Lettere aperte su sabotaggio e repressione (it/fr) 2009

machorkawedsxcdewsaqz

alcuni anarchici italiani / creature della palude
Se la matematica non è un’opinione, sono passati solo 5 anni da questo scambio di lettere fra compagni italiani e francesi. Ma sembra essere trascorso un secolo. I primi tiravano le orecchie oltralpe a chi pensava di reagire alla repressione negando le cattive intenzioni che stanno dietro ad ogni atto di sabotaggio, i secondi rispondevano invitando a non fare generalizzazioni e criticando i tatticismi della politica.
Oggi che qui in Italia molti sovversivi si uniscono a qualsiasi recuperatore di sinistra pur di chiedere la liberazione di «quattro ragazzi» accusati di aver compiuto un atto di sabotaggio (nella vulgata innocentista, aver danneggiato semplici attrezzature per altro già “riparate e vendute” – sic!), oggi che la politica con le sue convenienze cerca di ammutolire l’etica con le sue invarianze, è bene tornare a rileggere questa corrispondenza.

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Lettera aperta ai compagni francesi

Sappiamo quanto sia doloroso essere separati dai propri compagni, e non abbiamo ricette né lezioni da impartire sul modo per farli uscire al più presto dal carcere (farli uscire tutti, a prescindere da qualsiasi distinzione tra “innocenti” e “colpevoli”). Le brevi note che seguono raccolgono alcune riflessioni nate a partire da varie esperienze repressive vissute in Italia, nella speranza che possano essere utili ai compagni francesi.
Gli arresti di Tarnac rappresentano un fatto grave non solo in quanto attacco rivolto a tutti coloro che già si battono, nella critica e nella pratica, contro lo Stato e il capitale, ma anche nel loro intento intimidatorio nei confronti di tutti i potenziali complici di una guerra sociale più diffusa.
La repressione, infatti, mira a colpire, più che i singoli atti, le “cattive intenzioni”, svolgendo così un fondamentale ruolo pedagogico vòlto a depotenziare l’attitudine alla rivolta di tutti e di ciascuno. L’invenzione di “cellule terroristiche” o di “mouvances” di una qualche identità serve a isolare ogni ipotesi insurrezionale da tutte le pratiche di conflittualità esistenti, separando contemporaneamente ogni rivoltoso da se stesso e dalla proprie potenzialità.
La pedagogia della repressione è sempre una pedagogia della paura.
Il tentativo di trasformare scontri di piazza, azioni anonime di sabotaggio, scritti teorici, rapporti di solidarietà in un’“associazione terroristica” con tanto di cellule, capi e gregari è, purtroppo, un film già visto numerose volte in Italia. Il problema dello Stato è evidente: per cercare di liquidare determinate pratiche sovversive e i “movimenti” che le sostengono apertamente, non bastano accuse di reati specifici. Si tratta allora di inventare “reati associativi” per potere distribuire anni e anni di carcere senza quell’arcaica formalità che si chiamava prova. Molti di noi hanno in tal modo subìto processi, anni di detenzione preventiva e talvolta anche qualche pesante condanna. Pur non riuscendo spesso a sostenere fino in fondo le proprie inchieste, lo Stato si pone allo stesso tempo alcuni obiettivi paralleli: spezzare rapporti, interrompere il filo dell’attività sovversiva, testare la capacità di risposta dei compagni, ecc.
In Francia, azioni di sabotaggio e scontri con la polizia non datano certo dall’altro ieri. Ciò che ha spaventato lo Stato negli ultimi anni, a nostro avviso, è stato l’emergere di una possibile complicità – nelle parole e nei fatti – tra differenti forme di rivolta sociale, nonché l’affinarsi e il diffondersi di discorsi che rivendicano pubblicamente le pratiche di un’insurrezione possibile. Beninteso: lo Stato non teme tanto il discorso rivoluzionario, finché si limita a gioire della propria astratta libertà di parola, né in fin dei conti il singolo attacco: ciò che teme è l’imprevedibilità dell’attacco diffuso e il rafforzamento reciproco delle parole e dei gesti. Ciò che è stato per tanto tempo una posizione di ben pochi individui, comincia ad assomigliare ad una “palude” (per riprendere l’efficace espressioni usata, una dozzina di anni fa, dal nucleo “antiterrorismo” dei carabinieri italiani), difficilmente identificabile e governabile. Lo Stato vuole prosciugare quella palude perché ne escano capi, “organizzazioni”, pretesi “movimenti” con tanto di sigla, portavoce, ecc.
Se è sempre valido il consiglio che Victor Serge dava ai rivoluzionari in ostaggio del nemico – “negate tutto, anche l’evidenza” –, è necessario saper leggere la repressione al fine di rilanciare e rafforzare la nostra prospettiva. Sappiamo tutti che il nemico storico di ogni lotta insurrezionale è sempre stata la sinistra (e la sua sinistra): partiti e sindacati, recuperatori, mediatori, intellettuali consiglieri dei moderni Principi, alleati scaltri della repressione, abili nel dividere in “buoni” e “cattivi”. In particolari circostanze, costoro possono persino arrivare a difendere di fronte ad una “Giustizia ingiusta” quegli stessi compagni che li hanno sempre attaccati. Permettere che queste carogne riacquistino una qualche forza a partire dai nostri arresti è un errore non privo di conseguenze.
Che ad opporsi alle porcherie dell’“antiterrorismo” non siano solo i compagni, ma un ambito più allargato, ha degli aspetti positivi (ed è indice della constatazione spaventata che il terrore di Stato ci schiaccia ogni giorno di più). Ma la nostra prospettiva avanza solo nella chiarezza con gli altri sfruttati e ribelli, vale a dire nella ferma inimicizia verso la sinistra e i suoi mass media. Per dirla diversamente, anche il modo di reagire alla repressione fa parte di quella guerra sociale che non ammette tregue. Non assumendo e difendendo determinate posizioni, si cede terreno al nemico. La solidarietà democratica e lo spazio sui quotidiani non si danno mai gratis: oggi, servono alla sinistra non solo per riabilitarsi agli occhi di tutti coloro che sono ai ferri corti con l’esistente (“Vedete? in fin dei conti siamo d’accordo…”), ma anche per neutralizzare ogni posizione di rottura radicale col presente (si possono anche perdonare certi eccessi giovanili…).
La risposta che molti compagni hanno dato in Italia, di fronte ad inchieste simili (o ancora più pesanti), è stata molto semplice: “Noi non sappiamo chi ha fatto le cose di cui ci accusate, signori; ciò che sappiamo è che le difendiamo apertamente, e che le vostre inchieste non spegneranno i fuochi di quella rivolta sociale che non ha aspettato i nostri testi per divampare”. Una simile risposta – unita alle pratiche che ne conseguono – ci ha permesso di uscire dal carcere riprendendo il filo della nostra attività. Una simile risposta non troverà certo alleati tra i mass media e gli intellettuali democratici – soprattutto, non gli permetterà di parlare a nome nostro.
Alcune parole chiare trovano sempre delle orecchie pronte ad ascoltarle. Prigioniere, le parole forzano talvolta le catene, emergendo dalle parti più misteriose e comuni dell’esperienza e del cuore.
La forza che deriva dall’inserirsi nel loro gioco e nel loro discorso, con la pretesa di sfruttarlo o di détournarlo ai propri fini, è illusoria. Con il nostro nemico non abbiamo in comune nemmeno il senso delle parole – né di felicità, né di tempo, né di possibilità, né di fallimento o di riuscita.
Ci sono posizioni di rottura che si sono rivelate utili anche sul piano giudiziario, così come ci sono compagni che hanno rimediato un anno di carcere per qualche scritta sul muro: non esiste in questo ambito alcuna scienza esatta. La tensione verso la coerenza tra mezzi e fini pone il problema dell’efficacia in altri termini, cioè rispetto alla vita per cui ci battiamo. “Se sono innocenti – diceva Renzo Novatore – hanno la nostra solidarietà, se sono colpevoli ce l’hanno ancora di più”. I compagni solidali hanno trovato spesso in queste parole il terreno più favorevole per agire, per continuare là dove alcuni sono stati provvisoriamente fermati, e per scoprire nuovi complici…
Una certezza ce l’abbiamo: l’insurrezione che viene non legge Libé.

alcuni anarchici italiani
febbraio 2009

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Lettera aperta ad alcuni anarchici italiani
Abbiamo appena finito di leggere la lettera che ci avete indirizzato, a noi come a tutti i compagni francesi. L’abbiamo letta con piacere, ritrovandovi molte considerazioni in cui ci riconosciamo. L’abbiamo letta con attenzione, giacché essa proviene da chi, purtroppo, ha dovuto fare i conti con la repressione assai prima e più di noi. Ma, a dirla tutta, ci ha lasciato l’amaro in bocca e provocato un certo fastidio.
Ci viene infatti da chiedervi: a chi state parlando? Di cosa state parlando? Siccome la vostra lettera è rivolta ai compagni francesi e formula precise critiche alla deriva “innocentista” che ha preso la mobilitazione in favore degli arrestati di Tarnac, non vorremmo che in Italia si pensasse che “i compagni francesi” sono tutti dediti a raccogliere firme, in compagnia di bolsi intellettuali di sinistra, da consegnare alle autorità competenti come attestato di buona condotta.

Se è vero che alcuni compagni hanno deciso di trasformare quella che, a nostro e vostro avviso, dovrebbe essere una lotta contro la repressione in una lotta in difesa di alcuni repressi, è altresì vero che si tratta di una loro scelta che non è affatto condivisa dall’intero movimento francese.

Sfortunatamente la repressione in Francia non è iniziata lo scorso 11 novembre, avendo già colpito in precedenza altri compagni. Fortunatamente i sabotaggi sono proseguiti anche dopo quella data, inarrestabili. Tarnac non è il centro della Francia, né per lo Stato né tanto meno per l’insurrezione. È solo un episodio, che rischia di assumere connotati sempre più patetici. Come giustamente fate osservare, sono le “cattive intenzioni” il vero obiettivo della repressione, la quale, non riuscendo a prevenire gli attacchi, cerca di fermare il diffondersi di discorsi che rivendicano pubblicamente la necessità e la possibilità di una insurrezione (discorsi che alimentano e sono alimentati dall’azione, in un continuo gioco di vasi comunicanti).

Ciò che è grave, con gli arresti di Tarnac, non è tanto il comportamento dello Stato che, per le ragioni da voi chiaramente espresse, colpisce le nostre fila. In fondo, giudici e poliziotti non fanno che il loro sporco mestiere. Ciò che è grave è che, a fronte di ciò, si rinneghino pubblicamente quelle “cattive intenzioni” e quei discorsi, che li si banalizzi facendoli passare per la semplice “passione storica” di un “droghiere”. Oppure che si accetti fino in fondo di ricoprire il ruolo di “bravi ragazzi” (dall’illustre blasone e con adeguate referenze, nonché disponibili al dialogo con giornalisti e politici, quindi fuori posto in una cella) da non confondere con le “cattive canaglie” (senza santi in paradiso, muti di fronte ai loro nemici, quindi meritevoli di marcire in galera). Questo, siatene certi, è per noi molto più doloroso della momentanea separazione fisica da alcuni compagni.

Essendo molti gli anarchici italiani noti per la loro intransigenza, ci ha stupito e anche un po’ colpito la premura e la cautela con cui ci rivolgete le vostre osservazioni (le Alpi sono davvero così alte, se vi limitate a biasimare in Francia ciò che disprezzereste in Italia?). Arrivate perfino a metterci benevolmente in guardia contro gli “errori”. Quali errori? Siamo desolati, ma temiamo che stiate fraintendendo: non è stato commesso nessun errore nella mobilitazione in favore degli arrestati di Tarnac. Si è trattata di una precisa scelta di campo.

Da questo punto di vista, il vostro invito a “saper leggere” la repressione accompagnato dalla citazione di Victor Serge è un autentico lapsus. È proprio perché hanno letto bene Victor Serge (quello che, imputato nel processo contro gli illegalisti noti come Banda Bonnot, si difendeva definendosi un intellettuale che nulla aveva a che spartire con volgari criminali) che alcuni compagni francesi hanno imboccato la strada della difesa ad personam. Non fanno che mettere in pratica la diffusa idea secondo cui bisogna organizzarsi a partire dalla situazione, che in ogni situazione si possono fare alleanze, che nella guerra contro lo Stato non bisogna avere scrupoli morali o impacci etici, ma solo strategie da applicare. Buono è ciò che fa uscire i compagni dalla galera, cattivo è ciò che li fa rimanere. Punto e basta.

Là dove l’etica coinvolge la totalità dell’esistenza umana, la politica agisce su alcuni suoi singoli frammenti. Per questo l’opportunismo ne è una costante, perché interviene a seconda delle circostanze. Quando queste sono favorevoli, si può ben essere coerenti. Ma quando sono sfavorevoli… Ecco perché esso si manifesta soprattutto nelle situazioni di crisi o di urgenza.
Il compagno che si incontra con un funzionario di Stato (ad esempio un ex ministro) spinto dall’emergenza di un procedimento giudiziario (bisogna uscire dal carcere) non è tanto diverso dal compagno che si incontra con un funzionario di Stato (ad esempio un sindaco) spinto dall’urgenza di una lotta sociale (bisogna fermare una nocività), ed entrambi sono eredi del compagno che diventa funzionario di Stato (ad esempio ministro della giustizia) spinto dall’emergenza della guerra (bisogna fare la rivoluzione). In tutti e tre i casi si fa il contrario di quel che si dice, avvalendosi di buone ragioni (e quanto pratiche! quanto concrete!) e delle migliori intenzioni. L’emergenza spezza il normale svolgimento degli avvenimenti, travolge ogni punto di riferimento, sospende l’etica e spalanca la via ai contorsionismi della politica.

Tutto ciò è ovvio, è quasi banale, ma solo per chi pensa che idee e valori non siano parte integrante dell’essere umano, ma gli siano esterni, come puri strumenti da usare a seconda dell’occasione. Se invece si ritiene che le circostanze cui pone di fronte la realtà possono anche essere diverse e contraddittorie, ma unici sono i propri pensieri, i propri sogni, i propri desideri, allora è difficile negare che è giustamente nei momenti di crisi o di urgenza che bisogna cercare di rimanere se stessi. Una partita sempre aperta, piena d’imprevisti ed ostacoli, in cui è purtroppo facile inciampare e cadere. E allora, che si fa? Ci si rialza, cercando di imparare dai passi falsi, o si inizia a strisciare vantandosi della propria abilità tattica?

Dopo tutto, l’insurrezione è in sé una situazione eccezionale. Non ha senso atteggiarsi a cavalieri dell’Idea fuori dai momenti di rottura, per poi scoprirsi all’improvviso piazzisti della Convenienza non appena questi si verificano. Sarebbe come proclamarsi ai ferri corti con l’esistente per poi sfoderare un uncinetto con cui ricamare rapporti con i suoi sostenitori e i suoi falsi critici. Insomma, o si pensa che fini e mezzi siano un tutt’uno (interpretazione etica della lotta), oppure si pensa che fini e mezzi siano separati tra loro (interpretazione politica della lotta). Le vie di mezzo, come quelle che propongono dei mezzi senza fini, lasciamole alle fumisterie filosofiche.

Ciascuno è ovviamente libero di scegliere la maniera che più preferisce per cavarsi dai guai (senza pretendere per questo un rispetto dovuto, né un’amicizia immutata). Ciò detto, pensiamo sia quanto mai necessario arginare questo opportunismo politico dichiarato — presente in Francia, ma siamo certi anche in Italia e nel resto del mondo. Esso sarà magari in grado di spalancare più velocemente le porte delle prigioni o di calamitare l’attenzione di tante brave persone, ma ci restituirà solo l’ombra dei compagni che abbiamo potuto apprezzare. Contro questo opportunismo, è meglio la furia iconoclasta di un Renzo Novatore degli astuti consigli dell’anarchico individualista ravveduto Victor Serge.

Creature della palude
marzo 2009

http://informa-azione.info/

http://guerrasociale.blogspot.com/2009/02/sulla-cattiva-strada.html

 

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Nous avons reçus des textes de différents compagnons italiens. Le premier est une invitation à partager de ce côté-ci des Alpes le fruit d’expériences répressives italiennes (texte qui commence aussi à tourner là-bas). Le second est le texte public de présentation d’une bouffe organisée le 26 février à Lecce au profit “des camarades attaqués par la répression en France”.

Lettre ouverte aux camarades français
A propos des arrestations de Tarnac et pas seulement

Nous savons combien il est douloureux d’être séparés de ses propres camarades, et nous n’avons ni recettes ni leçons à donner sur la manière de les faire sortir le plus rapidement de prison (les faire sortir tous, en laissant tomber toute distinction entre « innocents » et « coupables »). Les notes rapides qui suivent sont le fruit de quelques réflexions nées à partir de différentes expériences répressives vécues en Italie, en espérant qu’elles puissent être utiles aux camarades français.

Les arrestations de Tarnac représentent un fait grave non seulement en tant qu’attaque contre tous ceux qui se battent déjà, en critique et en pratique, contre l’Etat et le capital, mais aussi en tant que tentative d’intimidation contre tous les complices potentiels d’une guerre sociale plus diffuse.
En fait, la répression vise à frapper, au-delà d’actes particuliers, les « mauvaises intentions », jouant ainsi un rôle pédagogique fondamental destiné à vider de sa potentialité la disposition à la révolte de tout un chacun. L’invention de « cellules terroristes » ou de « mouvances » à l’identité quelconque sert à isoler toute hypothèse insurrectionnelle de l’ensemble des pratiques de conflictualité existantes, séparant en même temps tout révolté de soi-même et de ses propres potentialités. La pédagogie de la répression est toujours une pédagogie de la peur.

La tentative de transformer des affrontements dans la rue, des actions anonymes de sabotage, des textes théoriques, des rapports de solidarités en une « association terroriste » avec autant de cellules, de chefs et de suiveurs est malheureusement un film qu’on a déjà vu de nombreuses fois en Italie. Le problème de l’Etat est évident : pour tenter de liquider certaines pratiques subversives et les « mouvements » qui les défendent ouvertement, des accusations basées sur des délits spécifiques ne suffisent pas. Il s’agit alors d’inventer des « délits associatifs » pour pouvoir distribuer des années et des années de prison sans avoir recours à cette formalité archaïque qui s’appelait preuve. Nombre d’entre nous ont ainsi subi des procès, des années de détention préventive et parfois aussi de lourdes condamnations. Même s’il ne réussit pas souvent à soutenir jusqu’au bout ses propres enquêtes, l’Etat se donne en même temps des objectifs parallèles : briser des rapports, interrompre le fil de l’activité subversive, tester la capacité de riposte des camarades etc.

En France, les actions de sabotage et les affrontements avec la police ne datent certes pas d’hier. Ce qui a effrayé l’Etat ces dernières années a été, à notre avis, l’émergence d’une complicité possible – dans les mots et les actes – entre différentes formes de révolte sociale, ainsi que l’affinement et la diffusion de discours qui revendiquent publiquement les pratiques d’une insurrection possible. Bien entendu, l’Etat ne craint ni le discours révolutionnaire tant qu’il se limite à jouir d’une liberté de parole abstraite, ni en fin de compte une attaque particulière : ce qu’il craint est l’imprévisibilité de l’attaque diffuse et le renforcement réciproque des paroles et des gestes. Ce qui a été pendant longtemps une position défendue par bien peu d’individus commence à ressembler à un « marécage » (pour reprendre l’expression efficace utilisée par l’unité « anti-terroriste » des carabiniers italiens il y a une douzaine d’années), difficilement identifiable et gouvernable. L’Etat veut assécher ce marécage pour en sortir des chefs, des « organisations », des prétendues « mouvances » avec autant de sigles, de porte-paroles, etc.

Si le conseil que Victor Serge donnait aux révolutionnaires pris en otage par l’ennemi est toujours valable (« tout nier même l’évidence »), il est nécessaire de savoir lire la répression afin de relancer et de renforcer notre perspective. Nous savons tous que la gauche (et sa gauche) a toujours été l’ennemi historique de toute lutte insurrectionnelle : partis et syndicats, récupérateurs, médiateurs, intellectuels conseillers des Princes modernes, alliés rusés de la répression, habiles à diviser en « bons » et « mauvais ». Dans des circonstances particulières et face à une « Justice injuste », ils peuvent même aller jusqu’à défendre les camarades qui les ont toujours attaqués. Permettre que ces charognes réacquièrent la moindre force à partir de nos incarcérés est une erreur qui n’est pas sans conséquences.
Qu’il n’y ait pas que des camarades qui s’opposent aux crapuleries de l’« antiterrorisme » mais un milieu plus large comporte des aspects positifs (c’est le reflet du constat effrayé que la terreur d’Etat nous écrase chaque jour davantage). Mais notre perspective n’avance que dans la clarté avec les autres exploités et rebelles, c’est-à-dire dans une ferme inimitié envers la gauche et ses medias. Pour le dire autrement, la manière de réagir à la répression fait aussi partie de cette guerre sociale qui n’admet pas de trêve. En n’assumant pas et en ne défendant pas certaines positions, on cède du terrain à l’ennemi. La solidarité démocrate et l’espace dans les journaux ne s’offrent jamais gratuitement : aujourd’hui, ils servent non seulement à la gauche pour se réhabiliter aux yeux de tous ceux qui sont à couteaux tirés avec l’existant (« Vous voyez ? au bout du compte nous sommes d’accord… »), mais aussi à neutraliser toute position de rupture radicale avec le présent (certains excès de jeunesse peuvent aussi être pardonnés…).

Face à des enquêtes similaires (ou encore plus lourdes), la réponse que de nombreux camarades ont donné en Italie a été très simple : « Nous ne savons pas qui a fait les choses dont vous nous accusez, messieurs ; ce que nous savons, c’est que nous les défendons ouvertement, et que vos enquêtes n’éteindront pas les feux de cette révolte sociale qui n’a pas attendu nos textes pour se propager ». Une telle réponse – liée aux pratiques qui en découlent – nous a permis de sortir de prison en reprenant le fil de notre activité. Une telle réponse ne trouvera certainement pas des alliés chez les médias et les intellectuels démocrates ; et surtout, elle ne leur permettra pas de parler en notre nom.
Certaines paroles claires trouvent toujours des oreilles disposées à les écouter. Emprisonnées, les paroles forcent parfois les chaînes, émergeant des parties les plus mystérieuses et communes de l’expérience et du cœur. La force qui découle du fait de s’insérer dans leur jeu et dans leur discours, avec la prétention de l’exploiter ou de le détourner à ses propres fins, est illusoire. Nous n’avons même pas le sens des mots en commun avec notre ennemi – ni celui de bonheur, ni de temps, ni de possibilité, ni d’échec ou de réussite.

Il y a des positions de rupture qui se sont révélées utiles, y compris au plan judiciaire, tout comme il y a des camarades qui ont passé un an en prison pour quelques tags sur les murs : il n’existe pas de science exacte en la matière. La tension vers la cohérence entre les moyens et les fins pose le problème de l’efficacité en d’autres termes, c’est-à-dire par rapport à la vie pour laquelle nous nous battons. « S’il y a des innocents qui méritent notre solidarité, il y a des coupables qui la méritent encore plus », disait Renzo Novatore. Les camarades solidaires ont souvent trouvé dans ces paroles un terrain plus favorable pour agir, pour continuer là où certains ont été provisoirement arrêtés, et pour découvrir de nouveaux complices…

Nous avons bien une certitude : l’insurrection qui vient ne lit pas Libé.

Quelques anarchistes italiens
Février 2009

Traduit de l’italien.
Publié le 27 février 2009 sur http://informa-azione.info

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Suite à la « Lettre ouverte aux camarades français. A propos des arrestations de Tarnac et pas seulement » parue sur différents sites (dont les Indymedia) le 27 février 2009 et signée par « Quelques anarchistes italiens », nous avons souhaité poursuivre le débat.

lettre ouverte à quelques anarchistes italiens

Nous venons de finir de lire la lettre que vous nous avez adressée, ainsi qu’à tous les camarades français. Nous l’avons lue avec plaisir, y retrouvant de nombreux points dans lesquels nous nous reconnaissons. Nous l’avons lue avec attention, parce qu’elle provient de ceux qui ont malheureusement dû affronter avant nous et plus que nous la répression. Mais disons-le tout net, elle nous a aussi laissé un goût amer et provoqué une certaine gêne. On a envie de vous demander : à qui est-ce que vous parlez ? De quoi est-ce que vous êtes en train de parler ? Comme votre lettre s’adresse aux camarades français et formule des critiques précises contre la dérive “ innocentiste ” qu’a pris la mobilisation en faveur des arrêtés de Tarnac, nous ne voudrions pas qu’on pense en Italie que “ les camarades français ” sont tous occupés à recueillir des signatures en compagnie d’intellectuels de gauche poussifs, en vue de remettre aux autorités compétentes autant de certificats de bonne conduite.

S’il est exact que certains camarades ont décidé de transformer ce qui, à notre et à votre avis, devrait être une lutte contre la répression en une lutte de défense de certains réprimés, il est aussi vrai qu’il s’agit de leur choix, et qu’il n’est pas partagé par l’ensemble du mouvement français.

En France, la répression avait malheureusement auparavant déjà frappé d’autres camarades, et n’a donc pas débuté le 11 novembre dernier. Heureusement, les sabotages ont continué après cette date ; ils n’ont pas été arrêtés. Tarnac n’est pas le centre de la France, pas pour l’Etat, et encore moins pour l’insurrection. Ce n’est qu’un épisode, et il risque de prendre des accents toujours plus pathétiques. Comme vous le faites à juste titre observer, les “ mauvaises intentions ” sont le véritable objectif de la répression. Ne réussissant pas à prévenir les attaques, elle cherche à arrêter la diffusion de discours qui revendiquent publiquement la nécessité et la possibilité d’une insurrection (des discours qui alimentent et sont alimentés par l’action, en un jeu continu de vases communiquants).

Ce qui est grave avec les arrestations de Tarnac, ce n’est pas tant le comportement de l’Etat qui, pour les raisons que vous avez clairement exposées, vient frapper parmi nous. Au fond, les juges et les flics ne font que leur sale boulot. Ce qui est grave, c’est que face à cela, on renie publiquement ces “ mauvaises intentions ” et ces discours, qu’ils soient banalisés en passant pour de la simple “ passion pour l’histoire ” d’un “ épicier ”. Ou encore qu’on accepte jusqu’au bout d’endosser le rôle de “ braves garçons ” (au blason doré et aux références adéquates, mais aussi disposés à dialoguer avec les journalistes et les politiciens, en somme leur place n’est pas en cellule), à ne pas confondre avec de “ méchants voyous ” (qui n’ont pas de saint patron, qui restent muets face à leur ennemi, en somme méritant de pourrir en prison). Cela, vous pouvez en être sûrs, nous fait beaucoup plus mal que la séparation physique momentanée de certains camarades.

Beaucoup d’anarchistes italiens étant connus pour leur intransigeance, nous avons été étonnés et aussi un peu frappés par l’empressement et la prudence avec lesquels vous nous formulez vos remarques (les Alpes sont-elles vraiment si hautes pour que vous vous cantonniez à adresser un blâme en France à ce que vous mépriseriez en Italie ?). Vous en arrivez même à nous mettre bénévolement en garde contre des “ erreurs ”. Quelles erreurs ? Désolé, nous avons bien peur que vous vous mépreniez : il n’y a eu aucune erreur dans la mobilisation en faveur des arrêtés de Tarnac. Elle a précisément choisi son camp.

De ce point de vue, votre invitation à “ savoir lire ” la répression, liée à la citation de Victor Serge, est un authentique lapsus. C’est justement parce qu’ils ont bien lu Victor Serge (lui qui, inculpé dans le procès des illégalistes connus sous le nom de bande à Bonnot se défendait en se définissant comme un intellectuel qui n’avait rien à voir avec de vulgaires criminels) que certains camarades français ont suivi le chemin de la défense ad personam. Ils n’ont fait que mettre en pratique l’idée répandue selon laquelle il faut s’organiser à partir de situations, que dans chaque situation on peut faire des alliances, que dans la guerre contre l’Etat il ne faut pas avoir de scrupules moraux ou s’encombrer d’une éthique, et qu’il y a uniquement des stratégies à appliquer. Est bon ce qui fait sortir les camarades de prison, est mauvais ce qui les fait y rester. Point barre.

Là où l’éthique implique la totalité de l’existence humaine, la politique agit sur certains de ses fragments singuliers. L’opportunisme est une de ses constantes parce qu’elle intervient en fonction des circonstances. Lorsque ces dernières sont favorables, on peut bien être cohérent. Mais lorsqu’elles sont défavorables… C’est pourquoi l’opportunisme se manifeste surtout en situation de crises ou d’urgence. Le camarade qui rencontre un fonctionnaire d’Etat (par exemple une ex-ministre), poussé par l’urgence d’une procédure judiciaire (il faut sortir de prison), n’est pas si différent du camarade qui rencontre un fonctionnaire d’Etat (par exemple un maire), poussé par l’urgence d’une lutte sociale (il faut arrêter une nuisance), et tous deux sont fils du camarade qui est devenu fonctionnaire d’Etat (par exemple ministre de la Justice), poussé par l’urgence de la guerre (il faut faire la révolution). Dans ces trois cas, on fait le contraire de ce qu’on dit en se prévalant de bonnes raisons (ô combien pratiques ! ô combien concrètes !) et des meilleures intentions du monde. L’urgence brise le déroulement normal des événements, bouleverse tout point de référence, suspend l’éthique et ouvre grand la porte aux contortionismes de la politique.

Tout cela est évident, c’est quasi banal, mais uniquement pour ceux qui pensent que les idées et les valeurs ne font pas partie intégrantes de l’être humain, et lui sont extérieures, comme de purs instruments à utiliser en fonction des occasions. En revanche, si on pense que les circonstances auxquelles la réalité nous confronte peuvent aussi s’avérer différentes et contradictoires, mais que nos pensées, nos rêves et nos désirs sont uniques, il devient difficile de nier que c’est justement dans les moments de crise ou d’urgence qu’il faut tenter de rester soi-même. Une partie toujours ouverte, pleine d’imprévus et d’obstacles, dans laquelle il est malheureusement facile de trébucher et de tomber. Et dans ce cas-là, que fait-on ? On se relève en essayant d’apprendre de ses faux pas, ou on commence à ramper en se vantant de son habileté tactique ?

En fin de compte, l’insurrection en tant que telle n’est qu’une situation exceptionnelle. Cela n’a aucun sens de se comporter en chevalier de l’Idée hors des moments de rupture si, dès qu’ils ont lieu, on se rend compte à l’improviste n’être que des placiers de la Convenance. Ce serait comme proclamer être à couteaux tirés avec l’existant pour arborer ensuite un crochet avec lequel broder des rapports avec ses défenseurs et ses faux critiques. En somme, ou bien on pense que les fins et les moyens forment un tout (c’est l’interprétation éthique de la lutte) ou bien on pense que les fins et les moyens sont séparés (c’est l’interprétation politique de la lutte). Laissons les voies du milieu, comme celles qui proposent des moyens sans fin, aux fumisteries philosophiques.

Chacun est clairement libre de choisir la manière qu’il préfère pour s’en sortir (sans prétendre pour autant qu’on lui doive le respect, ni que l’amitié demeure inchangée). Malgré tout, nous pensons qu’il est plus que jamais nécessaire d’endiguer cet opportunisme politique assumé – qui est présent en France, mais certainement aussi en Italie et dans le reste du monde. Il sera peut-être en mesure d’ouvrir plus rapidement les portes des prisons ou de capter l’attention de beaucoup de braves gens, mais il ne nous rendra que l’ombre des camarades que nous avons pu apprécier. Contre cet opportunisme, mieux vaut la furie iconoclaste d’un Renzo Novatore que les conseils astucieux de l’anarchiste individualiste repenti Victor Serge.

Des créatures du marécage

http://lille.indymedia.org/article15347.html et en italien ici : http://informa-azione.info/

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Sur la mauvaise route

Depuis janvier 2008, le gouvernement français a déclaré la guerre aux prétendus “anarcho-autonomes”, c’est-à-dire à une “association de malfaiteurs” pas très claire (jusqu’au nom qu’ils lui ont attribué) qui se dédierait à l’accomplissement d’actions “terroristes”. Du début de la vague répressive jusqu’à l’été, plusieurs camarades ont été incarcérés et accusés de différents délits : de la “détention et port de matériel explosif” à la “tentative d’incendie” d’un véhicule de police du commissariat d’un arrondissement populaire de Paris, de manifestations contre les Centres de rétention pour étrangers à la possession d’un plan original d’une prison pour mineurs en construction. Actuellement, deux camarades -Juan et Damien- sont encore incarcérés, trois autres -Ivan, Farid et Isa- sont soumis à un contrôle judiciaire, et un autre, Bruno, est en fuite après s’être soustrait à ce type de contrôle.

Le 8 novembre dernier, un sabotage est effectué sur les lignes ferroviaires à grande vitesse : l’arrachage de plusieurs câbles bloque 160 trains, créant un chaos considérable sur tout le réseau français. Trois jours plus tard se déclenche une vaste opération vivant à arrêter les présumés coupables, faisant aussi partie -selon la ministre de l’Intérieur français- de l’ “association” des “anarcho-autonomes”. Dix sont arrêtés, dont neuf seront formellement incriminés et cinq (y compris le “chef” présumé) finiront en prison. A partir de ce moment-là se déclenchera une différenciation sordide entre bons et mauvais, entre innocents et coupables, entre ceux qui méritent la solidarité ou pas.

Tandis que les premiers arrêtés de janvier refusent de parler à la presse, de donner leurs empreintes ou leur ADN, les arrêtés de novembre, dénommés les “9 de Tarnac” (auxquels se dirige exclusivement le soutien d’une grande partie des comités créés entretemps) s’auto-présentent, ou acceptent que cela le soit, comme de braves jeunes occupés à labourer et à penser : des philosophes, des gens cultivés, des paysans et des commerçants qui avaient réouvert l’épicerie du village où ils avaient choisi d’aller vivre de manière communautaire – Tarnac. Les habitants du village, les amis et les familles ont pris leur défense, mais aussi d’illustres représentants du monde universitaire et des représentants de la culture institutionnelle, français mais pas uniquement. Même ceux qui refuseraient de cataloguer ces derniers comme des ennemis devraient au moins réfléchir au rôle de soutien de la domination qu’ils occupent dans la société et comprendre qu’ils sont à la solde de cet ennemi qu’on prétend combattre : l’Etat.

Comme si ça ne suffisait pas, une grande partie des “9 de Tarnac” s’exhibent dans les médias, donnent des interviews, discutent avec des politiciens : la route qu’ils ont choisi de parcourir dans la critique de l’existant est la bonne. Nous n’avons pas de raison d’en douter. Par contre, naturellement, il apparait clairement, y compris aux yeux de la répression, que ce sont les autres qui parcourent alors une mauvaise route.

C’est surtout à ces “autres” que nous exprimons notre plus vive proximité et auxquels nous envoyons toute notre solidarité. A ces rebelles que nous ne pouvons que sentir comme des camarades, parce que c’est sur cette mauvaise route que nous nous trouvons également. Et même si nous n’avons pas encore eu l’occasion de nous y rencontrer, nous savons que nous allons dans la même direction. Vers la même destination aussi.

Des anarchistes du Salento

Vendredi 27 février, 21h, repas au profit des camarades attaqués par la répression en France au Local Anarchiste (via Massaglia 62/B à Lecce). Solidarité internationale avec ceux qui luttent !

Traduit de l’italien. Paru le 26.02.09 sur
http://guerrasociale.blogspot.com/2009/02/sulla-cattiva-strada.html

 

http://cettesemaine.free.fr/spip/article.php3?id_article=1931