La guerra che viene

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Max Sartin
Per definire un atteggiamento che permetta, agli anarchici e ai rivoluzionari in generale, di marciare senza dubbi, senza incertezze e senza tradire attraverso la bufera della guerra futura, bisogna tener conto dei caratteri soggettivi e dei caratteri obiettivi della situazione, bisogna cioè tener conto dell’individualità dei principi che professiamo e delle forze su cui questi possono contare per farsi valere; dei caratteri e delle funzioni della guerra in regime di monopolio economico e di autorità politica, di cui il fascismo e bolscevismo, nuovi forse più di nome che di sostanza, non sono che variazioni.

Incominciando dai principi, è ovvio che il pacifismo, integrale o meno, non è compatibile con un atteggiamento veramente anarchico di fronte alla guerra.
Il pacifismo ha un grande merito perché, rivendicando l’intangibilità della vita, dice agli uomini che non sono nati, che non dovrebbero essere nati per scannarsi a vicenda; e che per evitare tutto il dolore evitabile, per raggiungere tutta la gioia possibile, gli uomini dovrebbero trovare un modo assennato e civile per comporre le loro differenze da esseri ragionevoli, anziché da fiere affamate e rabbiose.
Ma il pacifismo ha un torto anche maggiore, che lo condanna ad essere una frode o un’utopia finché durino le attuali condizioni sociali, dove la fame è cronica e l’odio è sistematicamente instillato dalle ingiustizie trionfanti: il torto fondamentale di rivendicare contemporaneamente la santità della vita del padrone e del tiranno – i quali sono in continuo stato di violenza felina – e di quella del diseredato, che ne è continuamente la vittima.
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Per questa ragione è da considerarsi morale e ragionevole, fattore di libertà, di civiltà e di progresso la guerra che gli oppressi, individualmente o collettivamente, conducono contro gli oppressori, gli sfruttati contro gli sfruttatori. La cosiddetta pace, in regime di privilegio economico e politico, non è pace – e questo anche in senso molto relativo – che tra i privilegiati, i padroni e i governanti, dei diversi paesi; ma all’interno di ciascun paese, e per tutta l’umanità, non è stato di pace – neanche in senso relativo – è invece stato di guerra legalizzata e moralizzata delle classi dominanti contro le classi diseredate; la più barbara ed immorale delle guerre, perché si nasconde sotto il manto dell’ipocrisia e perché, in essa, chi ha il monopolio di tutta la ricchezza e di tutte le armi ed è in perpetuo stato di aggressione, nega al nemico spoglio di tutti gli averi e di tutti i diritti – del quale si finge fratello nella divinità e nella stirpe – persino il diritto di difendersi. Ecco perché, in tali condizioni, il pacifismo è un’utopia o una frode, a seconda che è professato con ingenuità o con malizia.
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Un atteggiamento rivoluzionario e, soprattutto, anarchico, di fronte alla guerra degli imperialismi borghesi, deve essere attivista, affermatore di giustizia contro l’arbitrio degli uomini e delle cose, di libertà contro la tirannia esosa del militarismo, di vita contro la morte trionfante, non solo al fronte, ma dappertutto. Deve cioè essere sostenuto da una volontà, da un’aspirazione e da una linea di condotta che, traducendosi in azione sociale, non si confondano coi calcoli e con le mire né dell’uno né dell’altro dei blocchi imperialisti che si contendono il terreno e la vittoria, sì da promuovere gli interessi superiori dell’umanità anziché quelli particolari delle cricche dominanti.
Si tratta, quindi, per noi e per tutti i rivoluzionari, di tracciare una linea di azione desiderabile e possibile, che sia attiva senza diventare oppressiva, che sia rivoluzionaria senza diventare militarista, che colpisca insieme lo Stato e l’ordine borghese senza giovare ad un particolare stato e ad una particolare borghesia nazionale. Una forma di attività, insomma, che conservi la propria fisionomia nel crogiolo ardente di un conflitto generale.
Nella vita sociale, come nella vita fisica e nell’esperienza storica, i contrari si respingono e si elidono; soltanto dove esistono elementi di affinità o di parentela sono la fecondazione e l’innesto possibili. Ora, non è qui il caso di ripetere la dimostrazione che tra i calcoli e gli interessi delle minoranze dominanti nel mondo, e le aspirazioni e gli interessi delle moltitudini sfruttate e oppresse dappertutto, non esiste né affinità né parentela; esiste semplicemente contrasto e ripulsione determinanti in ogni momento il predominio degli uni e la sottomissione degli altri.
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L’ideale e il privilegio, la moltitudine diseredata e la minoranza dominante, la Rivoluzione e l’Ordine costituito, l’Anarchia e lo Stato, battono vie diverse, e quando s’incontrano «sangue umano stilla»: il sangue della ribellione o il sangue della persecuzione.
Cerchiamo pure un atteggiamento attivista che ci permetta di «marciare senza dubbi, senza incertezze, senza sopprimerci e senza tradire»; ma sappiamo fin da ora che, se tale atteggiamento non può essere pacifista, non può neanche essere belligerante a fianco e sotto le insegne dell’uno o dell’altro dei blocchi guerreggianti.
Belligeranti, sì, ma contro tutti i governi, contro tutti gli imperialismi, contro tutta la borghesia dominante. Saremmo altrimenti assorbiti, schiacciati, liquidati – come il cristianesimo, come la Riforma, come la Rivoluzione in Francia e in Russia – senza che resti in noi neppure la soddisfazione di essere rimasti fedeli a noi stessi.
Tutte le esperienze del passato dimostrano che i tentativi di innestare la rivoluzione sulla guerra sono falliti. Sono falliti dal punto di vista della rivoluzione, s’intende, non dal punto di vista dei prìncipi e dei governi – cioè dello Stato – giacché da questo punto di vista la guerra è sempre riuscita ad assorbire, a deviare o a disperdere le energie dedicate alla rivoluzione. Le ragioni di questo insegnamento costante del passato sono note. La guerra è un conflitto di interessi costituiti e militanti, nell’ambito delle medesime classi sociali, sotto bandiere nazionali. La rivoluzione, invece, è un conflitto tra gli interessi costituiti e solidali, oltre tutte le frontiere nazionali, e le aspirazioni delle moltitudini che vogliono emanciparsi dal loro giogo. Nel momento in cui queste aspirazioni vengono posposte, da coloro che le professano, agli interessi costituiti di una delle parti guerreggianti sul terreno nazionale, l’azione rivoluzionaria cessa come fattore di primo piano. I rivoluzionari che combattono per la vittoria militare di un governo o di una coalizione di governi, rinunciano implicitamente alla vittoria della rivoluzione. Questo non è un principio dottrinale: questo è un fatto elementare e incontrovertibile.
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Il fascismo è un orrore. I suoi delitti sono noti. Le sue infamie non ammettono attenuazione. È una tirannia che cerca – non senza successo in molte parti del mondo – di annullare le conquiste civili che furono compiute durante secoli di lotte e di progresso, per respingere il genere umano in uno stato di barbarie vergognosa.
Ma la tirannia del fascismo è uguagliata dalla tirannia del bolscevismo, che, partito da un punto diverso, tende agli stessi risultati. L’uno e l’altro sono implacabili nemici della libertà e della giustizia, che noi – e con noi, se pur inconsciamente, le moltitudini diseredate – vorremmo realizzare con la rivoluzione sociale.
Parteggiare per la tirannia del bolscevismo contro la tirannia del fascismo in una guerra che avesse a farsi nel nome di queste due tirannie, vorrebbe dire rinunciare a lottare per la realizzazione delle aspirazioni emancipatrici della rivoluzione, oltre che, naturalmente, alle lotte immediate per la realizzazione delle aspirazioni libertarie dell’anarchia.
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La democrazia e il liberalismo rappresentavano, nelle loro tradizioni almeno, assai meglio del bolscevismo le tendenze del progresso civile: affettavano un certo rispetto per la libertà; in teoria ammettevano l’aspirazione alla giustizia; in pratica consentivano ai diseredati un certo respiro. Ma, a parte che sono anch’esse bene avviate, oggidì, verso il capitalismo di Stato e verso il dispotismo politico, il genere umano ha fatto una recente dolorosa esperienza di quel che non ha da guadagnare andando alla guerra per difendere la democrazia e il liberalismo della borghesia capitalistica.
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Giacché la guerra, a cui tutti si preparano, verrà un giorno. Ma sarà guerra di imperialismi, la guerra degli imperialismi sazi contro gli imperialismi affamati, o degli imperialismi sazi fra loro, per assicurarsi il predominio. E non sarà altro.
Certo, i governi che si preparano affannosamente alla guerra, si serviranno di tutta la retorica ideologica per trascinare i popoli docilmente al macello. I governi che si troveranno a combattere contro le tirannie fasciste – ammettendo che lo schieramento delle forze opposte si presti a questa speculazione – faranno di tutto per persuadere le masse che hanno interesse a lasciarsi mandare al fronte per difendere la civiltà, la democrazia, magari il socialismo di Lenin e le conquiste della rivoluzione proletaria, contro la barbarie medioevale del littorio e della croce uncinata. È prevedibile che molti, anche tra quelli che si dicono rivoluzionari, abboccheranno all’amo avvelenato della retorica, illusi di servire il proprio ideale di emancipazione umana e gli interessi delle moltitudini diseredate. Più ancora della retorica interventista, prevarrà, sulla coscienza di molti altri, la tragica situazione in cui li tiene inchiodati la dittatura. Dovunque questa è riuscita ad imporsi è il marasma più squallido del pensiero e del sentimento. La guerra è dinamica. Gli esasperati della stagnazione vedranno in essa un’evasione dallo stato paralizzante a cui sono condannati. E il moto è, per tutti coloro che difettano di discernimento, sinonimo di avanzamento e di progresso.
Questo stato d’animo è sin d’ora in preparazione. Noi stessi ne tocchiamo con mano gli effetti e, per poco che ci arrestiamo ad approfondire, vediamo ripetersi in tutto il suo squallore la frode della grande guerra di un ventennio addietro.
Ma non basta muoversi per andare avanti. La direzione del moto è più importante del moto stesso. E il moto di quegli anni di macello e di dolore, che, si diceva, avrebbe condotto l’umanità al trionfo della democrazia, della libertà, degli immortali principi della rivoluzione liberale, ci ha portati, invece, al trionfo del bolscevismo, del fascismo, della teocrazia, del medioevo. Quello era, bensì, movimento; ma movimento in direzione opposta a quella del progresso e della civiltà.
Quale diritto si ha di immaginare che, lasciandosi ancora una volta illudere dalla retorica e dall’ideologia posticcia dei politicanti, l’umanità arriverebbe, questa volta, a soluzioni diverse? […]
Ciò non vuol dire che le rivoluzioni non si debbano fare e che non si debbano difendere, anche con la guerra. Ciò vuol dire soltanto che quando si fanno le rivoluzioni bisogna tagliare tutti i ponti col passato, onde rendere impossibile alla controrivoluzione di aggredirla alle spalle, e che bisogna trovare il modo di fare la guerra rivoluzionaria servendosi, anziché distruggendo, delle conquiste della rivoluzione; perché l’arte della guerra, creata e perfezionata dallo Stato, è demolitrice anziché creatrice dei fermenti e delle energie della rivoluzione.
Le considerazioni esposte indicano l’impossibilità di conciliare un atteggiamento rivoluzionario e anarchico con l’adesione alla guerra intrapresa dai governi imperialisti. Un atteggiamento anarchico e rivoluzionario di fronte al fatto guerra non può essere che di aperta e decisa opposizione, qualunque sia il pretesto che i governi borghesi invocano per scatenarla, qualunque sia l’ideologia che pretendono di servire. […] L’importante è che il movimento anarchico e il movimento rivoluzionario in generale mantengano la propria fisionomia, non si confondano coi governi, denunzino le iniquità dei privilegiati, e tenendo accesa la fiamma della speranza in un possibile domani dove esista pane e libertà per tutti, senza essere obbligati a farsi massacrare per interessi e calcoli altrui, diano alla gente la sensazione di combattere per una causa giusta. Troveranno tanto maggior numero di consensi e di seguaci nel popolo, quanto più questo avrà in odio i propri governanti. Ecco perché l’azione rivoluzionaria è inconfondibile col disfattismo unilaterale; ecco perché non si deve temere di fare il gioco del nemico persistendo, in tempo di guerra come in tempo di pace, su una linea d’azione coerentemente anarchica e rivoluzionaria.
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La guerra che viene si delinea già come un conflitto di imperialismi contendentisi l’egemonia nel mondo. Coloro i quali s’illudevano di potere innestare a tale conflitto, sia pure in proporzioni minime, gli interessi e le aspirazioni rivoluzionarie dei diseredati, sono rimasti delusi. La casta dominante si ribella a tale innesto e lo respinge.
Le caste dominanti nazionali sono divise da grandi interessi opposti, da profonde rivalità di prestigio, da gelosie, pregiudizi, cupidigie, orgogli che hanno radici millenarie ed avranno il loro cozzo, non la soluzione impossibile, nella guerra. Ma hanno in comune i privilegi che derivano dal possesso della ricchezza e dell’autorità dello Stato, e la missione storica di difenderli contro la minaccia che presentano le aspirazioni libertarie e livellatrici dei diseredati. Questa comunità di privilegi è la suprema legge dell’ordine capitalistico e statale. Ad essa tutto è subordinato: gli interessi e gli orgogli, le rivalità e le cupidigie nazionali, perché prima di essere grandi e potenti nel mondo le classi privilegiate devono essere forti e sicure nella nazione; e non lo possono che praticando la solidarietà fondamentale che deriva dall’identità della loro posizione sociale.
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La condotta dei difensori del privilegio indica la linea che devono seguire i diseredati che aspirano al livellamento delle condizioni economiche e al trionfo della libertà politica. Nella guerra, come nella pace imperialista, il solo terreno su cui possiamo combattere con sicurezza di non sbagliare è quello della Rivoluzione Sociale.
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Ora, non si coltiva il sentimento della solidarietà internazionale dei diseredati aderendo alle guerre che i governi dichiarano, ma in cui combattono e muoiono soprattutto i diseredati. Non si addestrano gli uomini alla necessità ineluttabile della solidarietà rivoluzionaria, partecipando, sia pure con riserve mentali e scopo inconfessati, a guerre che i governi non si fanno se non quando si sentono sicuri della docilità dei popoli, e che, in ogni modo, sono di per se stesse l’espressione suprema del dominio e dell’arbitrio delle classi dominanti.
La rivoluzione, prima d’essere un fatto, è un’idea. L’idea di emancipazione dal dominio, dall’esistenza stessa del privilegio, che la guerra prepara e scatena fra gli uomini; l’idea della ribellione contro l’autorità dello Stato, che la guerra sobilla, organizza e dirige; l’idea della solidarietà fra tutti gli umani al di sopra delle frontiere, che la guerra insanguina; l’idea della liberazione da tutte le tirannie, che la guerra inasprisce e consolida.
Conformare la condotta all’idea, ecco la nostra missione, così in tempo di pace come in tempo di guerra. Agitare fra le genti imbestialite dalla barbarie della guerra degli imperialismi e dei fanatismi nazionali, l’idea del diritto alla vita e alla gioia, l’idea della libertà, il sentimento della solidarietà, l’idea della rivoluzione sociale emancipatrice.
[…]
Se siamo molti e sapremo dar prova di coraggio e di valore, costringeremo i governi a procedere con cautela e, fors’anche, a rimandare la guerra. Se siamo pochi o non avremo il cuore pari alla fede e al compito, saremo o sembreremo travolti dalla pazzia generale. Ma nel momento in cui le caste dominanti riscuotevano dai popoli il supremo tributo del sangue e della carne, noi non ci saremo confusi con l’orda, non avremo disertata la lotta contro la tirannia del privilegio, non avremo tradita la causa della rivoluzione e, murati in una cantina o in una galera o in una tomba, la nostra condotta parlerà per noi, la nostra idea di umana emancipazione continuerà a vivere nel ricordo dell’opera nostra, e ad essa verranno, il giorno della resipiscenza o delle delusioni sconfitte, le moltitudini a cercarne ispirazione e conforto e sprone alla rivincita.
Saremo, nella preservata identità delle nostre convinzioni rivoluzionarie, la forza di raccoglimento per l’avvenire.
[1939]