Basta una contestazione non-violenta?

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Günther Anders

Il tradimento
Il livello pre-rivoluzionario della nostra lotta contro i preparativi di annientamento totale, quello che consiste in atti simulati, sentimentali e simbolici, appartiene oramai al passato. Andare oltre questo livello di violenza, o piuttosto di non-violenza, è certo in contraddizione con quei princìpi e tabù cui ci siamo sempre attenuti — quanto meno io da parte mia non ho mai cessato di farlo — fin dalla Prima Guerra mondiale, e che a dire il vero considero inviolabili; il che mi mette d’altronde in una condizione che non ho nessuna voglia di descrivere.

Ma quando uno dei padroni del mondo ritiene, com’è successo da poco, di divertire il proprio uditorio annunciando con un largo sorriso che sta per dare l’ordine di bombardare l’Unione Sovietica, e allorché il suo pubblico nell’udire questa sinistra burla gli si stringe con affetto come un sol uomo, è nostro dovere adottare un nuovo comportamento e bandire d’ora in avanti qualsiasi gentilezza e moderazione: perché non esiste pericolo più serio dell’assenza di serietà negli onnipotenti. Rimanere oggi misurati e ossequiosi sarebbe non solo dare prova di indifferenza ma anche un segno di viltà, significherebbe tradire le generazioni future. Contro i mostri minacciosi che, mentre le foreste scompaiono, assurgono al cielo per trasformare la terra in un inferno, una «resistenza non-violenta» non ha effetto alcuno; non è con discorsi e preghiere, né con scioperi della fame e tanto meno con adulazioni che li cacceremo. Tanto meno se c’è chi approva l’utilizzo di tali mostri e ne favorisce la disposizione, considerando la minima contraddizione che opponiamo loro — foss’anche la più legittima — o la minima resistenza — foss’anche la più simbolica — una forma di violenza.
No, dobbiamo attaccare fisicamente adesso e rendere sistematicamente inutilizzabili questi mostri che ci hanno invaso e che, minacciando di diffondere il caos o piuttosto di riportare la terra allo stato di caos primordiale, costituiscono una minaccia permanente per l’umanità e ci fanno piombare in uno stato di urgenza generalizzato.

Morale è ciò che è nuovo
Ma questo è ancora insufficiente. Questa stessa decisione potrebbe rivelarsi assurda — sì, assurda per modestia. Giacché troppo elevato è lo scarto fra l’enormità, o meglio la perfezione tecnica, degli apparati di distruzione (così come delle armi utilizzate dalla polizia per proteggerli) e la primitività (pensateci bene!) delle nostre armi: delle nostre seghe manuali, delle nostre cesoie, delle nostre chiavi. E se dico «pensateci!» è perché agli occhi degli uomini che detengono il potere e dispongono della violenza, la rozzezza di queste armi, già disonorevole, è talmente ridicola da diventare offensiva. In altre parole, essi credono che solo strumenti in grado di competere con i propri — solo armi tecnicamente più raffinate — siano degni d’essere presi sul serio. Qualsiasi cosa tecnicamente primitiva è per loro, da qualsiasi punto di vista (compreso quello etico), indegna d’essere presa in considerazione. Per questo motivo sono fermamente convinti che sia più morale spargere gas lacrimogeno nell’aria su centinaia di manifestanti piuttosto che lanciare volgari pietre afferrate da terra. Per loro, il modo più moderno di uccidere è anche il meno criticabile. Viceversa: essere feriti da una coltellata (e non da una bomba a neutroni ultimo grido) sarebbe davvero mediocre e infamante. Alla fine del secondo millennio si avrà pur il diritto di esigere di venir combattuti con armi più moderne di semplici pietre! «Moriamo, sì, ma moriamo moderni!».

Uccidere cose inanimate è sufficiente?
Tale è la disparità tecnica tra le considerevoli armi del nemico (comprese quelle altamente moderne della polizia che le protegge) e le armi utilizzate dai manifestanti per difendersi (che a malapena si possono definire «armi», si tratta per lo più di richieste d’aiuto sotto forma di oggetti), che è comprensibile il disfattismo di chi ritiene che lo scontro fisico sia semplicemente senza speranza. Di fatto, questo divario è paragonabile a quello esistente fra le armi da fuoco utilizzate dalle forze coloniali nel secolo scorso e le frecce di bambù con cui i congolesi tentarono disperatamente, ma invano, di opporre una qualche resistenza. La differenza tecnica aveva determinato l’esito del conflitto, a spese ovviamente di chi era inferiore tecnicamente. Allo stesso modo il nostro uso della violenza, rivolta esclusivamente contro oggetti inanimati, non sarebbe o non è più di un’azione simbolica a paragone con gli strumenti di cui dispone il nostro nemico e con la violenza che può esercitare. D’altronde, chissà che il mostruoso sviluppo della tecnica (che possiamo definire «rivoluzione», forse addirittura la più importante rivoluzione conosciuta dalla storia dell’umanità) non abbia ridotto a zero ogni possibilità di rivoluzione politica — il che costituirebbe ovviamente un’altra rivoluzione, un importante avvenimento storico, benché di segno negativo, dello stesso genere della scomparsa di tante specie.
Limitarsi ad attaccare e «uccidere» solo cose inanimate (questo è quanto gli indecisi si consentono di fare) è insufficiente e inefficace. E questo non solo perché questi attacchi riescono a malapena a scalfire il loro bersaglio. No, la ragione per cui è insufficiente e assurdo accontentarsi di danneggiare e distruggere cose inanimate (che hanno in sé la potenzialità di uccidere milioni di esseri umani), è che possono essere sostituite in ogni momento e senza alcuna difficoltà, come qualsiasi altro prodotto nell’èra della produzione di massa. La loro distruzione è quindi inutile. Inoltre, non riuscendo il consumo a seguire il ritmo dei bisogni della produzione in nessun ambito, i prodotti oggi sono troppi, il che li rende indistruttibili o — per dirla in modo solenne — immortali. Per questo minacciare di danneggiarli ha senso ed effetto solo se cerchiamo anche di spiegare alle persone coinvolte nella produzione, nell’attuazione e nell’eventuale loro uso, che il trattamento che finora abbiamo riservato soltanto ai loro prodotti (il verbo «infliggere» sarebbe qui fuori luogo) non è che un assaggio di quel che saremo costretti ad infliggere loro. Dato che loro ci terrorizzano costantemente, potrebbero ben ritrovarsi a propria volta costantemente impauriti e costretti senza tregua a stare in guardia — tutti, senza eccezione, e senza un ordine prestabilito. Affinché ai nostri figli e ai figli dei nostri figli sia finalmente garantita la sopravvivenza. E dico appositamente che siano finalmente garantiti e non che continuino ad esserlo.

Il tabù infranto
Non ho scritto queste ultime spaventose frasi alla leggera, come si formula una qualsiasi ipotesi, una opinione o una recriminazione. Poiché, nel corso degli anni che ci separano dalla guerra, il fatto che degli uomini possano uccidere altri uomini e possano anche prendervi un certo gusto non ha mai smesso di sbalordirmi. Fin da bambino non ho mai pronunciato il verbo «uccidere» senza una certa esitazione, come se il suono di questa parola fosse altrettanto micidiale dell’atto che indica.
Ecco perché scrivo e sono costretto a scrivere questa parola pieno di spavento e di incredulità, dato che per sopravvivere non esiste altro mezzo se non minacciare quelli che ci minacciano. Chi mi sta obbligando ad infrangere il tabù dell’omicidio può star certo che non riuscirò mai a perdonargliela.
Esigo ed ho il diritto di esigere che non mi si accusi di leggerezza se in conclusione ribadisco: se vogliamo assicurare la sopravvivenza della nostra generazione e quella delle generazioni future (una sopravvivenza che possiamo solo auspicare), non esiste alternativa; non c’è altro mezzo che quello di informare chiaramente chi persiste a mettere in pericolo la vita sulla terra attraverso l’uso dell’atomo — poco importa se a scopo «bellico» o «pacifico» — e continua a rifiutare sistematicamente ogni trattativa volta a porvi fine, che d’ora in avanti dovrà considerarsi un nostro bersaglio. È per questo che dichiaro, con dolore ma con determinazione, che non esiteremo a uccidere quegli individui che, per mancanza di immaginazione o di cuore, non esitano a mettere l’umanità in pericolo e a rendersi così colpevoli di crimini nei suoi confronti.

[da Machete n. 3, novembre 2008]