie die Bestraften. Im ersten Fall, haben wir es mit einem Beispiel revolutionärer Gewalt zu tun, im zweiten handelt es sich hingegen um Terrorismus. Und trotz aller Einwände, Kritiken und Ratlosigkeit, die die erste Form der Gewalt hervorrufen kann, darf man sie bestimmt nicht mit der zweiten gleichsetzen.

Dies bringt uns zu dem anfänglichen Problem zurück. Zwischen dem König, der das Massenmassaker veranstaltete und dem Anarchist, der auf den König geschossen hat; nun, welcher ist der Terrorist?

Mare Almani.

Übersetzt aus Diavolo in corpo, n°3 (Turin), november 2000.

http://www.non-fides.fr/?Was-ist-Terrorismus