“Sicurezza” e carcere sociale

cordatesa18

Della Legge Gozzini, dei suoi critici, dei suoi difensori

La bandiera della sicurezza, che tutti i partiti dentro e fuori il parlamento sventolano, rammenta, a coloro che trovano ancora piacere nel riflettere e non si sono rassegnati alla contemplazione pensosa del nulla che inghiotte infaticabilmente ogni umana vicenda, il noto paradosso della protezione su cui prosperano dai tempi più lontani le mafie grandi e piccole.

Immaginiamoci un dialogo tra due individui: “Buongiorno, sono venuto a proporle la mia protezione. Lei, in cambio di questo mio servizio, mi corrisponderà…”. “Mi scusi se la interrompo, ma io non ho mai avuto bisogno di protezione, e poi da chi dovreste proteggermi? E come fareste a difendermi?”. “Non ha capito. È da me che lei si deve proteggere. Ed è per questo che la mia protezione è affidabile: perché sono insieme la minaccia e la difesa.” In realtà, non è neppure vero che la mafia protegge, perché, una volta che si disveli, pagando, di essere indifesi e incapaci di farsi valere, a che pro consegnare la merce promessa? In ogni caso non ci si trova più nella condizione di reagire.
Allo stesso identico modo si conducono i governi che, in quanto garanti del presente stato di cose, stanno all’origine della radicale insicurezza in cui languono i singoli e le loro deprimenti aggregazioni, mentre si presentano come unico possibile usbergo contro questa stessa insicurezza. Il poliziotto – che del governo è la proiezione quotidiana sul territorio – mentre ti minaccia realmente, ti rassicura idealmente: a condizione, beninteso, che tu sia completamente alienato, separato dalla tua attività e separato e contrapposto rispetto a chi ti sta a fianco e condivide la tua sciagurata condizione. Ma è davvero difficile sfuggire a una tale alienazione, dal momento che ciascuno è costretto a concentrarsi forsennatamente sugli affari propri, minacciati dall’inflazione, dalla precarietà, dagli adempimenti, dalle tasse, dalla disoccupazione; nello stesso tempo è scoraggiato in qualunque forma di presenza politica, o anche solo di riflessione sulla propria condizione; è posto in concorrenza con tutti coloro che incontra, siano essi colleghi, datori di lavoro, dipendenti, vicini, parenti, sconosciuti, stranieri; è obbligato a misurare e ad essere misurato utilizzando un equivalente onnipotente, il danaro, di cui dispone in misura infinitesima, stretto fra debiti certi e inesorabili e crediti modesti, incerti e malsicuri; si ritrova sprovvisto di qualunque identità collettiva, e minacciato nelle basi della propria stessa identità personale, dal momento che il passato viene sempre più spesso rimaneggiato e reso nebuloso, e il futuro si prospetta come un accumulo di sole minacce.
Il risultato è quello di una crescente affezione dell’infelice cittadino per il proprio aguzzino, che in sostanza rimane l’ultimo e l’unico ad interessarsi di lui. In quali condizioni può versare qualcuno cui il postino recapita solo multe, e che per strada viene fermato unicamente dai vigili, e la cui identità interessa solamente i carabinieri dei posti di blocco?
La più banale osservazione psicologica ci indica come i bambini maltrattati si affidino fra i due genitori preferibilmente a quello che li maltratta piuttosto che a quello che permette che siano maltrattati. Nessuno dei due vuole loro bene, ma uno dà segno di riconoscerli, l’altro neppure quello. La condizione del proletario che è sempre stato maltrattato, va divenendo sempre più quella di un minorenne: sradicato dalla comunità nella quale egli poteva trovare calore e al tempo stesso conquistare visibilità e prestigio, costretto a confrontarsi con un mondo di cui gli sfuggono sia i fondamenti sia soprattutto gli strumenti (per una competizione su base mondiale, risultano tutti, anche i non poverissimi, comunque del tutto inadeguati: il prezzo del vivere è praticamente troppo caro per tutti, un’esperienza, questa, che nel passato si associava quasi soltanto ai periodi delle grandi guerre, periodi nei quali si era disposti a qualunque sacrificio, meglio se altrui, per pervenire alla pace). Di conseguenza, occorre riconoscere che l’insicurezza è una condizione effettivamente diffusa e fondata, specie fra quei ceti condannati al quantitativo che fanno la fortuna degli empori e dei partiti di massa. D’altronde, già sessant’anni fa Umberto Saba in “Scorciatoie e Raccontini” osservava che i vecchi avvertono più intensamente la paura dei ladri, perché ciò che temono davvero è la visita della morte, che ruberà loro la vita.
In una società incanutita e rimbambita come la presente, in cui la vita è stata già rubata alla fonte, senza mai essere stata davvero concessa alla maggioranza dei nostri contemporanei, è quasi inevitabile che ci si aggrappi ai propri possessi, che sono la sola verosimile allusione all’esistenza in vita del possessore. Chi deruba, calpesta il proprietario, calpestando la sola parte di esso destinata a sopravvivergli, lo deruba dell’anima, sfida l’unica fede superstite, quella nell’economia del sacrificio. Il punto è che tutti gli interventi in nome della sicurezza, quegli stessi interventi che gli spossessati reclamano senza posa, aumentano e non riducono l’insicurezza degli spossessati medesimi. Ma parallelamente aumentano la devozione canina e abietta per i potenti, per i vincitori, per i decisionisti, e l’odio per chi diffonde il dubbio, per chi svela i miserabili arcani, per chi dileggia gli idoli, per chi pone senza infingimenti gli individui di fronte alla loro condizione disprezzabile, per chi rammenta che l’unica possibile salvezza ciascuno la può determinare solo partendo dalle proprie forze.
Per conseguenza la recente proposta di mutilare la Legge Gozzini, non è una contraddizione ma una parte coerente del disegno di alienazione perfetta ad opera del totalitarismo democratico rappresentato oggi in Italia dalla coalizione condotta dall’ignobile Berlusconi (in maniera non dissimile ma molto più conseguente degli ipocriti che lo hanno preceduto, i quali meglio si accomodano nel ruolo di prefiche lagnose ed impotenti). L’aggravamento delle condizioni di detenzione contemplato dai critici della Legge Gozzini corrisponde infatti a diversi obiettivi, fra loro convergenti: innanzi tutto, brutalmente rendere più aggressiva la voce dello stato, in sostanza bastonare qualcuno semplicemente per far roteare il bastone sotto gli occhi di tutti; in secondo luogo, sottolineare il concetto, fondamentale in tutti i periodi di stretta autoritaria, dell’esistenza di uno specifico strato sociale votato al delitto, verso cui nessuna vessazione sarà mai eccessiva, diverso e separato, rispetto alla popolazione comune, e soprattutto rispetto allo strato dei governanti, che – trovandosi agli antipodi sociali di quello – va per definizione riconosciuto come composto da membri stimatissimi della comunità, nei confronti dei quali qualsiasi indagine non può che essere frutto di maligni preconcetti; in terzo luogo, indicare l’abisso sul cui ciglio si situano tutti coloro che si trovano in mezzo, ciglio cui si avvicinano ogni qual volta allentano l’abbraccio con i governanti (e qui si spiegano tutte le trasgressioni inventate dal codice a proposito di condotte di uso corrente, quali il consumo di droghe, l’inosservanza al codice della strada, l’inosservanza del copyright, l’evasione fiscale).
Si tratta in pratica di un’estensione del concetto di “tolleranza zero” e del concetto equivalente ad esso sotteso di “sudditanza infinita”. Ancora una volta il carcere si conferma come paradigma estremo della condizione del suddito sociale: la salvezza viene additata come conseguibile unicamente tramite un’adesione quasi fisica alla fonte della legge, ai vertici; la relazione con tali vertici è “personalizzata”, gestita in solitudine totale; e non è davvero un caso che il sindacato degli industriali proponga di pervenire a quella contrattazione individuale che è l’apoteosi della società senza classi, in cui ciascuno è richiamato a giocare “sul mercato” alla pari – senza riguardo al dettaglio che, da una parte, si paga con una frazione delle vincite accumulate nelle precedenti partite, dall’altra con la totalità del proprio tempo, quel tempo che è l’unico possesso di chi non possiede nulla.
D’altronde è proprio l’ormai compiuta colonizzazione del tempo ad opera del sistema delle merci e delle leggi, che ha diffuso come una lebbra l’ossessione di salvaguardare il proprio spazio, quello spazio che del tempo è da sempre il cascame meschino, il surrogato destinato alle personalità servili. Precisamente come si è operato da tempo negli Stati uniti, alla fase del trattamento personalizzato, delle commissioni di verifica periodica del comportamento (commissioni dal cui cospetto era impossibile uscire altrimenti che in ginocchio, come bene illustrava George Jackson), va subentrando la riedizione aggiornata del “delinquente per indole e per tendenza” tipico della prima metà del Novecento, o addirittura di quelle “classi pericolose” che, con la propria semplice esistenza testarda e nullafacente, avevano minacciato il nascente capitalismo, al tempo delle grandi deportazioni dei mendicanti, dei bracconieri, delle prostitute, dei vagabondi, degli oziosi. E un contraltare perfetto alla cessazione dell’automaticità dei benefici della Gozzini, possiamo ammirarlo nella scelta (peraltro mirabilmente bipartisan) dell’introduzione dell’ergastolo automatico per chi uccide qualche appartenente al livello più intenso della domesticazione, quello che ti concede il diritto a circolare armato con indosso le insegne della vergogna nazionale.
Detto questo, notiamo quanto sia inutile e finanche indisponente la circolazione di taluni appelli che mirano alla difesa della Legge Gozzini medesima, allorché si giunge alla lettura in calce del codazzo di firme proprio di coloro che per decenni si sono impegnati nella desertificazione di ogni possibile spazio in cui appelli del genere avrebbero potuto essere benevolmente accolti.Non solo i nomi di molti degli appellanti inducono al dileggio e alla pernacchia – anche perché pesantemente lardellati da specialisti nell’arte immonda di accarezzare le piaghe, quali preti, assistenti sociali, politici, ravveduti e così via; ma accuratamente si evita di ricordare quale sia stata la funzione della Gozzini per la pacificazione e la socializzazione dei detenuti e si riprende, senza esitazioni, la questione della sicurezza agitata dal governo, semplicemente proponendo un’alternativa più armoniosa, più biodegradabile, più soft, per la realizzazione del medesimo fine, la socializzazione totalitaria, l’edificazione di un sistema di reciproco asservimento.
È lampante che ogni sistema, anche residuale come la Gozzini, che conduca a una riduzione del tempo trascorso dietro le sbarre, o in un’altra delle condizioni infelici previste dall’ordinamento penitenziario, va guardato con sfavore assai minore rispetto a provvedimenti che viceversa prolungano questa condizione di capillare mancanza di libertà. Ma occorre ricordare che mai sono stati gli appelli e le democratiche istanze a condurre alle riforme penitenziarie, persino le più timide; ma solo la speranza di disinnescare la minaccia esercitata da carcerati coscienti e irriducibili; e possibilmente dall’esistenza di un movimento esterno di solidarietà con le rivolte, le evasioni, le ritorsioni contro la vile custodia. In assenza di tutto questo, i carcerati, precisamente come quelli che permangono in una condizione non ancora perfettamente ristretta all’esterno delle carceri, possono sperare unicamente nella magnanimità di chi scrive le leggi e di chi le applica. E da un bel pezzo (certuni sospettano, da sempre) è impossibile trovare anche un solo uomo magnanimo sullo scranno del legislatore, del governante, del giudice. Lo strumento dell’appello è solo un’ulteriore prova della natura nefasta e ignobile dello stato, che riduce degli adulti, nati per essere liberi, a chiedere rispettosamente come si faceva nella Sardegna del Settecento di “procurare di moderare la tirannia”. Allora lo si chiedeva ai lerci baroni sabaudi, oggi ai putridi mascalzoni repubblicani. In che cosa consisterebbe il progresso?

I Filiarmonici

10 Settembre 2008

 Filiarmonici