Ai refrAttAri AllA pAcificAzione sociAle (2008) it/fr

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Vi sono sempre più indesiderabili al mondo. Degli uomini e delle donne per i quali questa società non ha previsto che un ruolo, quello di crepare. La società non ci desidera che così: morti per il mondo o per noi stessi.

Perché lo sfruttamento, la prigionia, il controllo, l’isolamento e la dominazione non sono solo delle parole. Possiamo spaccarci la schiena curvi su una macchina da cucire come dietro una catena di montaggio; possiamo girare in tondo dentro una gabbia aspettando di essere espulsi sul prossimo charter, come contare i giorni che ci separano dal prossimo colloquio dietro un vetro; possiamo andare a prendere i figli con l’angoscia di essere arrestati all’uscita della scuola oppure abbandonarli, per rimanere tranquillamente a guardare la televisione; possiamo ammassarci in dieci in una cantina oppure crederci fortunati dentro una capponaia; possiamo scampare ad una retata della polizia per ricadere “nelle maglie” delle cosiddetta comunità; si può schivare il controllo degli sbirri per sottomettersi al giogo di un qualunque “grand frère” o “capobanda”; ancora, si può perseguitare qualche ladruncolo facendo la guardia privata oppure denunciare da dietro una finestra chi incendia l’immondizia.
In questa guerra sociale senza tregua, non è la nostra miseria in comune che ci permetterà di abbattere questo sistema ma, piuttosto, il vigore con il quale la combattiamo. Se ci possiamo sentire talvolta solidali con i “clandestini” che si rivoltano non è certo per costituire (e sostituire) un racket politico a loro protezione e difesa, tanto meno ci interessa inventarci un ennesimo “soggetto politico” da presentare come virtuoso giusto per la sua condizione. In ultimo, non vogliamo assistere nessuna “vittima in pericolo”: lasciamo questo compito agli sciacalli delle associazioni umanitarie.
Noi non siamo a fianco degli indesiderabili: noi siamo indesiderabili. Il mutuo appoggio e la lotta non si possono costruire che a partire dall’offensiva e dalla reciprocità.
Quando ci vendono l’immagine della madre di famiglia che alleva i suoi sei figli da sola, quella dell’onesto operaio che lavora – non dimeno – per la buona salute dell’economia nazionale, quella del bambino separato dai suoi cari ma circondato dai suoi compagni di classe che lo adorano, persino quella dell’universitario arrivato “dal paese” e divenuto qualcuno, tutto ciò, non è che una tattica mediatica dietro cui si nasconde la faccia sporca di una suora caritatevole.
Indignarsi, con grande sforzo d’affetto, a sostegno dei bravi immigrati senza documenti ingiustamente repressi, equivale a fare come se l’occupazione poliziesca, le retate, i campi, le espulsioni, così come i mercanti di sogni e di sudore fossero delle “ derive” da rettificare. Equivale a scordare che tutto ciò è una conseguenza “molto democratica” di un mondo che trasforma tutto e tutti in merce.
L’obbiettivo dello Stato non è la deportazione di tutti i clandestini. Di fatto, sfruttarli in massa permette di abbassare il costo della manodopera (nella ristorazione, nell’edilizia, nella manifattura, nei lavori stagionali) imponendo condizioni di lavoro che si credevano accantonate. La reclusione e l’espulsione di una parte della forza lavoro immigrata non è che uno dei mezzi per instillare la paura e la rassegnazione in tutti.
Di questo terrore legale, la sinistra come la destra condividono le responsabilità in una degna continuità nell’abiezione. E’ quindi impossibile, persino inconsciamente, sostenere l’idea di una “sinistra utile”. In definitiva non si tratta di rivendicare una migliore integrazione (sia che questa passi attraverso i documenti, il lavoro o una dimora ) ma piuttosto di sviluppare dei legami basati sulla libertà e sulla reciprocità in una lotta senza mediazioni, riuscire a strappare dei mezzi per riprendere in mano la propria vita. Nessuna politica si potrà mai sostituire ad un cambiamento reale dei rapporti.
Pertanto, questo sistema non è un’enorme macchina astratta che ci lascia unicamente la possibilità di esserne schiacciati o partecipi. Questo sistema è composto da meccanismi che si incarnano in uomini e in strutture: i gestori della dominazione quotidiana, sia legali (banche, amministrazioni, padroni) che illegali (mafiosi o trafficanti), insomma quelli che la fanno da sfruttatori e/o da delatori, si incontrano ad ogni angolo di strada.
Le prigioni sono costruite da imprese ( Bouygues,Eiffage…) che hanno dei cantieri ovunque; le espulsioni sono rese possibili grazie alla collaborazione delle compagnie aeree (Air France, Royal Air Maroc …) e delle catene (Accor…) che possiedono le varie agenzie; le retate vengono effettuate grazie alla complicità dei controllori ( RATP;SNFC…).
Tutti hanno un volto, un nome, degli indirizzi e ciascuno può a modo suo esprimere il proprio disgusto. Ben inteso, essendo la legge uno strumento a servizio del potere, non è certo definendoci contro di essa né tanto meno rispettandola che potremo pensare di avanzare: le nostre azioni e la nostra rabbia si misurano senza codice penale e portano in sé la nostra etica e le nostre prospettive.
Anche se il problema dei documenti non sarà risolto che con l’abolizione di tutte le frontiere, anche se i centri di detenzione – come tutti gli altri luoghi di reclusione (prigioni, celle dei commissariati, manicomi, scuole, galere salariate …) – non saranno eliminati che con la scomparsa dell’autorità… noi non attendiamo niente e nessuno. Sul cammino si possono incontrare anche dei complici, perché quando il potere attacca la libertà di un individuo attacca la libertà di tutti.
Per distruggere le catene della rassegnazione e della paura, poco importa l’epoca. E’ sempre l’ora. E’ più che ora…

Alcuni ammutinati della nave morta

Tradotto da un manifesto apparso sui muri di Parigi -2008-

Aux Insoumis de la pacification sociale

l y a de plus en plus d’indésirables dans le monde, d’hommes et de femmes pour qui cette société n’a prévu qu’un rôle, celui de crever. La société ne nous désire qu’ainsi : morts pour le monde ou pour nous-mêmes.

Parce que l’exploitation, l’enfermement, le contrôle, l’isolement ou la domination ne sont pas que des mots, on peut se briser les os courbé sur une machine à coudre, comme derrière une chaîne de montage ; on peut tourner en rond dans une cage en attendant d’être ligoté dans un charter, comme compter les jours en attendant le prochain parloir derrière l’hygiaphone ; on peut aller chercher des mômes à l’école avec l’angoisse de se faire arrêter à la sortie, comme les y abandonner pour regarder tranquillement sa télé ; on peut s’entasser à dix dans une cave, comme on peut se croire chanceux dans une cage à poule ; on peut échapper à la rafle des flics pour retomber dans les filets de la communauté, comme on peut esquiver le contrôle de la BAC pour finir sous la coupe de ses grands frères ; on peut interpeller les petits voleurs en faisant le vigile, comme on peut dénoncer les incendiaires de poubelle de derrière sa fenêtre.

Dans cette guerre sociale sans trêve, ce n’est pas notre misère commune, mais la vigueur avec laquelle nous la combattons, qui nous permettra d’abattre ce système. Si nous nous sentons en l’occurrence solidaires des sans-papiers révoltés, ce n’est pas pour déverser un racket politique de souteneurs et créer un énième sujet politique qui serait vertueux de par sa condition. Et ce n’est pas non plus pour assister une victime en péril, à la façon des charognards humanitaires. Nous ne sommes pas du côté des indésirables, nous en sommes. L’entr’aide et la lutte ne peuvent ainsi se construire entre nous qu’à partir de bases de réciprocité et d’offensive.

Quand on nous vend l’image de la mère de famille élevant seule ses six enfants, de l’honnête ouvrier qui œuvre – pourtant – à la bonne santé de l’économie nationale, de l’enfant séparé de ses parents mais entouré de camarades de classe aimants, voire de l’universitaire reconnu jusque dans son bled, c’est la tactique du scandale qui pointe sa sale gueule de bonne sœur. S’indigner à grand renfort d’affect sur les « bons sans-papiers injustement réprimés », c’est faire comme si l’occupation policière, les rafles, les camps, les expulsions, mais aussi les marchands de sommeil ou de sueur, étaient des « dérives » à rectifier. C’est oublier que c’est aussi une conséquence très démocratique d’un monde qui transforme tout et tous en marchandise.

L’objectif de l’Etat n’est pas de déporter tous les sans-papiers. Les exploiter par milliers permet en effet d’abaisser le coût du travail ici (dans la restauration, le BTP, la confection, la culture saisonnière) en imposant des conditions d’exploitation généralement cantonnées un peu plus loin. L’enfermement et l’expulsion d’une partie d’entre eux est un des moyens d’apprendre la peur et la résignation à tous.

Cette terreur légale, la gauche, aussi bien que la droite, en porte la responsabilité dans une digne continuité de l’abjection. On ne peut donc pas, même inconsciemment, cautionner l’idée d’une « gauche utile » ou traîner à sa remorque. En somme, il ne s’agit pas de revendiquer une meilleure intégration (que ce soit à travers des papiers, un boulot ou un toit), mais plutôt, en développant des liens basés sur la liberté et la réciprocité dans une lutte sans médiation, d’arracher des moyens pour reprendre sa vie en main. Aucune politique ne pourra jamais se substituer au changement réel des rapports.

Pourtant, ce système n’est pas une grande machine abstraite qui nous laisserait uniquement la possibilité d’être écrasé ou d’y participer. Il est composé de mécanismes qui s’incarnent dans des hommes et des structures qui se trouvent à tous les coins de rue : les gestionnaires de la domination quotidienne – légale (administrations, banques, proprios…) comme illégale (mafieux ou négociants) – font de beaux exploiteurs comme de belles balances ; les prisons sont construites par des entreprises (Bouygues, Eiffage…) qui possèdent des chantiers un peu partout ; les expulsions sont effectuées grâce au concours de compagnies (Air France, Royal Air Maroc…) et de chaînes (Accor) qui possèdent des agences ; les rafles se font avec la complicité active des contrôleurs (RATP, SNCF…). Tous ont un visage, un nom, des adresses, et chacun peut à sa façon leur exprimer son dégoût.
Bien entendu, la loi n’étant qu’un instrument au service des puissants, ce n’est certainement pas en la respectant qu’on pourra avancer, pas plus qu’en se définissant contre elle : nos actes se mesurent sans code pénal, à l’aune de notre éthique et de nos perspectives enragées.

Même si le problème des papiers ne se réglera que par l’abolition de toutes les frontières, même si les centres de rétention, comme les autres lieux d’enfermement (prisons, locaux de garde-à-vue, asiles psychiatriques, écoles, bagnes salariés…), ne seront détruits qu’avec la fin de l’autorité… n’attendons cependant rien ni personne. En chemin se rencontrent aussi des complices, parce qu’en s’attaquant à la liberté d’un individu, c’est à la liberté de tous qu’ils s’en prennent.

Pour briser les chaînes de la résignation et de la peur, peu importe l’époque, il est toujours la même heure, et il est plus que temps…

Des mutinés du vaisseau des morts

mutines_vaisseaudesmorts(at)riseup.net

Extrait de Non Fides N°IV.
http://www.non-fides.fr/IMG/pdf/vaisseau.pdf