Associazione eversiva – Telenovela da 270 bis
Nelle calde giornate di agosto vengo a sapere di essere indagato dalla Procura di Milano con il famigerato articolo 270 bis in merito ad un ipotetico reato “commesso in Italia e all’estero dal dicembre 1998”.
Inquisizione che, a quanto pare, prosegue da molto tempo e di cui vengo avvisato soltanto grazie alla richiesta di supplemento di indagini del GIP Cristina Mannocci.
Forse non tutti sanno che il 270 bis recita testualmente: “Associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico”; di fatto un’ipotesi di reato utile a creare un clima collettivo di guerra psicologica, di eterna emergenza continua.
In questo caso il senso del “collettivo” lo riscopro nel documento di Marco Camenish, del 23 maggio 2000, in cui emerge chiaramente il tentativo di coinvolgere in “Associazione eversiva” le persone, gli amici, i compagni, gli amici degli amici e tutti quanti legati da solidale affettività con Marco stesso.
L’innesco della vicenda pare sia da attribuire alle indagini conseguenti all’evasione di Marcello Ghiringhelli dal carcere di Novara dopo un mancato rientro, per l’appunto nel dicembre 1998. Arrestato in Svizzera dopo breve latitanza, l’amicizia di Marcello con Marco, i 5 anni di convivenza in uno speciale, i parenti, gli amici di Marco e… diventano la scenografia di un’ennesima telenovela inquisitoria di bassa lega.
Da parte mia rivendico l’affettività con Marco, con suo fratello Renato (inquisito ed avvisato già da molti mesi) e con Annaberta, la madre di Marco e Renato.
Con Annaberta in particolare, che considero una mamma adottiva a tutti gli effetti, ho condiviso la vicenda di Marco anche accompagnandola periodicamente in lunghi anni di visite e colloqui, spesso resi ancora più lunghi da gratuite attese, inciampi burocratici, e non solo.
E in questi NOVE ANNI non mi è stata permessa neppure un’ora di colloquio con Marco!
Il carcere di Pisa, Livorno, Milano San Vittore, lo speciale di Novara ed ora la casa circondariale di Biella hanno conosciuto la nostra frequentazione e da tutte queste storie ci si potrebbe tranquillamente scrivere un libro… ricordo, a Novara, che quando Annaberta e Renato entravano a colloquio, oltre al pacco viveri-vestiario per Marco, non mancava mai anche il pacco per Marcello.
Tutto questo i novelli inquisitori non potranno mai capirlo, loro così estranei ad ogni cultura di solidarietà tra chi gli abusi di potere li vive ogni giorno, non solo in carcere.
Devo dunque stupirmi del 270 bis?
Sondrio 16 settembre 2000
Piero Tognoli
23 maggio 2000
TERRORISMO DA 270BIS (“ASSOCIAZIONE EVERSIVA”)
Risale a più di un anno fa che il compagno Marcello Ghiringhelli, detenuto in Svizzera, mi informò che la Procura di Milano starebbe investigando, per dei “fatti di Milano”, contro lui, me, mio fratello, cittadino svizzero e lì residente, la mia compagna e sua figlia della Toscana, e forse altre due o tre persone non meglio specificate.
Suppongo che questa è la “ragione” per cui nel ’98 per quasi un anno i colloqui con mia madre, mio fratello e la mia compagna si svolsero isolati dagli altri colloqui con controlli e perquisizioni particolari. Fu un provvedimento mai ammesso né motivato come tale da parte della direzione e cessò in concomitanza d’un intressamento da parte del mio avvocato.
Metà aprile 2000 ricevo notifica da parte della GIP Cristina Mannocci di MI, che il PM Elio Ramondini avrebbe chiesto una proroga dei termini d’indagine per ipotesi di “reato di cui all’art. 270bis cp commesso in Italia ed all’estero dal dicembre ’98”. Poco dopo stessa notifica è inoltrata alla mia compagna e sua figlia e in seguito anche a mio fratello.
L’art. 270bis perseguita “l’associazione eversiva”, per definizione di natura “politica”. Ma i rapporti criminalizzati e perseguitati con quest’art. emergenzialista sono, in questo caso come in tanti altri, di natura esclusivamente personale, affettiva e di solidarietà familiare.
Marcello e io siamo diventati amici stretti dal ’93, il mio arrivo nello speciale di Novara, amicizia che si mantiene attraverso tutte le sue vicende di declassificazione, lavoro esterno, fino al suo non ritorno al carcere, e continua dopo il suo arresto e carcerazione attuale in Svizzera. Negli anni Marcello è diventato parte della “mia” famiglia.
Politicamente però lui, M-L, ed io, anarchico, siamo tanto distanti da rendere improponibile una qualsivoglia “associazione”, che comunque, nei termini “ipotizzati”, come anarchico, non potrei che rifiutare.
Lo stesso vale, a maggior ragione, quando vige non solo una distanza ma una netta e irriducibile contrapposizione come quella tra posizioni di sinistra rivoluzionaria e le posizioni d’estrema destra della figlia della mia compagna.
È anche assurdo ipotizzare questo tipo di “associazione” tra/con persone “apolitiche” come la mia compagna e mio fratello. Va ricordato qui che la mia compagna, poco dopo che, dopo il mio arresto, iniziò prima un nostro rapporto epistolare e poi d’amore, per questo motivo fu già perseguitata, coinvolta ed arrestata nel ’93 per tre settimane con suo marito, alcuni/e loro amici/che e la compagna Raffi della tipografia di Carrara, nella montatura della “cattura del gruppo di fuoco ecoterrorista” in Toscana (Massa), montatura che si risolse solo dopo vari anni con l’archiviazione del caso. Già in quel contesto gli “inquirenti” si diedero alla ridicola ipotesi d’un coinvolgimento della figlia della mia compagna in “azioni” risalenti, allora, ad anni prima, e cioè quando questa era ancora bambina.
Il parossismo inquisitoriale, nonché di grave negligenza investigativa, si raggiunge quando si vuole coinvolgere una persona come mio fratello, invalido per dei gravi problemi di natura psicologica e mnemonici protratti in un passato periodo da etilista e da decine d’anni dipendente dalle cure e dall’assistenza permanenti di mia madre. Problemi cronici e dipendenza che a priori dovrebbero escludere, anche per il più imbecille degli sbirri, qualsivoglia ipotesi di coinvolgimento in attività “illegali” o anche solo attivamente “politiche”.
Inutile dire che, quali che siano i “fatti” che si vogliano collegare alla “investigazione”, questa certamente manca d’ogni fondatezza obiettiva di fatto e, in questo caso, anche d’un “fondamento ideologico” tanto caro ai vari rosmarini per costruire qualche montatura anti anarchica o anti chicchessia. Per coincidenze di tempi (inizio colloqui “speciali”) è addirittura possibile ipotizzare che queste “investigazioni” si riferiscano ai fatti cui si riferisce la qui presente copia d’articolo del corsera del mese di aprile o maggio [non acclusa, si tratta di un articolo su Luca Giannasi, confidente dei servizi arrestato per le bombe inesplose passate al tempo per bombe anarchiche – nota del dattilografo].
È noto che questo ed altri articoli simili del codice penale prescindono a priori da qualsiasi fondatezza obiettiva di fatto, perché sono invenzioni giuridiche con finalità antisociali di terrorismo giuridico e psicologico di Stato per criminalizzare, perseguire e sancire anche con lunghi anni di carcere i rapporti sociali, familiari ed affettivi d’umana solidarietà (per non parlare di solidarietà ed affinità anche politica!) tra detenuti/e per motivi politici o sociali e tra i loro familiari ed amiche/i. Sono strumenti per isolare le prime dal loro contesto sociale/familiare solidale e quest’ultimo, ulteriormente, dalla società, con il fine del loro annientamento.
Di fatto trattasi d’azioni di guerra sporca preventiva di classe a “bassa intensità”, dall’alto verso il basso e contro civili, e questa non è l’unica né sarà l’ultima azione di terrorismo di Stato anche contro anarchici e i loro familiari.
Per buona soddisfazione dell’internazionale terroristica degli sgherri “d’Italia e all’estero” (Schweiz, Suisse, Svizzera) devo segnalare che, combattendo con abnegazione e coraggio contro una donna anziana ed una persona invalida ambedue incapaci a nuocere, sono riusciti ad impedire da più di un anno a mio fratello di accompagnare mia madre ai colloqui, per il terrore che incute la possibilità d’un arresto o fermo che comprometterebbe il mantenimento del suo precario equilibrio psicologico/esistenziale e potrebbe avere conseguenze soggettive e familiari oltremodo traumatiche.
Marco Camenisch
Novara speciale, 23 maggio 2000
Chi ha paura di Marco Camenisch?
Mentre, da 9 anni, Marco Camenisch è recluso nelle galere italiane i tossici inquinatori dell’atomo, della chimica assassina, dell’elettrosmog diffuso e della manipolazione genetica continuano ad avvelenare noi e l’intero pianeta.
Lo scorso anno a Seattle migliaia di manifestanti gridavano la propria rivolta al WTO e alla mercificazione/inquinamento del globo intero.
Nel 1994 la rivolta zapatista, segnando un punto di svolta alle politiche liberiste, ridava dignità alle popolazioni indigene del Chiapas.
Vent’anni fa – quando l’equilibrio del pianeta non era ancora così sconvolto e l’ingegneria genetica muoveva i suoi primi passi fuori dalla fantascienza – ecologisti antiautoritari come Marco Camenisch praticavano l’azione diretta sabotando nelle strutture dell’alta tensione i tentacoli della piovra nucleare Elvetica.
Energia atomica che in buona parte continua ad alimentare la rete elettrica italiana e le sue industrie altamente nocive, le fabbriche di armi, le solite multinazionali
Oggi Marco Camenisch continua dignitosamente il suo percorso di ecologista non sottomesso, in sintonia con ogni idea e azione tesa alla liberazione dall’attuale sistema di dominio. Per questo la sua è una presenza scomoda anche all’interno di un carcere speciale, privandolo dei più elementari affetti con la negazione sistematica di visite e colloqui esterni all’ambito strettamente familiare.
La punizione contro Marco significa anche colpire con indagini e persecuzioni giudiziarie i parenti e gli amici a lui più vicini e solidali e tutti coloro che non accettano l’idea di un ecologista ribelle sepolto vivo, in un mondo dove la criminalità legalizzata delle multinazionali non tollera alcun dissenso.
Non dimenticando che, per questo, siamo tutti in libertà provvisoria esprimiamo solidarietà a quanti, come Marco, non possono essere fisicamente al nostro fianco.
Per contatti: MARCO CAMENISCH, V.LE DEI TIGLI, 14, 13900 BIELLA
Fonte: Alpi in Resistenza – per l’ecologia sociale – 23 Maggio 2000
11 marzo 2001
Avevo chiesto a Marco di scrivermi una sintesi dei fatti che lo hanno portato a passare molti anni nelle galere prima svizzere e poi italiane, per due diversi motivi. Il primo è che queste storie sono note a molti ma non a tutti: soprattutto per i più giovani quello di Marco Camenish può essere il nome familiare di un compagno in galera e non molto altro; in secondo luogo, è già capitato in passato di aver letto delle versioni riguardanti fatti anche abbastanza “delicati” di compagni/e detenuti/e con imprecisioni se non addirittura delle sviste grossolane. Ho ritenuto quindi preferibile aspettare del tempo e avere una versione assai sintetica ma evitare di diffondere notizie dubbie. Quella che segue è la risposta di Marco, riportata in tutti i suoi passi significativi (sono state omesse solo alcune frasi con riferimenti personali).
Biella, 11.03.2001
[…] Riassunti sulla “mia” storia ne circolano o ne circolavano su stampa di movimento ma man mano la do fuori e poi vallo a recuperare […] purtroppo tenere un archivio come si deve non è da me e sarebbe anche arduo nelle ristrettezze qui, di mezzi e di spazio. […] Un sunto veloce posso tentarlo subito, così mi tolgo il tarlo, sapessi quanti ne ho, perché non sei l’unico che attende e forse crede che non ci penso, ma ci penso eccome, nella gran frustrazione di non farcela mai a rispondere a modino e come sarebbe giusto a tutti e tutte. È un po’ infernale, frustrante, scrivere e poter solo scrivere, per poche cose passa un’ora di tempo, e passo ore ed ore a scrivere, non dimentico nessuno, ogni persona che aspetta è un “tarlo” perché non dimentico nessuno/a. C’è anche la grande relatività del tempo qui dentro, da un lato è insignificante, fermo, sempre uguale, dall’altra passa come il lampo.
Dunque, sono stato preso insieme ad un compagno dopo due sabotaggi in Svizzera, un traliccio ed una sottocentrale di una delle maggiori ditte dell’atomo nel ’79, e ci hanno condannati a 7 anni e mezzo lui e dieci me un anno dopo; ho fatto una lunga dichiarazione di rivendicazione e di accusa a questa società in tribunale che da sola mi sarà valsa la condanna allora, per le consuetudini ed i precedenti in materia, smisurata. Fine ’81 sono evaso dal carcere di Regensdorf vicino a Zurigo con altre cinque persone, nell’occasione è stata uccisa una guardia e ferita un’altra. Non da me, processualmente chiaro tramite giudizi di altri, dopo degli evasi con me, ma tanto basta perché ora sono accusato d’omicidio per quei fatti, sarò giudicato al mio “ritorno” in Svizzera. Rimasi dieci anni latitante, nell’89 in una sparatoria fu uccisa una guardia di confine, una volta accertato che ero stato in zona in quel momento sono accusato anche di questa uccisione, per via indiziaria. Accusato si fa per dire, meglio è dire condannato sia dalla stampa sia da dichiarazioni ufficiali dei servizi svizzeri. Sarò processato anche per questo al mio “ritorno”. Nel ’91, in novembre, dopo una sparatoria con una pattuglia di CC, ferito io e ferito un CC, sono arrestato, ed il tribunale di Massa mi condanna credo nel ’93 a 12 anni per lesioni gravi e, per via indiziaria, per uno dei tanti tralicci caduti e che ancora sarebbero caduti dopo il mio arresto.
Subito la Svizzera chiede l’estradizione concessa dal tribunale di Genova. Rivendico di nuovo il mio essere anarchico rivoluzionario, combattente di classe ed “ecologico”. Lavoravo ed abitavo presso la tipografia anarchica a Carrara, i compagni si dichiarano subito solidali. Dopo mezz’anno di centro clinico a Pisa finisco a San Vittore in una sezione speciale di transito da dove nel ’93 sono trasferito allo speciale di Novara, dopo uno sciopero della fame, per avere il trasferimento in una struttura vivibile, di complessivamente 60 giorni; chiedo anche la riunione con altri detenuti politici e denuncio la situazione negli speciali con la differenziazione e una invivibilità segregativa molto alta. A Novara un altro scioperetto di 20 giorni contro l’invivibilità, la sanità carceraria, l’assenza di spazi di formazione e ricreazione/socializzazione. E ora sono andato in pensione […]
Sarò trasferito in Svizzera alla imminente fine della pena di 12 anni italiana. Cioè verso fine quest’anno fino a metà del 2002, dipende se chiedo la scarcerazione anticipata o meno. Per cinque anni li ho chiesto ed ottenuti, sono via via novanta giorni all’anno e te li danno i magistrati di sorveglianza, cioè i tribunali di sorveglianza se hai “buona condotta”. Non ho più fatto richiesta dei “giorni” perché non so bene, tra le tantissime motivazioni e situazioni contraddittorie, decidermi cosa sarebbe opportuno. […]
Ora forse chiederò la misura alternativa alla pena, cioè l’art. 21 o la semilibertà, visto che della gente fuori è riuscita a reperirmi un posto di lavoro in una coop. di gestione delle aree verdi. Molto improbabile che mi sia concesso qualcosa. Succo del discorso son lì lì per andarmene in Svizzera. Avevo chiesto tempo fa di esservi trasferito nella modalità “espiazione pena estera nel proprio paese”, ma in Svizzera dissero di no, che volevo solo “approfittare” delle maggiori comodità (sic!) delle galere svizzere
Bene, non è tanto, ma sono contento che finalmente mi sono fatto sentire, ripeto, non dimentico nessuno, ma, per i motivi sopra citati, i tempi di risposta possono essere anche di sei mesi, più vorrei approfondire, più lungo il tempo. Ho circa 60-80 indirizzi “attivi”, in tutto saranno un duecento, è dura non permettersi di morire socialmente […]
Marco
Fonte: lettera di Marco Camenish dell’11.03.2001.
Saluto per la passeggiata del 1 giugno 2002 davanti al carcere
Saluto con gioia tutte le amiche e gli amici, tutte le compagne e i compagni qui e quelli che non possono essere qui. Non è solo un saluto dalla galera, ma anche un saluto del mio ritorno. Ero contento di tornare perché ci siete voi, e questa gioia era molto più forte del terrore che ci incutono tutte le Ritorno del mondo e chi per loro (Ritorno è la traduzione del cognome della giudice Claudia Wiederkehr, responsabile per il mio caso!). Ma non avevo nostalgia, poiché la nostra casa è in ogni luogo dove della gente e dei popoli si oppongono agli Stati, allo sfruttamento, alla guerra di conquista e di sterminio, alla miseria mortale ed alla crescita della civiltà capitalista e lottano per un ambiente intatto e, dentro di esso, per l’autodeterminazione, la libertà e la giustizia.
Essere una delle ragioni per cui siete qui ovviamente non mi garba troppo, ma mi piace appartenere alla gente come noi che sa quanto siamo importanti ed insostituibili le varie lotte per la vitale eliminazione della civiltà capitalista; che sente o è cancerogena ed illimitata fino all’esaurimento di ogni risorsa, anche della vita; che è cosciente che questa civiltà ha bisogno del carcere e lo rende necessario, poiché essa stessa è carcere; che sa che non è possibile eliminare il carcere ed affermare la libertà e la vita senza eliminare questa civiltà del capitale.
Un altro mondo è necessario. Deve consistere di tanti mondi tutti necessari l’uno all’altro e dei quali nessuno può essere impossibile. Noi siamo di questi mondi, dove la gioia di vivere è qui ed ora e dove la propria libertà e dignità esattamente la libertà e dignità di tutti gli altri mondi necessari. Dove non ci sono primi, secondi, terzi ed ultimi. Dove la tenerezza è la forza della vita e della lotta; ma non ha modo d’esistere l’odio, poiché l’odio annienta, divide, acceca e debilita ogni lotta del suo significato. Dove non si sacrifica la gioia di raggiungere l’utopica banalità del possibile nella brodaglia unica consumista del progresso capitalista … Laddove, ove e come sia, si vive e si lotta per questo mondo necessario, fianco a fianco o insieme, con parità, con solidarietà critica, onesta e responsabilità secondo le proprie capacità ed i propri veri bisogni. Dove la pace è giustizia, e non un luogo comune ideologicamente definito dai rapporti dominanti di sfruttamento e di violenza per pacificare e denigrare la lotta di classe e di liberazione dei combattenti. Dove la morte e la sofferenza siano un fatto naturale, e non l’insensato annientamento dell’essere nella ferocia del mercato e della produzione capitalista; o che siano, nella lotta, l’umile coraggio di amare e tener dentro alla vita.
Ogni morte, sofferenza e prigionia d’ogni compagna e d’ogni compagno, d’ogni persona e popolo per libertà, giustizia, dignità e ogni vita è la forza crescente ed il crescente dovere dei nostri cuori indignati, sono la forza crescente delle nostre voci, della nostra volontà di resistere.
Onore e gratitudine a tutte le nostre cadute ed ai nostri caduti!
Solidarietà contro ogni persecuzione, discriminazione e prigionia!
Libertà per tutte e tutti!
Marco Camenisch, carcere di Pfäffikon, fine maggio 2002
Comunicato di Marco Camenish
dal carcere di Pfäffikon
28 luglio 2002
Trasferimento del sottoscritto all’ospedale universitario di Zurigo – presso l’Istituto diagnostico di Radiologia – per essere sottoposto alla risonanza magnetica all’addome, alle ore 15,30 del 1 luglio 2002.
Alle ore 14,30 abbandono la cella ed al pianterreno mi attendono 2 poliziotti in borghese e 3 o 4 in uniforme della polizia cantonale di Zurigo.
Informo l’agente in borghese che si comporta da caposcorta che circa mezz’ora prima del controllo devo assumere l’acqua che mi porto dietro, dentro una bottiglia di plastica, poiché la vescica dovrebbe essere piena per il controllo.
Consegno all’agente la convocazione della clinica universitaria con le relative indicazioni. Nel caso mi fossero messe le catene ai piedi chiedo che per il percorso in clinica, probabilmente lungo, si organizzi una sedia a rotelle. L’agente mi dice di non preoccuparmi che ci penseranno loro.
Vengo ammanettato con le mani dietro alla schiena e mi pongono la catena ai piedi; dai contatti radio riesco ad intuire che il dispositivo di sicurezza sia superiore rispetto a quello visibile. Con le catene ai piedi, l’altezza tra il suolo ed il furgone (senza predellino) non può essere superata con un passo; pertanto sono costretto ad inginocchiarmi sul pavimento del furgone e tirarmi su in qualche maniera con le mani dietro alla schiena per arrivare al sedile.
Mi informano che il tragitto durerà circa 20 minuti. L’aerazione della cabina detenuti, priva di aperture o finestre, non funziona. All’arrivo, probabilmente nel cortile di una caserma di polizia a Zurigo, viene aperta la portiera posteriore del furgone e la porta a sbarre interna; mi informano che attenderemo qui fino all’esatto termine del controllo.
Un agente mi porta la bottiglia alla bocca per bere, al che chiedo di essere ammanettato con le mani in avanti. Il caposcorta si rifiuta e dice “Lei sa come funziona”, al che rispondo “Certo, sono in galera da più di 12-14 anni, mai con le catene ai piedi e le manette dietro la schiena”. L’agente risponde “Lei conosce la sua nomea”, al che dichiaro che questo tipo di ammanettamento/incatenamento è un umiliante maltrattamento tipico dei metodi fascisti americani e svizzeri, non necessari con un tale spiegamento militare e soprannumero. “Così o niente” dice l’agente. Al che svuoto la bottiglia tenuta dal secondo agente in borghese.
Non rifiuto, non potendo a cuor leggero mettere in questione la necessità del controllo medico con un rifiuto coerente. Fino alla partenza la portiera posteriore del furgone è lasciata aperta per aerazione, ovviamente con il cancello a sbarre chiuso e sotto vigilanza.
Dopo un’attesa, alle 15,30 circa il caposcorta mi informa che stiamo partendo per il controllo. Scendendo davanti all’ospedale, suppongo presso l’entrata principale, mi devo sedere sul pavimento del veicolo e, poggiando le mani ammanettate all’indietro prima sul sedile e poi per terra e sul culo, arranco fuori dal furgone. Inginocchiarsi è pericoloso (caduta) e doloroso per le invalidità alle gambe ed alle ginocchia causate da ferite d’arma da fuoco.
Il caposcorta mi comunica che purtroppo non sono disponibili delle sedie a rotelle, ma che il percorso sarà breve. Il percorso dal pianoterra all’ascensore e dall’ascensore al piano C, fino alla radiologia si rivela però lungo, anzitutto con le catene ai piedi che non permettono di fare dei passi, ma solo dei ridicoli passettini. I cerchi alle caviglie non provocano dolore, poiché preventivamente mi sono messo tre paia di calzini. La scorta visibile d’agenti uomini ed una donna, in borghese ed in uniforme, consiste in almeno 8 poliziotti.
In radiologia chiedo di nuovo che mi vengano tolte le manette o che almeno mi vengano messe in avanti, visto che per effettuare la risonanza bisogna coricarsi sulla schiena e che sono necessarie delle torsioni per poter fare delle esplorazioni anche dal dorso, all’altezza dei reni.
In questa maniera, inoltre, non si pregiudicano la corretta respirazione ed i trattenimenti del respiro necessari. Gli agenti chiedono al medico cosa sarebbe necessario, questi risponde che in queste condizioni farà quel che è possibile. Mi dovrei pure alzare la maglietta, faccio presente che sarebbe anche necessario abbassare i pantaloni e che sicuramente non permetterò a nessun poliziotto di armeggiare con la patta dei miei pantaloni.
Ma qui in Svizzera non è necessario abbassare i pantaloni. Sempre per la stessa necessità sopra accennata mi corico sulla schiena, cioè sulle braccia e mani legate dietro di essa e sulle manette, tentando di far sporgere più possibile queste dal lato sinistro. Prima informo il medico sulle patologie da controllare: varicocele sinistro, angioma epatico, neoplasia surrenale destra. “Non mi riguarda il varicocele, qui c’è scritto solo del rene, posso controllare anche il fegato” dice il medico. Ripeto per la seconda volta che lo stesso controllo l’ho fatto varie volte come detenuto speciale in Italia, senza manette poiché altrimenti questo controllo non può essere eseguito correttamente.
Il caposcorta dice “Non c’è nulla da discutere”. Io dico che questa è una porcheria fascista.
Il controllo dura circa 20 minuti, il medico esplora gli organi dall’alto e di lato su di una superficie corporale molto minore che nei controlli precedenti. Le manette tagliano le braccia e le mani sulla schiena nuda e mi contorco per i forti dolori, mentre il medico mi dice di stare fermo.
Prima del ritorno non sento la necessità di andare al bagno. Ritorno senza aerazione e bagnato di sudore; penso ai 300 maiali crepati poco tempo fa nella calura per l’aerazione guasta, vicino a Pfäffikon, e che le porcherie fasciste e della giustizia svizzera non sono porcherie ma umanerie.
Arrivo a Pfäffikon, mi levano manette e catena. Chiedo al caposcrota se è lui il capo del gruppo, ed annuisce. Lo prego di dirmi il suo nome e grado di servizio.
Insicuro, mi chiede perché, non rispondo. Poi dice che saprò il suo nome, ma non adesso. Gli faccio presente che lui, il signor anonimo, avrà mie notizie.
Le guardie che mi accolgono mi chiedono se ho dei problemi. Io chiedo loro quanto alta è la temperatura esterna. Ci sono circa 28 gradi C° sopra lo zero.
Il vano detenuti del furgone senza aerazione, né in andata né in ritorno, è in lamiera, lungo due sedili, largo la larghezza del furgoncino e alto poco meno di 1,5 metri. Unica apertura: un buco d’aerazione del diametro di circa 20 cm. con vari strati di retina spessa ed una copertura di lamiera a lamelle fini. Uscendo i 28 C° sembrano freddi.
Viaggiare con le manette all’indietro è una tortura per la posizione estremamente scomoda e perché le manette tagliano i polsi. Molto allarmante è anche il maggiore pericolo di ferimento in caso d’incidente. Non è possibile riparare istintivamente la testa ed il torace con le braccia e le mani. Non esiste imbottitura di protezione ad altezza testa, salvo un pezzo in direzione di guida che al massimo protegge nel caso di un lieve tamponamento. Se c’è un incidente serio la persona è scagliata in varie direzioni.
Nelle tante occasioni di controlli a risonanza magnetica i medici, se la scorta non li preveniva, chiedevano sempre con determinazione di togliere le manette messe, inoltre, esclusivamente davanti; perché altrimenti il controllo non sarebbe stato possibile effettuarlo. Il controllo delle aree del rene e del fegato venne sempre realizzato con esplorazioni di superfici più grandi dell’addome, davanti, di lato e di dietro ed in modo accurato. L’esplorazione effettuata oggi, a Zurigo è avvenuta senza calare i pantaloni, mentre nelle precedenti questo è sempre avvenuto, ed esplorando superfici molto più piccole omettendo l’esplorazione della schiena, a livello della regione renale.
È da chiedersi, se il medico abbia assolto il suo dovere deontologico non imponendo le condizioni necessarie per un corretto controllo e, di conseguenza, non eseguendo il controllo correttamente secondo migliore conoscenza e coscienza.
Evidente è la responsabilità del caposcorta per il trattamento inumano, umiliante; procurando dolori ed il cosciente e premeditato impedimento di un trattamento sanitario corretto.
Non è secondario che le catene ai piedi che costringono ad un’andatura ridicola e lenta e faticosa, messe per attraversare uno spazio pubblico di notevoli dimensioni e frequentazioni sotto scorta spettacolare, sono se non una voluta comunque accettata messa in mostra umiliante di un prigioniero, equivalente alla gogna medievale.
Il controllo è di dubbia concretezza ed utilità anche perché, per non pesare con tutto il peso dell’addome sulle braccia ammanettate, si è costretti ad inarcare la schiena perennemente, contraendo sempre tutta la muscolatura addominale e della schiena con conseguente deformazione e pressione sugli organi. È dubbio che in queste condizioni le misurazioni delle neoplasie con la risonanza magnetica possano risultare attendibili. Prego la diffusione anche presso le organizzazioni per i diritti umani.
Cari saluti, marco
carcere di Pfäffikon, ore 17, 1 luglio 2002
Marco Camenisch
Hörnlistrasse, 55
8330 Pfäffikon
Svizzera