Notti bianche e cieli stellati (it/fr)

A car burns after the family riding it drove through a flaming barrier during a protest against the 2014 World Cup in Sao Paulo

La Coppa del Mondo non è un affare di calcio. Se un paese è candidato per l’organizzazione di questo evento, è perché il calcio esercita oggi la stessa funzione di uno spettacolo di gladiatori nell’antica Roma, oltre a costituire un’occasione insperata per lo Stato organizzatore di far avanzare a passi da gigante il proprio sviluppo economico e la propria influenza politica. La Coppa ha costi mostruosi, tuttavia il rientro sull’investimento promette quasi a colpo sicuro di essere assai lucroso.

Il Brasile, considerato una delle grandi potenze economiche mondiali, conta d’avanzare ancora di livello organizzando la Coppa e i Giochi Olimpici.
La Coppa del Mondo è anche un progetto del potere per imbrigliare le tensioni sociali e offrire lo spettacolo della sua adorazione. Per le entità statali e gli interessi economici è un’occasione di creare le condizioni per aprire nuovi mercati, per tappare la bocca a certe resistenze e per realizzare un salto qualitativo nell’occupazione del territorio e nello sfruttamento capitalista. È il maxi-raduno moderno di Stato e Capitale, dove l’arroganza del potere si esibisce nello spettacolo degli stadi, delle masse sbraitanti, degli schermi, delle trasmissioni in diretta e della fierezza nazionale.
La concessione dell’organizzazione della Coppa del Mondo 2014 allo Stato brasiliano ha comportato una intensificazione immediata e sistematica della militarizzazione della gestione della «pace sociale». Create sul modello delle tristemente celebri «operazioni di pacificazione», sono nate nuove unità di polizia, le Unidades de Polícia Pacificadora (UPP), istituite dal 2008 nei quartieri critici e nelle favela di Rio de Janeiro. Nel nome della guerra contro i trafficanti di droga, lo Stato ha ripreso il controllo dei quartieri militarmente. Nello spazio di quattro anni, secondo stime ufficiali, solo a Rio de Janeiro più di 5.500 persone sarebbero state uccise dalla polizia. Nei quartieri da cui le bande di trafficanti sono state cacciate, ora sono i paramilitari a fare il bello e il cattivo tempo.
Ma la Coppa del Mondo ovviamente non attiene solo all’aspetto delle uniformi. Per una cifra superiore ai 3.500 milioni di dollari, sono stati costruiti stadi in luoghi strategici delle città. Sono state sgomberate e rase al suolo diverse favela per costruire nuovi quartieri per le classi medie, centri commerciali, alberghi di lusso e predisporre siti balneari. Vie di trasporto e autostradali sono state allestite e messe in sicurezza; aereoporti, porti e reti elettriche sono stati costruiti o ricostruiti. A Rio de Janeiro, 250.000 persone sono state sgomberate dalle loro abitazioni per far largo ai progetti edilizi legati alla Coppa del Mondo del 2014 e ai Giochi Olimpici del 2016. La Giustizia brasiliana non ha nascosto le proprie intenzioni relative alle future destinazioni d’uso di tutti quegli stadi, che per lo più serviranno solo per ospitare qualche partita: sono in corso studi per esaminare come i nuovi stadi di Manaus, Brasilia, Cuiabá e Natal possano essere trasformati in prigioni.
La Coppa del Mondo è dunque una operazione d’epurazione sociale. Lo Stato e il Capitale si sbarazzano degli indesiderabili, di quei settori della popolazione divenuti superflui nella circolazione mercantile e che sono solo potenziali fonti di disordini. Tuttavia sarebbe un errore considerare questa operazione una “eccezione” che le democrazie legittimano attraverso la Coppa del Mondo: si tratta proprio di una ristrutturazione, di rafforzamento del controllo sociale e di sfruttamento. Coppa del Mondo o crisi, guerra o ricostruzione, disastri naturali o urgenze… il potere ci fa intravedere «situazioni d’eccezione» che di fatto costituiscono il cuore stesso del progresso capitalista e statale.
Il maxi-raduno della Coppa del Mondo apre tutti i mercati immaginabili. E ciò non riguarda unicamente la speculazione immobiliare o l’industria della sicurezza. Da mesi i contadini segnalano che camion carichi di cocaina vanno e vengono dalla Colombia per rispondere ai “bisogni” dei tre milioni di turisti attesi. Proprio come durante la Coppa del Mondo in Sud Africa nel 2010, la prostituzione si svilupperà in modo vertiginoso. Nei cantieri degli stadi, dove numerosi operai immigrati sgobbano in condizioni particolarmente dure, le imprese li frustano per riuscire a mantenere le scadenze. Per non parlare delle diverse fazioni di potere che in Brasile trattano e concludono accordi con il governo: bande di trafficanti si occupano del lavoro sporco di cacciare coloro che oppongono troppa resistenza ai programmi urbanistici, mentre i paramilitari vengono impiegati da alcune aziende per garantire la sicurezza nei cantieri e schiacciare scioperi e proteste a colpi di ricatti e di omicidi.
Ma il nuovo elemento non è dato da tutto questo orrore, quanto da come nel giugno 2013 il Brasile si sia infiammato per quasi un mese. Quello che è cominciato come un movimento contro l’aumento dei prezzi dei biglietti nei trasporti si è trasformato in una rivolta incontrollata e generalizzata contro il potere. A partire da quei giorni di rivolta, si sono sviluppati sempre più conflitti attorno agli sgomberi, più resistenze contro i piani di austerità, più proteste contro gli omicidi polizieschi, oltre a disordini antipatriottici – come quelli avvenuti durante la festa nazionale del 7 settembre – poi degenerati e sfuggiti al controllo della mediazione politica classica. In questi ultimi mesi è nata in Brasile un’immaginazione sociale che domani potrebbe incendiare nuovamente le strade.
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Mentre in Siria il potere ed i suoi concorrenti cercano di arrestare l’ondata di sollevamenti e rivolte che contamina sempre più regioni del mondo, affogandola in un bagno di sangue; mentre in Grecia la popolazione viene oppressa e terrorizzata allo scopo di cancellare la memoria dell’insurrezione del dicembre 2008; mentre in Ucraina un moto popolare viene calpestato da un macabro gioco tra diverse fazioni di potere; mentre in Egitto, Turchia, Bosnia, Libia, ecc., l’ordine sembra riorganizzarsi e ristabilirsi, la Coppa del Mondo in Brasile si presenta come un tentativo di ricoprire con una cappa di piombo le contraddizioni sociali che attraversano tutta l’America Latina.
Pur assumendo differenti forme a seconda dei contesti e delle condizioni, una ristrutturazione del Capitale e dello Stato è in corso ovunque nel mondo. Le frontiere nazionali si rivelano più che mai essere quello che sono sempre state: reti e mura per gestire la rivolta potenziale dei diseredati. Non è quindi un caso se di fronte alla contaminazione palese fra le diverse rivolte degli ultimi anni – una contaminazione che non si basa molto su condizioni analoghe, quanto piuttosto su una nuova immaginazione non-mediata della possibilità di sollevarsi, di un’altra vita – lo Stato insiste sul nazionalismo e sui sentimenti più reazionari: dai movimenti fascisti in ascesa nel continente europeo fino alla rinascita del patriottismo in paesi che hanno conosciuto una «primavera araba», dall’antimperialismo da due soldi di antichi funzionari come Chavez fino alla febbre per le squadre nazionali del pallone.
Ma invece di soffermarci ancora sui movimenti internazionali della reazione, concentriamoci piuttosto su quelli della rivolta e delle possibilità che aprono. Nel corso della rivolta del giugno 2013, in Brasile, gli insorti hanno urlato: «dopo la Grecia, dopo la Turchia, ora è la volta del Brasile!». Le rivolte che abbiamo conosciuto in questi ultimi anni hanno aperto uno spiraglio per farla finita con il qui ed il laggiù. I legami fra i differenti Stati nazionali in materia di repressione si sono certamente rafforzati con rapidità vertiginosa, ma questo non dovrebbe lasciarci attoniti o spaventarci. Vista la crescente instabilità sociale e l’intreccio globale delle economie e dei sistemi statali, si può immaginare che se qualcosa accade da qualche parte, ciò potrebbe avere delle conseguenze anche altrove. E questo movimento è già in corso nella stessa immaginazione, terreno particolarmente fertile per la rivolta. Si tratta adesso di far penetrare questa immaginazione anche nei nostri progetti di lotta e cogliere le occasioni che si presentano.
Non esiste una scienza dell’insurrezione. Molti esempi recenti – dalle sommosse di Londra nel 2011 ai sollevamenti nel mondo arabo – ci mostrano il carattere imprevedibile dell’insurrezione. I pretesti possono anche essere molto “banali”. Questa imprevedibilità non dovrebbe tuttavia spingerci verso una posizione di attesa del «prossimo turno» da qualche parte nel mondo; ma afferma piuttosto la necessità di una conflittualità permanente, di una preparazione nel pensiero e nell’azione. Solo così si può sperare di non ritrovarsi sprovveduti in simili momenti: indipendentemente da dove ci si trova sul pianeta, si potrà tentare di dare contributi qualitativi che spingano le rivolte in corso verso una direzione radicalmente emancipatrice, per colpire le strutture basilari del dominio moderno e della sua riproduzione, strutture situate dietro i ranghi degli sbirri e le facciate delle banche. Sottolineare il carattere imprevedibile dell’insurrezione non significa avere la pretesa che cada dalla luna. Vuol dire solo precisare che ci possono essere tensioni che indicano possibilità crescenti di rivolta, ma che non vi è alcuna certezza di sapere se queste possibilità diventeranno realtà. Viceversa, ci possono essere contesti o conflitti che non lasciano affatto intravedere il prossimo scatenamento della rivolta e che fanno tuttavia saltare il coperchio della marmitta. L’imprevedibilità dell’insurrezione non dovrebbe tuttavia essere un grosso problema per gli anarchici che si scontrano continuamente con l’autorità, ma è un grosso problema per lo Stato. Se analizziamo i massicci investimenti che vengono fatti su scala internazionale per il controllo e gli strumenti repressivi, non sembra che lo Stato sia del tutto inconsapevole di questo punto debole.
L’insurrezione è un gioco di legami inauditi e di azioni impreviste. Non è una matematica dove le presenze numeriche determinano la risposta definitiva. Non è una questione di “solidarietà esterna” che applaude la rivolta altrui. Ogni contesto ed ogni momento offrono possibilità ed opportunità differenti. Gli anarchici devono darsi analisi, conoscenze e strumenti per passare all’offensiva ed attaccare.
Occorre anche cercare di imparare, nelle nostre analisi come nelle nostre pratiche, dalle esperienze insurrezionali. Il tempo del dominio corre sempre più veloce e fa dissolvere la memoria dei ribelli. Le insurrezioni non sono la rivoluzione sociale e non possono nemmeno essere considerate come tappe in uno sviluppo lineare verso la rivoluzione sociale. Sono piuttosto momenti di rottura nel corso dei quali il tempo e lo spazio sfuggono in maniera effimera alla morsa del dominio. Visto l’accentuarsi della repressione – dato che l’autorità è sempre pronta ad affogare nel sangue l’insurrezione degli oppressi – e l’apparente confusione delle motivazioni di tante persone durante i momenti contemporanei di rivolta, alcuni indietreggiano davanti alla prospettiva insurrezionale. E tuttavia. È proprio l’insurrezione che spezza la stretta del controllo e della repressione in un mondo in cui lo sterminio di massa ed il massacro organizzato sono già la routine quotidiana dello Stato e del Capitale. È proprio l’insurrezione che può creare lo spazio che consente di tradurre il rifiuto e la rivolta in idee più chiare e più decise. La paura del carattere imprevedibile ed incontrollabile dell’insurrezione non si trova solo dalla parte dell’ordine, ma anche presso i rivoluzionari che cercano la salvezza nella ripetizione di vecchie ricette politiche: invece dell’attacco dappertutto e continuo, la costruzione di un movimento rivoluzionario unificato; invece dell’insurrezione, lo sviluppo graduale di un «contropotere»; invece della distruzione necessaria, l’illusione di un cambiamento progressivo delle mentalità. Si vedono allora anarchici che riprendono il ruolo della sinistra morente o ex-insorti che partono alla ricerca di certezze con elucubrazioni sul «soggetto storico del proletariato» o che si mettono a leggere le opere di un Lenin per trovare le ricette di una «rivoluzione vittoriosa». Eppure le recenti esperienze insurrezionali mostrano tutte la necessità di trovare altre strade, strade che si separino radicalmente e definitivamente da ogni visione «politica» della guerra sociale.
La prospettiva rivoluzionaria classica dell’autogestione è morta. È ora di prenderne definitivamente atto e di porre fine ai tentativi di resuscitarla con altre parole e sotto altre forme. Nessuna struttura del capitale o dello Stato può essere ripresa per servirsene in maniera emancipatrice; nessuna categoria sociale è per essenza portatrice di un progetto di trasformazione sociale; nessuna battaglia difensiva si trasformerà in offensiva rivoluzionaria. Il paradosso contemporaneo da affrontare è nella constatazione che da un lato l’insurrezione ha bisogno di un sogno di libertà che le dia ossigeno per perseverare, e dall’altro la sua opera può essere solo totalmente distruttiva, per avere una speranza di superare l’estinzione e l’incistamento. L’insurrezione è necessaria per preparare il cammino verso la liberazione individuale e sociale; e sono le vitamine dell’utopia che forzano orizzonti insperati per sfuggire alla prigione sociale. È a partire dal confluire di una pratica insurrezionale con le idee di libertà che una prospettiva rivoluzionaria contemporanea può nascere.
Il carattere distruttivo dell’insurrezione è la base per la distruzione dell’edificio della prigione sociale nella quale viviamo tutte e tutti. È necessario analizzare e studiare dove si trovano oggi le sue mura, i suoi guardiani, le sue torrette, se ci proponiamo di colpirle. Il dominio moderno ha disseminato dappertutto strutture che permettono la riproduzione della prigione sociale. Pensate alle infrastrutture tecnologiche onnipresenti che ci collegano tutte e tutti al ruolo di prigionieri senza che abbiano catene visibili in quanto tali. Oppure come l’accumulazione capitalista si orienti fondamentalmente verso la circolazione. In Europa, in ogni caso, lo sfruttamento non si concentra più come prima in grandi bastioni, ma si è espanso e decentralizzato in tutti gli aspetti della vita. Le connessioni tra questi aspetti sono assicurate da strade, cavi, oleodotti, linee ferroviarie e condotti sotterranei che rappresentano le vene del dominio. Non saremo certo gli ultimi a lanciare grida di gioia se qualche insorto darà fuoco al parlamento in qualche parte del mondo, ma i contributi anarchici alla guerra sociale consistono forse anche nell’indicare ed attaccare più precisamente come e dove l’autorità si alimenta e si riproduce.
Ma la distruzione non basta. L’azione e il pensiero devono camminare mano nella mano. Non si può sperare di radere al suolo le mura della prigione sociale se non cerchiamo già di guardare oltre la sua cinta, verso orizzonti sconosciuti, anche se non è facile. Non si può pensare liberamente all’ombra di una cappella. Esatto. Ma la cappella non è soltanto un edificio, è una materializzazione dei rapporti sociali e delle ideologie dominanti. È desiderando ciò che questi rapporti ed ideologie non offrono, ciò che cancellano dall’immaginario, ciò che sopprimono nella pensabilità stessa, che potremo essere ai ferri corti con l’esistente. Non abbiamo bisogno di un ennesimo programma per pianificare la trasformazione del mondo, non più delle esperienze alternative che pianterebbero i semi dell’anarchia futura. No! Ciò che ci manca è la proiezione di noi stessi in un ambiente completamente altro, di sogni. È solo lasciandoci alle spalle il realismo che rivendica una nuova mano di pittura per le nostre celle, passeggiate più lunghe o più attività… che possiamo sperare di riprendere a sognare, a dare parole ai nostri desideri, parole indispensabili per esprimere e comunicare una prospettiva rivoluzionaria. Il mondo lascia intravedere ciò che può essere fatto, noi dobbiamo fare ciò che non può essere fatto. Di fronte a ciò che ci circonda, fare nuovamente della tensione etica anarchica la punta di diamante della nostra lotta per la libertà. Non lasciare degenerare l’anti-autorità in postura politica, ma farla ardere come qualcosa che ci anima nel quotidiano, qualcosa che ci rende ebbri di desideri ed incontrollabili nei pensieri come nelle azioni. Continuare a partire dall’individuo, dall’individualità autonoma capace di riflettere, di sognare e di agire, ovunque e sempre, nei momenti di agitazione sociale come in quelli di reazione sanguinosa, contro i venti e le maree del conformismo e delle valutazioni strategiche. Il cuore di un simile anarchismo impetuoso è anche il nucleo delle future prospettive rivoluzionarie.
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Nessuno ne dubita più. Neanche lo Stato. La Coppa del Mondo in Brasile non si svolgerà senza intoppi, proprio come i progetti di epurazione sociale in Amazzonia si sono scontrati con una resistenza inaspettata che non si lascerà disarmare tanto facilmente. Il governo brasiliano si è permesso di annunciare che mobiliterà 160.000 poliziotti e militari per mantenere l’ordine durante il megaraduno, con un rinforzo di alcune decine di migliaia di agenti della sicurezza privata, in questo stesso momento in formazione ovunque nel mondo. Tutti gli Stati accentuano la loro propaganda per la propria squadra nazionale e preparano l’ingresso in massa di turisti e di valute straniere, quest’altro versante della guerra capitalista. Si sta predisponendo un omaggio planetario al potere e alla repressione della rivolta.
La Coppa del Mondo si materializza su una quantità di terreni che sono altrettanti possibili angoli di attacco. Nei quartieri delle metropoli brasiliane, assume la forma di una epurazione urbanistica e militare realizzata da imprese edili internazionali, da uffici di architetti provenienti da ogni dove e dai mastodonti della tecnologia. Gli emblemi nazionali inonderanno le strade, gli sponsor commerciali bombarderanno il pianeta intero con pubblicità, i media assicureranno le trasmissioni in diretta dello spettacolo dell’alienazione. Le ditte di sicurezza e gli uffici di consulenza si accalcano allo sportello delle autorità coi più recenti modelli di lotta anti-insurrezionale nelle necropoli, mentre una fitta ragnatela di tecnologie di comunicazione permette un controllo diversificato. La macchina della Coppa del Mondo si compone di innumerevoli ingranaggi che sono strettamente legati e interdipendenti: che ciascuno, ovunque nel mondo, studi quali ingranaggi sono suscettibili di ostacolare e paralizzare la macchina.
«Não vai ter Copa». Molti ribelli in Brasile si preparano per trasformare la Coppa del Mondo in un incubo per lo Stato ed in una torcia di insurrezione per gli amanti della libertà. Questa torcia non dovrebbe bruciare solo a Rio de Janeiro, a Sao Paolo o a Porto Alegre. Cogliamo l’occasione per illuminare dappertutto le tenebre del dominio.
Contro il maxi-raduno dell’Autorità
per l’attacco internazionalista e l’insurrezione

[maggio 2014]

 

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Nuits blanches et ciels étoilés

La Coupe du Monde au Brésil et les soubresauts internationaux de l’insurrection

La Coupe du Monde est aussi un projet du pouvoir pour brider les tensions sociales et donner le spectacle de son adoration. Pour les entités étatiques et les intérêts économiques, c’est une occasion de créer les conditions pour ouvrir de nouveaux marchés, pour clouer le bec à certaines résistances et pour réaliser un saut qualitatif dans l’occupation du territoire et dans l’exploitation capitaliste. C’est la grand-messe moderne de l’Etat et du Capital, où l’arrogance du pouvoir s’exhibe dans le spectacle des stades, des masses beuglantes, des écrans, des émissions en direct et de la fierté nationale.
L’octroi de l’organisation de la Coupe du Monde 2014 à l’Etat brésilien a signifié une intensification immédiate et systématique de la militarisation de la gestion de la « paix sociale ». Créées sur le modèle des tristement célèbres « opérations de pacification », de nouvelles unités de police ont vu le jour, les Unidades de Polícia Pacificadora (UPP), implantées depuis 2008 dans des dizaines de quartiers difficiles et de favelas de Rio de Janeiro. Au nom de la guerre contre le trafic de drogue, l’Etat a repris de façon militaire le contrôle des quartiers. En l’espace de quatre ans, selon les chiffres officiels, rien qu’à Rio de Janeiro, plus de 5500 personnes auraient été tuées par la police. Dans les quartiers où les gangs de trafiquants ont été chassés, des paramilitaires font maintenant la pluie et le beau temps.

Mais la Coupe du Monde ne tient évidemment pas du seul aspect en uniforme. Pour un montant dépassant les 3500 millions de dollars, des stades ont été construits dans des endroits stratégiques des villes. Des favelas ont été expulsées et rasées pour construire de nouveaux quartiers de classes moyennes, des centres commerciaux, des hôtels de luxe et des aménagements pour les plages. Des axes de transports et des autoroutes ont été réaménagés et sécurisés ; des aéroports, des ports et des réseaux d’électricité ont été construits ou reconstruits. A Rio de Janeiro, 250 000 personnes ont été expulsées de leurs habitations afin de faire de la place pour les projets de construction liés à la Coupe du Monde de 2014 et aux Jeux Olympiques de 2016. La Justice brésilienne n’a pas caché ses intentions à propos de ses plans pour l’avenir de tous ces stades qui ne serviront dans leur majorité à accueillir que quelques matchs : des études sont en cours pour examiner comment les nouveaux stades à Manaus, Brasilia, Cuiabá et Natal pourraient être transformés en prisons.

La Coupe du Monde est donc une opération d’épuration sociale. L’Etat et le Capital se débarrassent des indésirables, de ces couches de la population devenues superflues dans la circulation marchande et qui ne peuvent que devenir sources de troubles. Ce serait toutefois une erreur de considérer cette opération comme une « exception » que les démocraties légitiment via le biais de la Coupe du Monde : il s’agit bel et bien d’une restructuration, d’une intensification du contrôle social et de l’exploitation. Coupe du Monde ou crise, guerre ou reconstruction, désastres naturels ou urgences… le pouvoir nous fait miroiter des « situations d’exception » qui sont en fait le cœur même du progrès capitaliste et étatique.

La grand-messe de la Coupe du Monde ouvre tous les marchés imaginables. Et cela ne concerne pas uniquement la spéculation immobilière ou l’industrie de la sécurité. Depuis des mois, des paysans signalent que des camions bourrés de cocaïne vont et viennent depuis la Colombie pour répondre aux « besoins » des trois millions de touristes attendus. Tout comme lors de la Coupe du Monde en Afrique du Sud en 2010, la prostitution se développera de façon vertigineuse. Sur les chantiers des stades, où de nombreux ouvriers immigrés triment dans des conditions particulièrement dures, les entreprises les fouettent pour réussir à tenir les délais. Sans oublier les différentes fractions du pouvoir au Brésil qui négocient et concluent des accords avec le gouvernement : des gangs de trafiquants s’occupent du sale boulot d’expulser les gens qui résistent trop aux programmes d’urbanisation, tandis que les paramilitaires sont employés par des entreprises pour assurer la sécurité sur les chantiers et écraser les grèves ou les protestations à coup de chantages et de meurtres.

Mais la nouvelle donne, ce n’est pas toute cette horreur. La nouvelle donne, c’est comment en juin 2013, le Brésil a été en flammes pendant presque un mois. Ce qui a débuté comme un mouvement contre la hausse du prix des tickets de bus est devenu une révolte incontrôlée et généralisée contre le pouvoir. Depuis ce mois de révolte, il y a toujours plus de conflits autour des expulsions, de résistances contre des plans d’austérité, de protestations contre les meurtres policiers, ou même de troubles antipatriotiques comme lors de la fête nationale du 7 septembre, etc., qui ont dégénéré et ont échappé au contrôle de la médiation politique classique. Ces derniers mois, une imagination sociale est née au Brésil qui pourrait demain à nouveau incendier les rues.

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Pendant qu’en Syrie, le pouvoir et ses concurrents cherchent à arrêter la vague de soulèvements et de révoltes contaminant toujours plus de régions du monde et à la noyer dans un bain de sang ; pendant qu’en Grèce, la population se voit accablée et terrorisée afin d’effacer la mémoire de l’insurrection de décembre 2008 ; pendant qu’en Ukraine, un soulèvement populaire se voit piétiné par un jeu macabre entre différentes fractions du pouvoir ; pendant qu’en Egypte, Turquie, Bosnie, Libye, etc., l’ordre semble se réorganiser et se rétablir, la Coupe du Monde au Brésil se présente comme une tentative de recouvrir d’une chape de plomb les contradictions sociales qui traversent toute l’Amérique Latine.

Tout en prenant différentes formes selon les contextes et les conditions, une restructuration du Capital et de l’Etat est en cours partout dans le monde. Les frontières nationales se révèlent plus que jamais être ce qu’elles ont toujours été : des grillages et des murs pour gérer la révolte potentielle des déshérités. Ce n’est donc pas un hasard si face à la contamination manifeste entre les différentes révoltes des dernières années – une contamination qui n’est pas tellement basée sur des conditions similaires, mais plutôt sur une nouvelle imagination non-médiée de la possibilité de se soulever, d’une autre vie – l’Etat joue sur le nationalisme et les sentiments réactionnaires : des mouvements fascistes en ascension sur le continent européen jusqu’au renouveau du patriotisme dans des pays qui ont connu des « printemps arabes », de l’anti-impérialisme à deux balles d’anciens dirigeants comme Chavez jusqu’à la fièvre pour les équipes nationales de foot.

Mais au lieu de détailler plus avant les mouvements internationaux de la réaction, penchons-nous plutôt sur ceux de la révolte et des possibilités qu’ils ouvrent. Lors de la révolte de juin 2013 au Brésil, les insurgés ont crié : « après la Grèce, après la Turquie, maintenant c’est le tour du Brésil ! » Les révoltes que nous avons connues ces dernières années ont entrouvert la porte pour en finir avec l’ici et le là-bas. Les liens entre les différents Etats nationaux en matière de répression ont certes été renforcés avec une rapidité vertigineuse, mais cela ne devrait pas nous étonner ou nous effrayer. Vu l’instabilité sociale croissante et l’entremêlement total des économies et des systèmes étatiques, on peut imaginer que si quelque chose se passe quelque part, cela pourrait avoir des conséquences ailleurs aussi. Et ce mouvement est déjà en cours dans l’imagination même, ce sol particulièrement fertile pour la révolte. Il s’agit maintenant d’introduire cette imagination aussi dans nos projets de lutte et de saisir les occasions qui se présentent.

Il n’existe pas de science de l’insurrection. Beaucoup d’exemples récents – des émeutes à Londres en 2011 aux soulèvements dans le monde arabe – nous montrent le caractère imprévisible de l’insurrection. Les prétextes peuvent même être très « banals ». Cette imprévisibilité ne devrait toutefois pas nous pousser vers une position d’attente du « prochain tour » quelque part dans le monde ; celle-ci affirme plutôt la nécessité d’une conflictualité permanente, d’une préparation en idées et en actes. Ce n’est qu’ainsi qu’on pourrait espérer ne pas se trouver démunis lors de tels moments : peu importe où l’on se trouve sur la planète, on pourrait tenter de faire des contributions qualitatives qui poussent les révoltes en cours dans une direction radicalement émancipatrice, qui les font frapper aux structures fondamentales de la domination moderne et de sa reproduction, des structures qui se trouvent derrière les rangées de flics et les façades de banques. Souligner le caractère imprévisible de l’insurrection ne signifie pas pour autant prétendre qu’elle tombe de la lune. Il s’agit juste de préciser qu’il peut y avoir des tensions qui indiquent des possibilités grandissantes de révolte, mais qu’il n’y a aucune certitude quant à savoir si ces possibilités deviendront réalité. A l’inverse, il peut y avoir des contextes ou des conflits qui ne laissent pas du tout entrevoir le déchaînement prochain de la révolte et qui font pourtant sauter le couvercle de la marmite. L’imprévisibilité de l’insurrection ne devrait néanmoins pas être un problème majeur pour les anarchistes qui s’affrontent continuellement avec l’autorité, c’est un problème majeur pour l’Etat. Si on analyse les investissements massifs qui sont faits à l’échelle internationale dans le contrôle et les moyens répressifs, il ne semble pas que l’Etat soit complètement inconscient de ce point faible.

L’insurrection est un jeu de liens inouïs et d’actes imprévus. Ce n’est pas une mathématique où les présences numériques apportent la réponse définitive. Ce n’est pas une question de « solidarité extérieure » qui applaudit la révolte de l’autre. Chaque contexte et chaque moment offrent des possibilités et des opportunités différentes. Les anarchistes doivent se donner les analyses, les connaissances et les moyens pour passer à l’offensive et attaquer.

On doit aussi chercher à apprendre, dans nos analyses comme dans nos pratiques, des expériences insurrectionnelles. Le temps de la domination va toujours plus vite et fait s’estomper la mémoire des révoltes. Les insurrections ne sont pas la révolution sociale et ne peuvent pas non plus être considérées comme des étapes dans un développement linéaire vers la révolution sociale. Ce sont plutôt des moments de ruptures lors desquels le temps et l’espace échappent de façon éphémère à l’emprise de la domination. Vu l’accentuation de la répression – le fait que l’autorité est toujours prête à noyer dans le sang l’insurrection des opprimés – et la confusion apparente des motivations de nombreuses personnes lors des moments contemporains de révolte, certains reculent devant la perspective insurrectionnelle. Et pourtant. C’est précisément l’insurrection qui brise l’étreinte du contrôle et de la répression dans un monde où l’extermination de masse et le massacre organisé sont déjà la routine quotidienne de l’Etat et du Capital. C’est précisément l’insurrection qui peut créer l’espace permettant de traduire son rejet et sa révolte dans des idées plus claires et plus affirmées. La peur du caractère imprévisible et incontrôlable de l’insurrection ne se trouve pas seulement du côté de l’ordre, mais aussi chez les révolutionnaires qui cherchent le salut dans la répétition de vieilles recettes politiques : au lieu de l’attaque partout et tout le temps, la construction d’un mouvement révolutionnaire unifié ; au lieu de l’insurrection, le développement graduel d’un « contre-pouvoir » ; au lieu de la destruction nécessaire, l’illusion d’un changement progressif des mentalités. On voit alors des anarchistes qui reprennent le rôle de la gauche mourante ou des ex-insurgés qui partent à la recherche de certitudes dans des élucubrations sur le « sujet historique du prolétariat » ou encore se mettent à lire les œuvres d’un Lénine pour trouver les recettes d’une « révolution victorieuse ». Les récentes expériences insurrectionnelles signalent pourtant toutes la nécessité de trouver d’autres chemins, des chemins qui se séparent radicalement et définitivement de toute vision « politique » de la guerre sociale.

La perspective révolutionnaire classique de l’autogestion est morte. Il est grand temps d’en prendre définitivement acte et de mettre un terme aux tentatives de la ressusciter sous d’autres mots et sous d’autres formes. Aucune structure du capital ou de l’Etat ne peut être reprise pour s’en servir d’une façon émancipatrice ; aucune catégorie sociale n’est de par son essence porteuse d’un projet de transformation sociale ; aucune bataille défensive ne se transformera en offensive révolutionnaire. Le paradoxe contemporain à affronter réside dans le constat que d’un côté, l’insurrection a besoin d’un rêve de liberté qui lui donne de l’oxygène pour persévérer et de l’autre, son œuvre se doit nécessairement totalement destructive pour avoir un espoir de dépasser l’extinction et l’enkystement. L’insurrection est nécessaire pour déblayer le chemin vers la libération individuelle et sociale ; et ce sont les vitamines de l’utopie qui forcent des horizons inespérés pour échapper à la prison sociale. C’est à partir de la confluence entre une pratique insurrectionnelle et des idées de liberté qu’une perspective révolutionnaire contemporaine peut naître.

Le caractère destructif de l’insurrection porte sur la destruction de l’édifice de la prison sociale dans lequel nous vivons toutes et tous. Il est nécessaire d’étudier et d’analyser où se trouvent aujourd’hui ses murs, ses gardiens, ses miradors si on se propose de les frapper. La domination moderne a disséminé partout des structures qui permettent la reproduction de la prison sociale. Pensez aux infrastructures technologiques omniprésentes qui nous attachent toutes et tous au rôle de prisonnier sans qu’elles aient des chaînes visibles en tant que telles. Ou comment l’accumulation capitaliste s’oriente fondamentalement vers la circulation . En Europe en tout cas, l’exploitation ne se concentre plus comme avant dans de grands bastions, mais s’est étendue et décentralisée en enveloppant tous les aspects de la vie. Les connexions entre ces aspects sont assurées par des chemins, des câbles, des pipelines, des voies ferrées, des conduites souterraines qui représentent les veines de la domination. On ne sera certainement pas les derniers à pousser des cris de joie si des insurgés mettent le feu au parlement quelque part dans le monde, mais les contributions anarchistes à la guerre sociale consistent sans doute aussi à indiquer et à attaquer plus précisément comment et où l’autorité se nourrit et se reproduit.

Mais la destruction ne suffit pas. L’acte et la pensée doivent marcher main dans la main. On ne peut pas espérer raser les murs de la prison sociale si nous n’essayons pas déjà de regarder au-delà de son enceinte, vers des horizons inconnus, même si cela est difficile. On ne peut pas penser librement à l’ombre d’une chapelle. C’est exact. Mais la chapelle n’est pas seulement un bâtiment, c’est une matérialisation des rapports sociaux et des idéologies dominantes. C’est en désirant ce que ces rapports et idéologies n’offrent pas, ce qu’ils effacent de l’imaginaire, ce qu’ils suppriment dans la pensabilité même, que nous nous retrouverons à couteaux tirés avec l’existant. On n’a pas besoin d’un énième programme pour planifier la transformation du monde, pas plus que d’expériences alternatives qui sèmeraient les graines de l’anarchie de demain. Non ! Ce qu’il nous manque, c’est la projection de nous-mêmes dans un environnement complètement autre, de rêves. Ce n’est qu’en laissant derrière nous le réalisme qui revendique une nouvelle couche de peinture pour nos cellules, des promenades plus longues, davantage d’activités… que nous pouvons espérer se reprendre à rêver, à mettre des mots sur nos désirs, ces mots indispensables pour exprimer et communiquer une perspective révolutionnaire. Le monde laisse entrevoir ce qui peut être fait, nous devons faire ce qui ne peut pas être fait. Refaire de la tension éthique anarchiste face à ce qui nous entoure, le fer de lance de notre combat pour la liberté. Ne pas laisser dégénérer l’anti-autorité en posture politique, mais le faire brûler comme quelque chose qui nous anime au quotidien, quelque chose qui nous rend ivres de désirs et incontrôlables en pensées comme en actes. Continuer à partir de l’individu, à l’individualité autonome capable de réfléchir, de rêver et d’agir, partout et toujours, lors de moments d’agitation sociale comme de réaction sanglant, contre les vents et les marées du conformisme et des évaluations stratégiques. Le cœur d’un tel anarchisme impétueux est aussi le noyau de futures perspectives révolutionnaires.

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Personne n’en doute encore. L’Etat non plus. La Coupe du Monde au Brésil ne se passera pas sans encombre, tout comme les projets d’épuration sociale au pays de l’Amazone se sont heurtés à une résistance inattendue qui ne se laissera plus aussi facilement désarmer. Le gouvernement brésilien s’est permis d’annoncer qu’il mobilisera 160 000 policiers et militaires pour maintenir l’ordre lors de la grand-messe, renforcés par quelques dizaines de milliers d’agents de sécurité privée, en ce moment même en formation partout dans le monde. Tous les Etats accentuent leur propagande pour leur équipe nationale et préparent l’entrée massive de touristes et de devises étrangères, cet autre versant de la guerre capitaliste. Ils nous préparent un hommage planétaire au pouvoir et à l’écrasement de la révolte.

La Coupe du Monde se matérialise sur une quantité de terrains qui sont autant de possibles pistes d’attaques. Dans les quartiers des métropoles brésiliennes, elle prend la forme d’une épuration urbanistique et militaire réalisée par des entreprises internationales de construction, des bureaux d’architectes de partout et des mastodontes de la technologie. Les emblèmes nationaux inonderont les rues, les sponsors commerciaux bombarderont la planète entière avec des publicités, les médias assureront des émissions en direct du spectacle de l’aliénation. Les boîtes de sécurité et les bureaux de conseils se pressent au portillon des autorités avec des modèles modernes de combat anti-insurrectionnel dans les nécropoles, tandis qu’une toile à mailles resserrées de technologies de communication permet un contrôle diversifié. La machinerie de la Coupe du Monde se compose d’innombrables rouages qui sont étroitement liés et interdépendants : à chacun, partout dans le monde, d’étudier quelles rouages sont susceptibles de perturber et de paralyser la machinerie.

« Não vai ter Copa ». Nombreux révoltés au Brésil se préparent à transformer la Coupe du Monde en cauchemar pour l’Etat et en flambeau d’insurrection pour les amants de la liberté. Ce flambeau ne devrait pas brûler uniquement à Rio de Janeiro, Sao Paolo ou Porto Alegre, saisissions l’occasion pour illuminer partout les ténèbres de la domination.

Contre la grand-messe de l’Autorité pour l’attaque internationaliste et l’insurrection

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[Repris de Indymedia Nantes.]

 

http://www.finimondo.org/node/1410