Alcune tesi sulla società capitalista neomoderna
di Riccardo d’Este (1994)
[Pur non condividendo le considerazioni dell’Autore sul ruolo del lavoro nella società capitalistica contemporanea, ritengo che questo testo sia ricco di spunti e suggestioni altamente stimolanti. F.B.]
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La società del capitale, intesa come società dell’alienazione generalizzata, della riproduzione iterativa e insignificante di merci, del lavoro estorto e del profitto conquistato dai singoli capitalisti, o da gruppi di essi, ha subìto un processo modificativo che ha portato all’integrazione dei vari aspetti. Questa integrazione è un processo di integrazione.
Sarebbe inesatto sostenere che si tratta di un fenomeno nuovo, recentissimo nel meccanismo di produzione e riproduzione capitaliste e nelle strutture sociali, politiche, ideologiche che lo inverano. Di fatto, è stata una tensione sempre interna all’ambizione totalizzante del capitale (rendere la vita un immenso mercato e tutti i soggetti e gli oggetti delle merci), così come è storica la tendenza all’integrazione delle strutture riproduttive mondiali e dei sistemi politico-ideologici che le rappresentano, pur mantenendo le differenziazioni che consentono al capitale di riprodursi e di presentarsi come “unità nelle contraddizioni” (le guerre intercapitaliste ne sono state un chiaro esempio anche dal punto di vista delle ideologie, oltre che da quello degli interessi economici).
L’unica vera novità, se così vogliamo chiamarla, consiste nella consapevolezza collettiva, più o meno dichiarata o più o meno offuscata, che si è di fronte al tentativo di unificare materialità e immaterialità sotto il segno omogeneizzante del capitale. Se Félix Guattari cercò di identificare questo processo, peraltro sotto gli occhi di tutti, con la formula CMI (capitalismo mondiale integrato), Guy Debord, nei suoi Commentari sulla Società dello Spettacolo, parla di spettacolo integrato per indicare il percorso di unificazione tra quelli che venivano definiti lo “spettacolo diffuso” e lo “spettacolo concentrato”, vale a dire le tecniche prevalenti di produzione, riproduzione e trasmissione di rappresentazioni all’Ovest e all’Est. Ora, questa integrazione non è data certo dalla caduta del muro di Berlino, come frettolosamente cercano di spiegare alcuni sedicenti studiosi, ma è un processo che si è sviluppato, sia pure con picchi e cadute, per parecchio tempo (almeno, dichiaratamente, dagli anni Sessanta, con il colpo di coda della pretesa “rivoluzione culturale” di Mao TseTung). Ma erroneo sarebbe vedere in questo fenomeno di integrazione la realizzazione di quel “capitale totale” che è sempre stato il cuore e l’anima dell’utopia capitalista o di quella sorta di cielo immobile in cui dovrebbero proiettarsi incessantemente e con sempre maggiore accelerazione immagini qualsivoglia, tutte accattivanti e fuorvianti, com’è nel sogno di una società dello spettacolo compiuta. Ma nei fatti si sono verificate tali forme di resistenza materiale e di senso, a vari livelli e in differenti modi, da costringere la società del capitale a continue modificazioni e riproposizioni di sé.
Il passaggio epocale recente più importante è la costruzione di quella che noi definiamo come società capitalista neomoderna, proprio per distinguerla dalla società capitalistico-produttiva classica, dalla società dello spettacolo, che sì persiste e anzi apparentemente si afferma in maniera più interstiziale (attraverso la riduzione sempre maggiore di aspetti di vita a mere rappresentazioni e con il deperimento sempre più rapido delle immagini stesse), ma che, essendosi a tal punto generalizzata, sta progressivamente perdendo la sua funzione “innovativa” e perciò ”vivificante” e catalizzatrice; nonché da quella che taluni chiamano epoca della postmodernità, sciocchezza palese perché solo scorie marginali (arti, filosofie eccetera) possono vagare in un “vacuum” che finga di prescindere da quella che è stata la base strutturale della modernità (la vittoria della borghesia, l’avvento del capitale industriale e finanziario, le modificazioni, anche rivoluzionarie, nella produzione, nelle tecnologie eccetera) mentre la società del capitale nel suo insieme ha bisogno costante di essere moderna, e oggi neomoderna.
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Il General Intellect, almeno nell’accezione marxiana, esprimeva un’intelligenza e dei saperi diffusi e generali, una conoscenza che, al pari della forza lavoro, veniva sottomessa alle regole del capitale e dunque della produzione. Il General Intellect, insomma, altro non è che la forza lavoro cognitiva e mentale resa astratta, ma nel contempo assorbita dal processo di sviluppo del sistema di produzione capitalista. Ciò è stato senz’altro vero sin tanto che vi è stata un’ effettiva produzione capitalista, intesa come capacità di percorsi innovativi ancorché fondati sullo sfruttamento materiale e intellettuale. Ormai ciò non ha più molto senso perché la produzione, pur ovviamente mantenendosi, si è trasformata essenzialmente in riproduzione, da un lato, e in amministrazione dall’altro. Il General Intellect, esprimendo capacità creative collettive, seppur sottomesse ed espropriate, poteva essere il punto di riferimento, addirittura la leva per una trasformazione radicale. In altre parole, riappropriarsi di questa intelligenza collettiva poteva significare un ribaltamento dei rapporti sociali. Oggi non è più così: nell’epoca della riproduzione è la mera funzione, ovviamente ad alto tasso di intercambiabilità, ad essere fondamentale (perciò le richieste di flessibilità non sono il frutto maligno di un padronato rapace, quanto un’esigenza precisa nel neomoderno), e non più l’intelligenza collettiva già incorporata nell’essere inorganico (il capitale). Ben altra e più drammaticamente radicale è la trincea su cui si sta giocando e si giocherà la partita. Pertanto ridicola è la pretesa di ridurre quello che venne definito General Intellect alle capacità tecnologiche o “scientifiche” di singoli o di gruppi (nella cibernetica, nella telematica eccetera) e di attendersi da lì una specie di “nuova avanguardia”: queste intelligenze sono ormai asservite alla macchina, con un singolare rovesciamento della funzione di protesi, e i suoi portatori ridotti a riproduttori, magari ad alto livello, dell’esistente.
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Importante è discernere tra la produzione e la riproduzione allargata. La produzione contiene in sé qualcosa di “creativo”, di “inventivo”. La riproduzione no; è, se così si può dire, null’altro che una variazione sul tema. Per esempio, il passaggio dal calesse all’automobile è stato produttivo ed epocale e ha coinvolto enormi masse di persone, mentre il passaggio dalla Uno alla Punto sta all’interno di un programma di “modernizzazione” volto a incrementare la volubilità di un mercato drogato ed è una forma della riproduzione. In altri termini, finite le innovazioni reali, autonomizzandosi sempre più lo spettacolo, tutte le apparenti innovazioni, in qualsiasi ambito, sono soltanto delle modificazioni e delle modulazioni secondo i criteri della riproduzione.
Per questo fenomeno, fondativo del neomoderno, se dal punto di vista produttivo è corretto definirlo come passaggio alla riproduzione allargata e iterativa, se dal punto di vista macroeconomico si può parlare di fine dell’economia, intesa come suddivisione che si pretende razionale delle risorse e come loro impiego rivolto a fini di progresso, dal punto di vista sociale non si può che affermare che si tratta di glaciazione sistematica e sistemica.
Naturalmente, ma secondo la “naturalità” del capitale, la produzione apparentemente persiste. Se non fossero state prodotte le penne che abbiamo in mano, noi non scriveremmo; se non fossero stati prodotti i computer noi non comunicheremmo attraverso tale mezzo. Ma è una produzione finalizzata a due soli scopi: la riproduzione iterativa delle stesse merci, pur con modificazioni modali, e la costanza dell’ordine societario. La costanza dell'(nell’)ordine sociale implica essenzialmente una persistenza e una divisione di ruoli, anche, se non soprattutto, al di fuori del momento produttivo. La riproduzione ha da essere infinita, con sterminate variazioni, soprattutto sul terreno dello spettacolo, che però non servono più alla creazione di materialità e di ambienti che realmente superino quelli precedenti, mentre in realtà li imitano, concedendo solo nuove fantasmagoriche apparenze.
La borghesia, senza con ciò voler riproporre dei tipi di concetti di classe che appaiono oggi obsoleti ed evidentemente senza voler dare in questa sede alcun giudizio morale o politico su di essa, in un determinato periodo storico ha espresso la forma e la forza dell’innovamento, della modificazione dei sistemi produttivi. Non a caso si è impadronita dell’Intelligenza Generale espropriandola ai suoi singoli possessori e portatori e rendendola, prima, astratta, e ritraducendola, poi, in forza produttiva. L’ultima chance della borghesia è stata la società dello spettacolo, cioè un coagulo di rappresentazioni della realtà sino ad allora prodotta e controllata. Oggi, nell’epoca del neo moderno e della riproduzione quasi sempre autoritativa, la borghesia (ammesso che questa categoria la si possa ancora impiegare) non ha più niente da produrre nell’accezione sopra espressa, ben poco da rappresentare se non sul terreno delle virtualità e pressoché nulla da dire, ormai parassitaria non soltanto di altre classi ma del suo stesso passato. Molto più da dire hanno le polizie o i supermercati.
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La riproduzione allargata significa l’iterazione del presente con modificazioni di piccolissima portata. Non per nulla, le più importanti e finanziate ricerche riguardano il campo della medicina, della sociologia, dell’ambiente, della comunicazione massmediatica o della bioingegneria. Il corpo umano, disossato della sua capacità di forza di lavoro, che è stata resa per lo più superflua (ma evidentemente senza che ciò sia coinciso con l’abolizione della maledizione del lavoro), ritorna in primo piano come luogo dell’Amministrazione.
Per Amministrazione non intendiamo solo le singole e specifiche amministrazioni, bensì il sogno utopico di amministrare una sorta di eterno presente, estendendo le forme dell’amministrazione in ogni piega della vita collettiva e individuale. Esempi buffi: se aumenta a dismisura il numero degli assicuratori è perché più nulla può venire in realtà assicurato; se cresce freneticamente il numero dei vari professionisti è perché in effetti non esistono quasi più delle reali professioni; se si gonfia quotidianamente il numero dei guardiani (in senso lato) è perché la società è obbligata a salva-guardarsi da qualsiasi rischio di trasformazione radicale.
Vi è un processo, per il momento inarrestabile, di desertificazione stricto sensu (si pensi al concreto deperimento, a causa di incuria o di iper-sfruttamento, di interi territori con tutte le conseguenze che sono ben note: carestie, epidemie, gravi squilibri nell’ecosistema eccetera, da un lato, e alla spoliazione di senso di ampie zone urbane, dall’altro). Questo processo di desertificazione ovviamente si ripercuote in modo pesante sulle esistenze, sulle capacità, sulle intelligenze dei vari individui: con grande fatica appaiono i nuovi beduini; che sappiano bersi il tè nel deserto.
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Il nihilismo è ormai essenzialmente monopolio del capitale e dello Stato. Del capitale in quanto, riscontrata la sua impossibilità innovativa (quello che sinteticamente indichiamo come la fine del Progresso), dovendo realizzare valore anche e soprattutto senza il lavoro (che rimane come imposizione autoritativa o consolatoria), volendo persistere, deve amministrare quel deserto animato da merci che ha costruito e in cui è costretto. Non si creda però che la riproduzione del nulla sia nulla. Si sviluppano le attività riproduttrici del nulla.
Per “nulla” intendiamo un “qualcosa” che, pur esistendo e spesso possedendo un “valore” (a causa del processo di autonomizzazione del valore dalle sue basi materiali), è deprivato di senso intrinsecamente e profondamente umano, non allude neppure lontanamente a una passata o futura comunità umana, non attiene alla necessità della specie. In questo senso, sono più teorici, seppur involontariamente, taluni venditori di mercanzie che non filosofi o pretesi teoreti. Questi mercanti, quando proclamano: “Ma prendi questo oggetto: non costa niente!”, non intendono, ovviamente, dire che l’oggetto viene scambiato gratis e neppure, in modo più ammiccante, che costa poco. Vogliono dire: “Non cambia nulla nella tua vita né l’averlo né il non averlo, né l’esborso per averlo, né il risparmio nel non averlo”. Infatti, pur nella loro manifesta demenza, fioriscono merci materiali e immateriali, traffici di ogni tipo, ideologie comprese. Ma queste merci non possono possedere più alcun requisito qualitativo, nullificate (livello economico) in mero valore di scambio o (livello simbolico) come immagini rappresentative di una vita assente.
Lo Stato, dal canto suo, deve tenere in piedi delle rappresentazioni collettive del nulla (la politica, con il suo codazzo di votazioni, cambi della guardia e dei controlli sui racket eccetera, ne è un esempio preclaro) e, d’altra parte, istituire un complotto costante e preventivo contro tutte le istanze di rivolta che possano o possono esprimersi, specie se con forme “antisociali”. Infatti, a dispetto delle declamazioni di molti, lo Stato è esattamente la società civile e la società civile si esplica appunto nello Stato. Un’autonomia della cosiddetta società civile è una delle ultime menzogne del neomoderno, sotto l’aspetto ideologico. Infatti, più polizia (e basta confrontare i numeri negli ultimi vent’anni) significa paradossalmente più Stato sociale e più mafia, o “lotta” ad essa. La società civile è il fuoco fatuo della società neomoderna: perciò suona tanto bene e molte bocche se ne riempiono. Nel nulla bisogna pure che appaiano dei bagliori.
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Nell’epoca sovversiva degli anni Venti si poteva parlare, in via di tendenza, di post-capitalismo come pretesa di costruire forme di società che fossero OLTRE il capitalismo, ma non ancora approdate a un comunismo effettivo, a un’acrazia. Oggi, dal punto di vista della società e dei suoi sudditi, al contrario tutto deve rimanere sempre moderno, diventare sempre più moderno ed è per ciò che risulta improponibile parlare di postmodernità, se non nell’accezione di una superfetazione ideologica: il postmodernismo.
Neomoderno invece è il concetto che ingloba e certifica questa, per ora, costante tendenza, mistericamente riformatrice del nulla. Il nihilismo di capitale e Stato e la società neomoderna sono esattamente la stessa cosa: amministrano l’apparenza, presuppongono il nulla, non come teleologia ma come intercambiabilità assoluta, fingono l’esistenza di una produzione che palesemente è divenuta riproduzione, cioè senza più alcun possibile progresso. Progresso inteso in più sensi: l’innovazione produttiva, come si è detto, ma anche il progredire delle conoscenze umane, dei metodi per accrescere il benessere collettivo e individuale, delle idee genialmente espresse e sostenute, delle arti e dei mestieri.
Il neomoderno non è certo la fine del progresso, bensì l’assunzione cosciente di questa fine conclamata e dunque la coscienza organizzante della società che l’ha prodotta. Resisi conto che non c’è più la possibilità di un qualche sviluppo, che il progresso si sta trasformando in degresso, gli amministratori dell’esistente, dopo essersi giocata la carta estrema dello spettacolo, come sviluppo delle e nelle rappresentazioni che sostituissero la realtà intollerabile, di modo che il falso e il vero si confermassero a vicenda e incomprensibilmente, hanno capito cosa dovevano e potevano fare: fingere di creare valore dal capitale finanziario e circolativo, spingerci ad essere tutti consumatori di qualsiasi cosa, meglio se sprovvista di qualsivoglia utilità, ad essere tutti professionisti, operatori o artisti, ad essere umili e tracotanti al tempo stesso. La Guerra del Golfo o i fatti della Bosnia sono esempi incontrovertibili del trionfo del nulla e dunque del neomoderno. L’AIDS è la sua sintomatologia. La sua pandemia.
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Che cosa fare, dunque, contro l’iterazione del nulla, contro la dominazione dell’inorganico, contro l’assenza di un qualche “centro” (tutto è necroticamente diffuso, anche se effettivamente ci sono soggetti specifici che si incaricano di dirigere e controllare la necrosi) contro cui scagliarsi? La domanda, in apparenza senza possibilità di risposta, una qualche risposta invece ce l’ha: la rivolta dell’organico (dei corpi) in ogni situazione possibile, la massima resistenza, in ogni campo, al neomoderno e nessuna collaborazione con qualsivoglia espressione di esso, l’attacco virulento al Nihil organizzato, costruendo senso e sua comunicazione. Non si possono fornire delle indicazioni più precise. Ma alcune ipotesi sono già fin d’ora chiare:
* rifiutarsi di assumere i termini della politica comunemente intesa e della democrazia come costitutivi di una qualche azione sovvertente o trasformativa;
* respingere ogni possibile lusinga della partecipazione alla cosiddetta società civile: purtroppo ci siamo già dentro quando lavoriamo, quando pensiamo di godere del tempo libero, quando giocoforza sopportiamo il dominio;
* cominciare, o continuare, a svivere smodatamente usando questa categoria come criterio.
NOTA:
Il testo che precede, in forma assai ridotta, concentrata e spesso apodittica, è stato fatto circolare in Italia sulla rete telematica ECN nell’aprile 1994, nel corso di una polemica che vedeva opposti compagni di 415, di cui faccio parte, e alcuni neo-operaisti (i tardi profeti del GeneraI Intellect e dell”’operaio sociale” di toninegriana memoria eccetera). L’attuale versione ovviamente non contraddice per nulla il senso di quello scritto, ma ha cercato di articolarlo, di svilupparlo, di arricchirlo di argomentazioni. Dopo discussioni ed incontri, è stato deciso di pubblicare questo nuovo testo in Francia su «Temps Critiques» e di utilizzarlo in vari modi in Italia. Questa nota è per la precisione storica.
Riccardo d’Este
Urbino, 3 novembre 1994