Abbasso il proletariato (1979)

machorka4edfgtredc

La servitù accettata

Il più grande ostacolo all’emancipazione del proletario risiede in se stesso. Il vero disastro per l’operaio è la sua arrendevolezza nei confronti della propria miseria, il suo modo di adattarsi e consolarsi della propria impotenza. Eppure l’esperienza gli ha ben insegnato che non può attendersi nulla dal sistema che l’opprime e che non potrà uscirne senza lottare. Ma preferisce continuare a sfogarsi a vuoto e a rivestire la propria passività di apparente collera.

Il fatalismo e la rassegnazione dominano nei ranghi operai. È chiaro, ci saranno sempre i padroni, che del resto ci sono sempre stati; non c’è granché da sperare quando si è nati dalla parte sbagliata della barricata. Certo, capita che il proletario si irriti e non accetti più una situazione che giudica insopportabile. Ma lo fa per mettere a punto un piano d’azione? No! Non potendo raggiungere quelli che prosperano alle sue spalle, scarica il proprio risentimento su quelli che incontra all’angolo della strada; sui piccoli malavitosi, sugli arabi e gli altri stranieri. Gli sembra quasi di mantenerli. Per le stesse ragioni ce l’ha con la sua donna e i suoi figli, se non gli danno le soddisfazioni che si aspetta e non compensano il suo sentimento di inferiorità sociale con un matrimonio impeccabile e buoni risultati scolastici. L’impiegato si smarcherà con orgoglio dall’operaio che s’insudicia le mani e in cambio sarà disprezzato come un parassita imbrattacarte. Il sindacalizzato si sentirà superiore a chi non lo è ancora ma che deve aiutare ad acquisire una coscienza. In cambio gli offrirà un facile argomento di battute.
Anche quando non si è inaridito, incapace di riconoscere quel che c’è di buono nella vita e la sua parte di possibilità il proletario resta prigioniero del suo limitato modo di vivere. Accetta la propria servitù fino al punto di riconoscere, a una certa età, che le cose miglioreranno progressivamente e che i giovani scontenti dovrebbero saper apprezzare le «conquiste» acquisite.
Esiste un sentimento comunemente condiviso dai proletari di tutti i paesi. Non è l’internazionalismo, bensì la sensazione che altrove le cose potrebbero essere peggiori… Tanto vale non schiodarsi dal proprio posto, dato che è vicino, e per lo stesso lavoro… Nella disgrazia generale, il lavoratore ha almeno la consolazione di aver trovato un rifugio.
Il lavoro resta la migliore delle polizie. Tiene ciascuno a freno e ostacola potentemente lo sviluppo della ragione, dei desideri, del gusto per l’indipendenza, dato che consuma una straordinaria quantità di forza nervosa sottraendola alla riflessione, al fantasticare, all’amore; facendo balenare di continuo uno scopo meschino e assicurando soddisfazioni mediocri ma regolari. Così una società in cui si lavora duro avrà maggiore sicurezza: e oggi la sicurezza viene adorata come una divinità.
Ci sono ancora imbecilli che onorano la ripugnante attività e non la rifuggono spontaneamente. Colui che giorno dopo giorno mina la propria salute potrà essere fiero dei suoi bicipiti e si rallegrerà di non aver più bisogno di fare sport per essere in forma. In certe fabbriche domina una vera e propria mentalità olimpionica. Il salario a cottimo e i premi non sono nemmeno necessari affinché ciascuno ricerchi il suo piccolo record. Con aperto disprezzo o paternalismo per chi non è capace o se ne infischia. Tuttavia è sempre più difficile credere alla reale utilità di ciò che si fa; l’indifferenza e perfino il disgusto nei confronti del lavoro guadagnano terreno.
Eppure chi smette di lavorare spesso non si sente a posto con la propria coscienza. Malati o disoccupati, molti hanno paura di non essere all’altezza, si vergognano di lasciarsi andare. Colui che si misura nel lavoro è convinto di provare a se stesso di non essere uno scarto e di possedere una utilità sociale. Qui si tocca con mano il carattere fondamentale della miseria proletaria: senza lavoro la vita non ha più consistenza, non ha senso né realtà.
Non è l’interesse per il proprio compito a riportare al lavoro, è piuttosto la noia, oltre al bisogno di un salario. La routine della vita quotidiana può far pensare che l’accesso al dopo-lavoro o perfino la disoccupazione siano una liberazione. Bisogna diventare disoccupati o pensionati per constatare il contrario. La pensione o la disoccupazione sono il lavoro al grado zero.
La miseria moderna non si esprime attraverso la mancanza di svaghi o la penuria di beni di consumo, ma con la separazione di tutte le attività, la frammentazione del tempo, l’isolamento degli uomini. Da un lato, un’attività produttiva spesso forsennata, polverizzata, dove le necessità produttive del capitale fanno dell’uomo la carcassa del tempo, strumento fra gli strumenti. Dall’altro lato, il tempo libero in cui l’uomo presume di appartenersi ma dove, addomesticato dall’educazione e abbrutito dal lavoro, è privato di tutto dal bisogno di pagare.
Il consumare e soprattutto i sogni consentiti dal consumo restano l’ultima consolazione. L’operaia, la commessa o la segretaria, oltre al tempo dedicato a guardare le vetrine e alla lettura di fotoromanzi, impiegano la loro vitalità a innalzare il proprio rango sociale attraverso visibili sforzi dedicati alla propria immagine. La «femminilità» potrà essere pienamente soddisfatta grazie ai miracoli dei più disparati prodotti a disposizione. Il desiderio d’essere considerata e l’adesione sottomessa alle rappresentazioni servili della donna si mescolano per meglio beffarla sulla realtà del suo destino. La «famiglia» operaia accarezza l’idea di quella piccola casetta di periferia che un giorno le apparterrà e che «sarà finalmente casa nostra». Ma prima di tutto c’è l’automobile. Si sogna di comprarla, di cambiarla. È la misura della ricchezza e del saper-vivere, e fornisce un inesauribile argomento di conversazione. Anche se l’operaio preferisce confidare al barista i guai che ha con sua moglie o mostrargli le foto dei figli, il garagista rimane il suo autentico confidente.
Spesso l’operaio si mostra diffidente nei confronti della politica, ma assai raramente rivolge critiche alla politica e ai politici. Inorgoglito dall’importanza momentanea che gli viene accordata ed eccitato dal lato sportivo della faccenda, non rifiuta di volta in volta di andare a deporre la sua scheda elettorale. Basta che il vento dell’«Unione» ricominci a soffiare affinché tutte le sue illusioni apparentemente sbiadite si ravvivino. Poco importa che la sinistra abbia regolarmente tradito le speranze che la masse riponevano in essa, che i socialdemocratici abbiano spedito in guerra nel 14, partecipato ai peggiori compromessi borghesi, appoggiato la repressione coloniale. Quanto ai presunti comunisti, non appena arrivano al potere fanno peggio che abbandonare la difesa degli interessi operai: chiedono di lavorare duro e non esitano a reprimere fisicamente il proletariato come a Kronstadt, a Barcellona o a Budapest. Ma che ne sa l’operaio della storia delle lotte proletarie? Della Comune di Parigi, della rivoluzione russa, degli scioperi sotto il Fronte Popolare, non conosce che i santini che gli apparati politici e gli istitutori della sinistra hanno elaborato a suo uso e consumo.
Se aderisce ad un partito stalinista, il «lavoratore» denuncerà i profitti abusivi dei monopoli e le speculazioni vergognose dei promotori immobiliari. Ma non gli passa per la testa di capire cosa siano veramente il profitto e la funzione del padrone. Non vedrà che furti, parassitismo, abusi delle «duecento famiglie», e non certo le funzioni economiche che soprattutto si dovrebbero liquidare fin dalle fondamenta: capitale e salariato. Non appena si tratta di un paese modello e socialista, Svezia o Cuba dipende dai gusti, quei profitti, quei fasti, quegli uffici sontuosi, quei villini al servizio del popolo gli sembreranno subito più onesti. Che un qualsiasi grasso burocrate sia un «dirigente operaio», e il suo stile di vita diventerà un esempio di dignità operaia. Nei paesi in cui il proletariato esercita la sua dittatura, quale non deve essere la soddisfazione dell’operaio – la mattina, quando arriva in fabbrica e alza il caschetto davanti al caposquadra – nel sapere che di fatto è lui il proprietario della sua impresa, e in fin dei conti il superiore dei suoi superiori…
Il nemico del proletariato non è tanto il potere dei capitalisti o dei burocrati, quanto la dittatura delle leggi dell’economia sui bisogni, sull’attività e sulla vita degli uomini. La contro-rivoluzione moderna è imperniata sulla difesa della condizione proletaria e non sulla salvaguardia dei privilegi borghesi. È in nome del proletariato e delle esigenze economiche, con l’aiuto dei suoi rappresentanti politici e sindacali, che si cerca di salvaguardare la società capitalista.

La pianificazione della servitù

Anche protestare e rivendicare sono parte del ruolo dell’operaio e della sua impotenza. Impotenza, distacco della realtà e assenza di prospettiva a cui lo condiziona in primo luogo il suo lavoro. Passivo e isolato, accetta di mettersi nelle mani degli apparati burocratici credendo di trovarvi la coesione che gli manca.
Il lavoratore, quando rivendica all’interno delle sue «organizzazioni responsabili», conferma ciò che sta alla base della sua miseria. Cosa reclama? Pane? Spazio? Macchine? I mezzi necessari per godersi la vita, incontrare i suoi amici, agire e produrre per loro e con loro? No. Reclama con ostinazione la garanzia di poter lavorare, di farsi sfruttare nelle galere del salariato, e come contropartita l’avanzamento dell’età della pensione, affinché i giovani possano approfittare del loro diritto al lavoro e i vecchi preparare la loro sepoltura. Che l’operaio costretto e forzato dall’ambiente economico arrivi a vendersi per ottenere di che sopravvivere, passi; che una volta al lavoro faccia tutto il possibile per non rovinarsi la salute, per proseguire delle attività più congeniali e per ridurre il tempo durante il quale viene sfruttato, è ovvio. Queste attitudini, che devono di fatto tener conto del contesto capitalista, non hanno nulla a che vedere con l’esigenza del diritto al lavoro e del diritto alla pensione.
Le riforme non sono conquiste del proletariato, ma gli aggiustamenti che il sistema è costretto a concedere per assicurarsi sopravvivenza e accrescimento. Di solito – talvolta sotto la pressione delle masse – si limita a liquidare i propri arcaismi. Il riformismo operaio non riesce a coprire le necessità di sviluppo del capitale, in particolare quella di trattare relativamente bene la forza lavoro per poterla sfruttare con più intensità.
La crisi e i disordini che determina, ecco un momento di speranza per gli arrivisti ed i burocrati. Essi tentano allora di scivolare verso i posti buoni divenuti liberi, attraverso l’azione del proletariato. Questo lo si è visto specialmente durante la rivoluzione russa, quando il partito bolscevico ha fatto retrocedere, a volte militarmente, le forze vive della rivoluzione per restaurare l’ordine capitalista e la disciplina nelle fabbriche: ma anche durante la rivoluzione tedesca (1918/1923) o spagnola (1936/1937)…
Quelli che fondano il proprio potere di negoziatori della forza lavoro sull’impotenza e l’atomizzazione dei proletari, sono i difensori della società di sfruttamento. Il loro programma è la gestione della condizione proletaria. Possono ben gridare «Viva il proletariato», poiché vivono precisamente di proletariato! E se si esibiscono senza vergogna, questi eredi dell’insuccesso delle insurrezioni proletarie, è perché hanno prosperato sul loro affossamento.

Una grande illusione, l’autogestione

Il capitale ha mercificato tutti i rapporti sociali. Ma questo stesso movimento ha reso fragili i meccanismi di regolazione del sistema e tutti gli equilibri instabili dell’accumulazione su cui è basato, siano essi monetari, sociali, demografici o ecologici. La crisi del 29 era giunta dopo la repressione del proletariato (fallimento del periodo rivoluzionario degli anni 20), per contro quella che viviamo arriva in un’epoca in cui, avendo il proletariato riscoperto la sua forza, si prepara uno scontro decisivo.
L’universo capitalista si basa sul proletariato come nessun’altra società di classe sui suoi schiavi. La classe determinante del capitalismo è il proletariato, non la borghesia. Finché c’è il proletariato, c’è il capitalismo e del resto la caratteristica rivoluzionaria del capitalismo è di ampliare il proletariato, la classe che esprime la dissoluzione di tutte le classi, la classe che non può più riconquistare la sua umanità ed appropriarsi del suo mondo senza sconvolgere la propria condizione e distruggere il capitale.
Il proletariato è tanto più spinto all’azione quanto con la crisi il movimento operaio diventa incapace di regolare il lavoro salariato. In rapporto ai loro antenati e ai miserabili del terzo mondo, gli sfruttati dei paesi sviluppati sono relativamente coccolati. Tuttavia la prossima trasformazione rivoluzionaria si baserà su di loro, perché lo scarto tra ciò che è e ciò che sarebbe possibile è più grande che mai. Questo scarto, ne siano essi più o meno consapevoli, è comunque una contraddizione che li incita e li inciterà tanto più ad agire per sbrogliare la situazione.
In mancanza di una ideologia borghese, proprietaria, morale o religiosa da poter opporre agli spossessati, si oppone loro una ideologia proletaria: il socialismo, l’autogestione. La generalizzazione del salariato ha distrutto i vecchi valori della proprietà e obbliga il capitale a mettere in avanti l’accesso alle responsabilità, l’arricchimento degli obiettivi, la democratizzazione del potere nell’impresa, la partecipazione. Maggiormente quando le difficoltà economiche rendono più dolorose le compensazioni in moneta sonante.
Il problema della gestione diventa centrale solo in un universo spezzettato e atomizzato, in cui gli uomini restano impotenti davanti alla necessità economica. Gli autogestionari ed altri apostoli del controllo operaio vogliono attaccare i lavoratori alla “loro” impresa. Ciò si presenta concretamente come l’azione dei comitati in ogni impresa, spulciando i conti, controllando il padrone o la direzione, sorvegliando al tempo stesso la produzione e le attività commerciali. Si suppone quindi una specie di economia perenne le cui leggi sarebbero grosso modo identiche sotto il capitalismo e sotto il comunismo: i lavoratori dovrebbero perciò imparare le regole dell’amministrazione e del commercio. La logica della merce s’impone e determina tutto: ciò che verrà fabbricato, come, eccetera… Ma per il proletariato il problema non è di rivendicare il «concepimento» di quello di cui oggi esso si assume solo la «fabbricazione».
Nel migliore dei casi la sua soluzione sarebbe sinonimo di autogestione del capitale. L’esempio dell’azienda Lip è significativo: i compiti prima assicurati dal padrone ora diventano compiti degli operai. Oltre al processo produttivo, essi si incaricano della commercializzazione. Ma tutti i problemi che può comportare la «gestione» sono completamente differenti in una società non mercantile. Per questo il controllo operaio è una assurdità: ai lavoratori può insegnare solo la gestione capitalista, quali che siano le intenzioni di coloro che lo esercitano.
Vantata dagli ideologi d’ultima moda, l’autogestione si veste del fascino dell’utopia. Ma che sogno triste quello in cui la confusione di un capitalismo senza capitalista andrebbe ad aggiungersi al ridicolo di lavoratori che si entusiasmano domani per quello che oggi li lascia indifferenti: il mantenimento del salariato… Dinanzi ai futuri eccessi, la sinistra democratica vede nell’autogestione qualcosa che le permette di rafforzarsi, di essere più compiuta, di riassorbire un movimento che si preannuncia minaccioso.

[Les amis du Potlatch, 1979]
http://www.finimondo.org/node/520