Adesso – Foglio di critica sociale – Rovereto, 14 novembre 2008 – numero 25
Dopo due anni di assenza, eccoci con un nuovo numero di Adesso. Sentiamo il bisogno di tornare a riflettere, con questo foglio di critica sociale, su alcune questioni generali. L’occasione ci è fornita dal movimento studentesco contro la legge Gelmini, movimento a cui stiamo dando il nostro piccolo contributo critico.
Se questo movimento ha portato e sta portando un po’ d’aria fresca nella generale assuefazione alla normalità di un mondo disumano, soprattutto per alcune delle pratiche che lo caratterizzano (occupazioni, blocchi, manifestazioni spontanee), non si può fare a meno, tuttavia, di notarne i limiti, la povertà teorica, le tendenze corporative, le tracce di perbenismo. D’altronde, non si esce illesi da anni e anni di pacificazione scolastica e sociale.
Le note che seguono vanno intese come una sorta di lettera aperta agli studenti in lotta.
NOI LA CRISI NON LA PAGHIAMO?
Lo slogan del movimento – “Noi la crisi non la paghiamo!” – è diretto ed efficace. Certo, si potrebbe criticare il concetto stesso di “crisi” – legato ad una visione liberale o marxista della storia influenzata dall’ideologia del progresso –, però esso ha almeno l’indubbio merito di collocare la questione della scuola e dell’università in un contesto più ampio: i rapporti tra le classi sociali.
Ciò che è davvero urgente e necessario, ora, è rendere esplicito ciò che quello slogan dice implicitamente. Insomma: noi chi? Noi studenti? Noi sfruttati? Noi “cittadini”?
I tagli all’istruzione fanno parte di un attacco ben più generale alle condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone (dai salari alle pensioni alla sanità). Tanto per fare alcuni esempi: mentre il governo taglia 7,8 miliardi di euro per scuole e università, ne vuole stanziare 10 per i cacciabombardieri F- 35, 16 per le Grandi Opere (TAV, ponte sullo Stretto, basi militari) e addirittura 30 per sostenere le banche. Non solo: predispone un pacchetto di aiuti da 650 milioni di euro per le imprese e un altro di 600 milioni per la cassa integrazione (vale a dire per permettere ai padroni licenziamenti a costi ridotti). Tutto questo, ovviamente, con il granitico accordo dell’opposizione.
Ora, se non si dice apertamente chi deve pagare la “crisi”, i fondi per l’istruzione potrebbero benissimo essere trovati pesando ancora di più sulle spalle degli sfruttati (defiscalizzazione degli straordinari, lavoro ancora più precario, ecc.). Non ci si può limitare a dire che tutti mandano i figli a scuola e che quindi, indirettamente, l’intera società deve essere con gli studenti. I figli dei ricchi a scuola ci andranno comunque. Va da sé che una convergenza pratica con le classi povere non si realizza con la semplice magia del discorso, ma è fondamentale affermare a chiare lettere una comunanza di interessi con chi la “crisi” la paga da sempre. Diciamolo apertamente, sia al governo che ai lavoratori: la crisi la paghino i banchieri, gli industriali e i loro protettori politici!
Ma perché questo discorso risulti credibile, è necessario togliere ogni ambiguità corporativa nei rapporti con presidi, rettori e baroni vari. Gli attori del dramma non sono le scuole da una parte e il governo dall’altra. Lo scontro reale è tra chi difende questa società e i suoi privilegi e chi la subisce e la vuole trasformare.
VIVA LA SCUOLA PUBBLICA?
In perfetta continuità tra governi di centro-sinistra e governi di centro-destra, almeno dalla legge Berlinguer alla legge Gelmini, si registra un chiaro processo di aziendalizzazione dell’università e di peggioramento della qualità della scuola pubblica. L’esplicita sottomissione alla logica della competizione e del mercato si è tradotta persino nel lessico (“debiti” e “crediti”, tanto per fare un esempio). Senza contare il pesante finanziamento alle scuole private.
Ma, detto questo, che senso ha la “difesa dell’istruzione pubblica” senza una critica più generale della natura e del ruolo del sapere in questa società?
La cosiddetta istruzione di massa avrebbe dovuto essere uno strumento di autoeducazione e di emancipazione. È stato così? Facciamo qualche esempio terra-terra. Da quando migliaia di ragazzi leggono a scuola Se questo è un uomo di Primo Levi, possiamo dire che la consapevolezza rispetto ai campi di concentramento e al mondo che li ha prodotti sia aumentata? Come mai il razzismo istituzionale e sociale si diffonde assieme alla vuota retorica democratica (il dialogo, il rispetto delle opinioni altrui, ecc.)? Come mai, adesso che l’uso della lingua italiana è arrivato anche nel paesino più sperduto, si crede che possa esistere – nel mondo come nella grammatica – una “guerra umanitaria”?
La ragione di tutto ciò non è misteriosa, se solo si parte da qualche banalità di base. Può esistere uno Stato (parlando di “istruzione pubblica” qualche domanda sullo Stato bisognerà pur porsela) che favorisca, presso i propri cittadini, la cultura critica e lo spirito di autonomia? Una persona con un pensiero proprio e un’indole non conformista sarà disposta a rispettare di più o di meno l’autorità costituita? La risposta è scontata. Bene, si è mai visto uno Stato finanziare la formazione di individui non-sottomessi, suoi potenziali nemici?
Il punto di partenza di qualsiasi riflessione sul sapere è allora che gli strumenti di conoscenza critica e di autoeducazione etica e sentimentale vanno strappati alla scuola malgrado e non grazie alla sua funzione sociale, che è la riproduzione dell’esistente. In Italia, le richieste di una scuola non classista, di una “scuola per il popolo” (dalla “Lettera a una professoressa” in avanti) si inseriscono, tra gli anni ’60 e ’70, in un contesto di lotte più generali. Esauritesi quelle lotte, l’istruzione di massa è diventata, di pari passo con la pacificazione sociale e il cretinismo televisivo e consumistico, una fabbrica di idioti alfabetizzati. Nel momento in cui il capitale ha avuto bisogno di un impoverimento cultuale e di una riduzione del linguaggio ben adatti alla dequalificazione, alla flessibilità e alla precarietà del lavoro, ha trasformato l’“uguaglianza” (pensiamo alle battaglie per il 6 politico) in appiattimento. L’aziendalizzazione degli ultimi anni si innesta, insomma, su di un tronco ampiamente preparato (e marcescente).
In tutte le lotte studentesche degli anni Ottanta e Novanta c’era un insieme di critiche più o meno ricorrenti (contro la mercificazione del sapere, contro l’autoritarismo, contro il nozionismo, contro la meritocrazia, ecc.). Attualmente non solo non si criticano i contenuti e i rapporti su cui si fonda la scuola, limitandosi a rifiutare tagli di personale e di fondi, ma si usano addirittura in senso positivo concetti da sempre aborriti (“meritocrazia”, ad esempio). Siamo bravi, fateci studiare, fateci sviluppare l’azienda-Italia con le nostre ricerche…
Ben pochi sono sfiorati, a quanto pare, dall’idea che la formazione e la trasmissione del sapere siano, in questo mondo, parte integrante della produzione capitalistica e della divisione sociale del lavoro. Eppure, nella gioia dei cortei spontanei e nell’entusiasmo di una normalità scolastica e accademica sospesa, si sente aleggiare ancora questa evidenza: la scuola, pubblica o privata che sia, è un luogo insensato e noioso che ci prepara alla noia e all’insensatezza della non-vita, alla gerarchia, al lavoro salariato, alla merce. In una prospettiva di autogestione generalizzata, inoltre, l’idea stessa di un luogo deputato all’apprendimento del sapere (ci si siede sui banchi per alcuni anni, a orari fissi, passando da una materia a un’altra secondo scadenze prefissate – e poi, socialmente, si sa) verrebbe relegata tra gli orrori dell’industrialismo, distruttore di ambienti e di anime.
Si può frequentare una scuola o una facoltà per imparare (sempre peggio, d’altronde) latino, filosofia o matematica, ma è decisivo non scordare mai che si è in terreno nemico.
MEGLIO RICERCATI CHE RICERCATORI
Con la difesa della “ricerca pubblica” si tocca, in tutti i sensi, il fondo del problema.
Nella storia del capitalismo è capitato spesso che alcuni elementi, prima parti di un tutto, si siano poi resi autonomi, soppiantando via via gli altri. Il pensiero calcolante e il mercato – in sintesi: il motivo economico – esistevano da secoli, ma solo con l’ascesa della borghesia sono diventati gli elementi decisivi di un sistema sociale. Con la tecnoscienza è accaduto qualcosa di analogo. Da elemento tra gli altri, lo sviluppo scientifico e tecnologico si è trasformato – in modo netto a partire dagli anni ’40 – in un apparato incontrollabile, fonte e prodotto insieme del dominio statale e capitalista. Già negli anni ’60 qualcuno aveva definito “Megamacchina” l’intreccio di burocrazia, complesso industriale-militare, mass media e tecnoscienza.
Nell’anno di grazia 2008, cosa vorrà mai dire allora difendere la “ricerca pubblica”? Quale? Se sarebbe sbalorditivo, visto il dogma progressista imperante, che gli studenti rifiutassero in blocco la pretesa neutralità della scienza, è viceversa davvero sbalorditivo che si parli di “ricerca pubblica” senza il benché minimo accenno critico.
Nelle università italiane – e trentine – si finanziano ricerche direttamente collegate all’industria bellica, al controllo sociale, alla sorveglianza tecnologica, ecc. Difendiamo anche queste? Di fronte ai processi in atto di artificializzazione del vivente (pensiamo alle bio- e alle nanotecnologie), trincerarsi dietro la scienza pura e non applicata (buoni i ricercatori, cattive le multinazionali) non assomiglia forse a una vera e propria superstizione?
“Ogni tempo perso per la scienza è tempo guadagnato per la coscienza” scrivevano, qualche anno fa in Francia, gli anonimi autori di un sabotaggio ad un laboratorio statale sulle sementi transgeniche…
NO FUTURE
Questo slogan, un tempo urlato da un famoso gruppo punk, è oggi un’evidenza per milioni di giovani (e non solo): moltissimi studenti, con o senza laurea, finiranno per fare lavori interinali (un mese pony express, il mese dopo magazziniere, quello dopo ancora telefonista). Qualcuno, spera, finirà al Grande Fratello…
Al di là dei discorsi, dunque, la percezione che il mondo del lavoro sia una giungla artificiale è viva come un’emicrania o un tic nervoso. Al di là dei discorsi, “diritto allo studio” sembra un passe-partout taroccato con cui aprire una portone la cui insegna avverte: “Non c’è posto per tutti”. Al di là dei discorsi, lottare assieme fa sentire meno soli.
Le dichiarazioni rispettabili rese davanti alle telecamere assomigliano alle promesse che i bambini fanno a Natale. La presenza dei media impone che il rappresentante di turno ripeta ai loro operatori ciò che l’opinione pubblica da questi creata vuole sentire. Di più: le azioni stesse si rivelano non di rado come diffusione e consumo di immagini mediatiche. “Scusate il disagio, stiamo pedalando verso il futuro”: questo slogan di una recente critical mass non assomiglia forse ad un cartellone pubblicitario? “L’avvenire, nella sua totalità, è menzogna”, scriveva Iosif Brodskj.
Nello sfacelo di tutti i programmi, alcuni cominciano a condividere una pura esigenza: vorremmo evadere da questo presente, ma non sappiamo dove cazzo andare…
SCHEGGIA
Un piccolo contributo è giunto dagli studenti medi di Rovereto che il 4 novembre sono scesi in piazza contro la “riforma” Gelmini, contro le spese di guerra e contro la militarizzazione della società. Durante il corteo, organizzato assieme all’assemblea antimilitarista contro la base di Mattarello, hanno parlato anche due disertori dell’esercito americano. Nonostante la pioggia battente, i circa 200 ragazzi presenti ne hanno ascoltato i racconti: la povertà che li ha spinti ad arruolarsi, il trauma dell’occupazione di Baghdad e infine il rifiuto di diventare macchine assassine. Sentire due disertori parlare contro i carabinieri è stata senz’altro una forma di “didattica alternativa”…
Adesso – Foglio di critica sociale – Rovereto, 14 novembre 2008 – numero 25.
Lettre Ouverte aux étudiants en lutte
Traduction du Numero 25 de la revue italienne
Ce texte nous vient d’Italie, il compose le numéro 25 de la revue Adesso, feuille de critique sociale en provenance de Rovereto, dans la province du Trento en Italie. Il revient sur une lutte étudiante qui s’est déroulée en Italie l’an passé, contre le projet de loi Gelmini, prévoyant -tout comme la LRU en France- une réduction progressive du financement public de l’enseignement supérieur au profit d’intérêts privés, rien de bien original donc. Cependant, si nous avons décidé de traduire et de publier cette lettre, c’est que les remarques formulées ici sont aisément transposables au mouvement étudiant français. Nous pensons qu’elle mérite largement un coup d’oeil de la part des étudiants en lutte aujourd’hui, qu’elle peut peut-être déboucher sur des débats internes aux grévistes, du moins, à ceux qui n’en peuvent plus de voir leurs pratiques mises à l’écart par des assemblées générales souverainement démocrates et bureaucrates.
Ne payons pas leur crise ?
le slogan du mouvement –Ne payons pas leur crise !– est direct et efficace. Certes, on pourrait critiquer le concept même de « crise »–lié à une vision libérale ou marxiste de l’histoire influencée par l’idéologie du progrès–, cependant il a au moins l’indubitable mérite de placer la question de l’école et de l’université dans un contexte plus vaste : les rapports entre les classes sociales.
Ce qui est vraiment urgent et nécessaire, maintenant, est de rendre explicite ce que le slogan dit implicitement. En somme : qui est ce nous ? Nous étudiants ? Nous exploités ? Nous « citadins » ?
Les atteintes à l’enseignement font partie d’une attaque bien plus généralisée à toutes les conditions de vie et de travail de millions de personnes (les salaires, les retraites ou la santé). Voici quelques exemples : pendant que le gouvernement retire 7.8 milliards d’euro pour les écoles et l’université, il en donne 10 pour les chasseurs-bombardiers F- 35, 16 pour les grands projets (TAV, pont sur le Détroit, bases militaires) et même 30 pour soutenir les banques. Mais ce n’est pas tout : il prévoit des aides de 650 millions d’euro pour les entreprises et une autre de 600 millions pour la caisse intégration (autrement dit pour permettre aux patrons des licenciements à des coûts réduits). Tout ceci, évidemment, avec l’inflexible accord de l’opposition.
Maintenant, si on ne dit pas ouvertement qui doit payer la « crise », les fonds pour l’instruction pourraient très bien être trouvés en pesant encore plus sur les épaules des exploités (défiscalisation des bénéfices, travail encore plus précaire, etc). On ne peut pas se limiter à dire que tous envoient leurs fils à l’école et donc que, indirectement, l’entière société doit être avec les étudiants. Les fils de riches iront à l’école de toute façon. Il va de soi qu’une convergence pratique avec les classes pauvres ne se réalise pas par la simple magie du discours, mais il est fondamental d’affirmer en toutes lettres une communauté d’intérêts avec ceux qui pâtissent toujours de la “crise”. Disons le ouvertement, aussi bien au gouvernement qu’aux travailleurs : la crise, les banquiers doivent la payer, ainsi que les industriels et leurs protecteurs, les politiciens.
Mais pour que ce discours reste crédible, il est nécessaire d’ôter toute ambiguïté corporatiste dans les rapports avec les présidents, recteurs et divers chefs. Les acteurs de ce drame ne sont pas les écoles d’une part et le gouvernement de l’autre. Le combat réel se joue entre ceux qui défendent cette société et ses privilèges et ceux qui la subissent et veulent la transformer.
Vive l’école publique ?
Dans une parfaite continuité entre les gouvernements de centre-gauche et ceux de centre-droit, allant de la loi Berlinguer à la loi Gelmini, on enregistre un processus clair d’aziendalizzazione [1] de l’université et l’aggravation de la qualité de l’enseignement publique. L’explicite soumission à la logique de la compétition et du marché s’est traduite même dans le vocabulaire (des « dettes » et des « crédits », par exemple). Sans compter le lourd financement des écoles privées.
Mais, je me demandais, quel sens a la « défense de l’enseignement publique » sans une critique plus générale de la nature et du rôle du savoir dans notre société ?
La soi-disant instruction de masse aurait dû être un moyen d’auto-éducation et d’émancipation. En a t-il été ainsi ? Donnons quelques exemples terre-à-terre. Quand des milliers d’enfants lisent à l’école « Si c’est un homme » de Primo Levi, pouvons-nous dire que la conscience par rapport aux camps de concentration et au monde qui les a produits se soit affinée ? Comment est-il possible que Le racisme institutionnel et social se mélange autant dans le vide rhétorique de la démocratie (le dialogue, le respect des opinions d’autrui, etc.) ? Comment est-il possible, maintenant que la langue italienne est arrivée jusqu’au village le plus isolé, de croire qu’il puisse exister -dans le monde comme dans la grammaire- une « guerre humanitaire » ?
La raison de tout cela n’est pas mystérieuse, elle découle d’une banalité. Puisse t-il exister un État [2] qui favorise, chez ses propres citoyens, la culture critique et l’esprit d’autonomie ? Une personne avec sa propre pensée et une nature non conformiste sera t-elle disposée à respecter plus ou moins l’autorité constituée ? La réponse est toute trouvée. Est ce qu’on a déjà vu un État financer la formation d’individus insoumis, ses potentiels ennemis ?
Le point de départ de ces quelques réflexions sur le savoir est, alors que les instruments de connaissances critiques et d’auto-éducation éthiques et sentimentaux vont être arrachés par l’école malgré -et non pas grâce à- sa fonction sociale, on assiste à la reproduction de l’existant. En Italie, les recherches d’une école non classiste, d’une école « pour le peuple » s’insèrent, entre les années 60 et 70, dans un contexte de luttes plus générales. Ces luttes se sont épuisées, et l’instruction de masse est devenue, de pair avec la pacification sociale, la bêtise télévisuelle et le consumérisme, une fabrique d’idiots alphabétisés. Dés l’instant où le capital a eu besoin d’un appauvrissement culturel et d’une réduction du langage bien adapté aux déqualifications, à la flexibilité et à la précarité du travail, il a transformé l’« égalité » en appauvrissement. Les aziendalizzazione des dernières années se greffent, en somme, sur un tronc vastement préparé (et persistant).
Dans toutes les luttes étudiantes des années 80s et 90s, il y avait un ensemble de critiques plus ou moins récurrentes (contre la marchandisation du savoir, contre l’autoritarisme, contre les connaissances superficielles, contre la méritocratie, etc.). Actuellement on ne critique plus les contenus et les rapports sur lesquels se fondent l’école, en ne se limitant qu’à refuser des baisses de personnels et de fonds, et on utilise même en y donnant un sens positif, des mots qu’on a toujours détesté [3]. Nous sommes braves, nous ne faisons qu’étudier, nous aidons à développer l’entreprise nationale avec nos recherches…
Bien peu sont effleurés, apparemment, par l’idée que la formation et la transmission du savoir fassent, dans ce monde, partie intégrante de la production capitaliste et de la division sociale du travail. Pourtant, dans la joie des manifs sauvages et dans l’enthousiasme d’une normalité scolaire et académique suspendue, on sent flotter encore cette évidence : l’école, qu’elle soit publique ou privée, est un lieu insensé et chiant qui nous prépare à l’ennui et à la bêtise d’une non-vie, à la hiérarchie, au travail salarié, à la marchandise. Dans une perspective d’autogestion généralisée, en outre, l’idée même d’un lieu dédié à l’apprentissage du savoir (assis sur des bancs pour quelques années, avec des horaires fixes, en passant d’une matière à une autre selon des cadences préfixées – et ensuite, socialement, « on sait ») serait relégué parmi les horreurs de l’industrialisme, destructeur de milieux et d’âmes.
On peut fréquenter une école ou une faculté pour apprendre (toujours plus mal, d’ailleurs) le latin, la philosophie ou les mathématiques, mais il est décisif de ne jamais oublier qu’on est en terrain ennemi.
Plutôt recherchés que chercheurs
Avec la défense de la « recherche publique » on touche, à tout point de vue, au fond du problème.
Dans l’histoire du capitalisme il est arrivé souvent que quelques éléments, faisant partie d’un tout, se soient ensuite rendus autonomes, en supplantant au fur et à mesure les autres.. La pensée monétaire et le marché– en somme : le motif économique– existaient depuis des années, mais c’est seulement avec l’ascension de la bourgeoisie qu’apparaissent les éléments décisifs d’un système social. Avec la technoscience, il est arrivé quelque chose d’analogue. Un élément parmi d’autres, le développement scientifique et technologique s’est transformé [4] en un appareil incontrôlable, un produit de la domination étatique et capitaliste. Déjà dans les années 60s quelqu’un avait défini par « Megamachine » le lien entre la bureaucratie, le complexe industrialo-militaire, les médias de masse et la technnoscience.
En l’an de grâce 2008, qu’est ce que peut bien signifier « la recherche publique » ? Laquelle ? ce serait stupéfiant, vu le dogme progressiste apparent, que les étudiants réfutent en bloc la prétendue neutralité de la science. Et vice-versa, il est vraiment stupéfiant de parler de « recherche publique » sans la moindre allusion critique.
Dans les universités italiennes –une trentaine– on finance des recherches directement reliées à l’industrie de guerre, au contrôle social, à la surveillance technologique, etc. Défendons nous, mêmes celles-ci ? Face aux procès en acte d’artificialisation du vivant (nous pensons au bio- et nano-technologies), ils se retranchent derrière la science pure et non appliquée (les bons sont les chercheurs, les méchantes sont les multinationales). Cela ne ressemble t-il pas plutôt à une véritable superstition ?
« Chaque temps perdu pour la science est temps gagné pour la conscience » écrivaient, il y a quelques années de cela en France, les auteurs anonymes du sabotage d’un laboratoire d’État s’occupant de semences transgéniques…
No Futur
Ce slogan, un temps hurlé par un célèbre groupe punk, est aujourd’hui une évidence pour des millions de jeunes (et pas seulement) : de nombreux étudiants, avec ou sans licence, finiront par faire du travail en intérim (un mois chez pony express, le mois suivant magasinier, celui d’après dans un magasin de téléphonie). Un autre, espère finir à « Grande Fratello » [5]…
Au-delà des discours, donc, la perception que le monde du travail soit une jungle artificielle est aussi perceptible qu’une migraine ou un tic nerveux. Au-delà des discours, le « droit à l’étude » semble être un passe-partout magique avec lequel on peut ouvrir des portes sur lesquelles l’enseigne dirait : « Il n’y a pas de postes pour tous ». Au-delà des discours, lutter ensemble permet de se sentir moins seul.
Les déclarations respectables faites devant les caméras ressemblent aux promesses que les enfants font pour Noël. La présence des médias impose que le représentant élu répète à la télévision ce que l’opinion publique veut entendre. De plus : les interventions elles-mêmes se révèlent n’être là que pour la diffusion et la consommation d’images médiatiques. « Excusez le malaise, nous sommes en train de pédaler vers le futur » : ce slogan d’un récent mouvement social ne ressemble t-il pas peut être à une affiche publicitaire ? « L’avenir, dans sa totalité, est mensonge », écrivait Iosif Brodskj…
Dans le délabrement de tous les programmes, certains commencent à partager une exigence certaine : nous voudrions nous évader de ce présent, mais nous ne savons pas où aller…
Adesso – feuille de critique sociale
Rovereto, 14 novembre 2008 – numéro 25.
Traduit par nos soins, 2009.
Extrait de Non Fides N°IV.
P.-S.
Une version mise en brochure à Montréal est disponible là.
Notes
[1] Ndt. Transformation des services sur le modèle de l’entreprise
[2] En parlant « d’enseignement publique », cette question sur l’Etat : il faudra se la poser
[3] la méritocratie, par exemple
[4] on le voit nettement à partir des années 40
[5] Ndt. Émission de télé-réalité populaire en Italie