L’insurrezione e il suo doppio (it/en)

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Nel distinguere il vero romanticismo da quello fasullo, Victor Hugo osservava come ogni autentico pensiero fosse spiato da un inquietante doppio sempre in agguato, sempre pronto a frapporsi all’originale. Personaggio di stupefacente plasticità che gioca sulle similitudini per racimolare qualche applauso sul palcoscenico, questo doppio ha la particolare capacità di trasformare lo zolfo in acqua santa e di farlo accettare al pubblico più recalcitrante. Anche l’insurrezione moderna, quella che fa volentieri a meno dei Comitati Centrali e dei Sol dell’Avvenire, si trova a fare i conti con la sua ombra, col suo parassita, col suo classico che la imita, che si veste dei suoi colori, ne indossa i vestiti, ne raccoglie le briciole.

 

Sull’onda del clamore mediatico che l’ha reso un best-seller in Francia, è ormai disponibile anche in versione italiana L’insurrezione che viene (in formato elettronico, scaricabile dall’indirizzo: http://damiel.dailyjyhad.com/2009/06/10/linsurrezione-che-viene/).

Pubblicato nel marzo 2007, a firma Comitato Invisibile, questo testo è salito alla ribalta delle cronache transalpine grazie a un’inchiesta giudiziaria che ha portato lo scorso 11 novembre 2008 nel piccolo paese di Tarnac all’arresto di 9 sovversivi, accusati di coinvolgimento in un sabotaggio contro la rete ferroviaria ad alta velocità. Come spesso accade in questi casi, il magistrato inquirente ha cercato di rafforzare il suo teorema anche dal punto di vista “teorico”, attribuendo ad uno degli arrestati la paternità del libro in questione. Stampato da una piccola casa editrice commerciale di sinistra e distribuito su tutto il territorio nazionale, già bene accolto dall’establishment al momento della pubblicazione — L’insurrezione che viene è diventato per decisione della Procura un pericoloso e temibile «manuale di sabotaggio». Da qui il suo successo, alimentato dalla discesa in campo in suo favore di alcuni chierici dell’intellighenzia (francese e non solo), preoccupati per l’indebita intrusione poliziesca nell’ambito della filosofia politica. Se è intuibile lo sconcerto di chi ha scoperto all’improvviso che il Partito potrà anche essere Immaginario, ma la polizia molto meno, lo è ancor più la soddisfazione dell’editore di questo libretto, che mai avrebbe pensato di trovare nel Ministero degli Interni un agente pubblicitario tanto efficiente. Ad ogni modo, tutti gli arrestati nel giro di qualche mese sono usciti dal carcere e si spera che lo evitino a lungo. Si può chiudere qui ogni riferimento a questa vicenda che non ha mancato di assumere connotati grotteschi, dato che l’accostamento fra L’insurrezione che viene e gli arrestati di Tarnac, in fin dei conti, è opera della magistratura francese. Non c’è quindi motivo per ora di occuparsene.

 

Meritevole di segnalazione è invece la breve nota introduttiva dell’edizione italiana, in cui i “Traduttori Invisibili” (quando si dice il franchising della politica…) non esitano ad usare l’inchiesta giudiziaria di cui sopra quale dimostrazione pratica del valore di questo testo. Dopo aver dato la parola al suo presunto autore, secondo cui «Lo scandalo di questo libro è che tutto quello che vi figura è rigorosamente e catastroficamente vero, e non cessa di avverarsi ogni giorno di più» (citazione tratta da un’intervista rilasciata al noto quotidiano sovversivo Le Monde), i Traduttori Invisibili giungono alla bizzarra conclusione che sia stato arrestato solo perché sospettato di aver scritto «il libro che tenete fra le mani». In preda all’eccitazione, scrivono di averlo tradotto «perché quel che dice è vero, e soprattutto, lo dice». Ragion per cui «dovremmo quasi ringraziare il triste teatrino delle leggi antiterrorismo… per aver permesso che questo libro venisse letto su così vasta scala, in maniera collettiva, e spesso da un punto di vista pratico. Se non fosse stato per loro, probabilmente la gioia propagata da questo libro non avrebbe raggiunto così tante persone». Che dire al cospetto di simili considerazioni che gareggiano in devozione con altre salivazioni di prositus memoria? Forse basterebbe ricordare che non è certo la prima volta che uno scritto sovversivo viene usato come pezza d’appoggio in una inchiesta giudiziaria, senza per questo diventare Vangelo. Sarebbe come pretendere che la detenzione di certi stalinisti dimostra la verità delle pubblicazioni marxiste-leniniste o quella di certi anarchici la verità dei libri antiautoritari. Che poi il potere francese non sobbalzi per le sommosse che infiammano le banlieu, per i periodici movimenti sociali radicali, per le azioni dirette che vanno diffondendosi in tutto il territorio, né tantomeno per un possibile incontro fra questi eventi — macchè! — quanto per un loro commentario acquistabile per 7 euro in ogni libreria… si tratta di una consolazione tipica di certi barricaderi da salotto. Il fatto che i Traduttori, Invisibili ma soprattutto Interessati, trasformino la repressione in uno spot pubblicitario non dice nulla sul conto di questo libro. Ma dice molto sul loro conto.

Bando a questi squallori, L’insurrezione che viene non aspetta.

 

Ma qual è l’insurrezione in arrivo che bisogna esaminare? Quella originale partita dalla Francia, o quella sbarcata altrove preceduta da squilli di tromba? Non facciamoci ingannare dalle apparenze, giacché non si tratta affatto della stessa. La prima è l’espressione di un milieu che in un mondo di zombi punta diritto al successo resuscitando il cadavere dell’avanguardia, e per far questo si appoggia sull’industria culturale. La seconda, che ha la sventura di essere esibita in un paese dove per ora la rivoluzione non fa mercato, è costretta a coprire i lustrini della merce con il mantello della cospirazione. Gli italici lettori che leggeranno con avidità questo testo, inebriati dal profumo sovversivo spruzzatogli addosso dai flic, avrebbero fatto altrettanto se l’avessero trovato in uno scaffale della Feltrinelli con la sola raccomandazione di qualche addetto ai lavori? Ci sia permesso di dubitarne. Ma tant’è, inutile ricamarci troppo sopra. Cominciamo quindi col prendere questo testo alla lettera, fuori dal suo contesto specifico su cui torneremo brevemente alla fine. Va da sé che sono le discordanze, più delle concordanze, ad aver attirato la nostra attenzione.

Oltre che da un prologo, il libro è composto da sette cerchi e quattro capitoli. Nella prima parte il Comitato Invisibile in vesti dantesche ci fa attraversare l’inferno dell’attuale società illustrandolo con numerosi esempi. Nella seconda veniamo introdotti nel paradiso dell’insurrezione, da raggiungere attraverso una moltiplicazione delle comuni. Se la prima parte ha gioco facile nel riscuotere una certa approvazione, con una panoramica sul mondo che ci offre uno scorcio delle continue devastazioni, la seconda arranca non poco. Entrambe presentano tuttavia una caratteristica comune: una certa vaghezza, ben celata dallo stile secco e perentorio. Ma siamo sicuri che ciò costituisca un difetto e non sia, viceversa, un ingrediente fondamentale del successo di questo libro?

 

Per quanto redattore di un saggio di filosofia politica, il Comitato Invisibile ostenta un forte disprezzo per la speculazione ed una spiccata propensione per la pratica. E ciò è bene, soprattutto perché gli permette di intascare sia il plauso di eruditi in astinenza di vitamine che quello di attivisti assetati di sapere. Distinguendosi dalle molteplici sette marxiste, il Comitato Invisibile non ama le grandi analisi che tutto sussumono & spiegano, spiegano & sussumono. Analisi intelligenti finché si vuole, per carità, ma che dopo un secolo e mezzo hanno rotto un po’ i coglioni. Sono incerte, discutibili, talvolta anche patetiche. La critica all’esistente, preso nella sua totalità, non gli interessa. Proprio come le varie sette marxiste, però, il C.I. è voglioso di imporre la propria visione. Ma, dato che oggi un discorso che pretendesse d’esser preso sul serio perché fondato su presupposti “scientifici” susciterebbe una certa ilarità, meglio puntare su altro, meglio spacciarlo per vero in quanto basato su constatazioni. Basta con le analisi, le critiche, gli studi, largo all’evidenza ed alla sua granitica oggettività che balza subito agli occhi. Così, con affettata umiltà, il Comitato Invisibile precisa fin dall’inizio di accontentarsi «di mettere un po’ d’ordine tra i luoghi comuni di quest’epoca, tra ciò che si mormora ai tavoli dei bar, o dietro le porte chiuse delle camere da letto», cioè di «fissare le verità necessarie». I suoi membri non si ritengono nemmeno gli autori di questo libro: semplicemente «si sono fatti scribi della situazione. È privilegio delle circostanze radicali, che il senso del giusto ci porti e ci conduca, logicamente, alla rivoluzione. Basta riconoscere che tutto ciò lo si ha sotto gli occhi, senza eludere l’ovvia conclusione». Scommettiamo che non ci avevate pensato: i luoghi comuni sono le verità necessarie da trascrivere per risvegliare il senso del giusto che porta logicamente alla rivoluzione. Ovvio, no?

 

Tuffatevi pure nei sette cerchi che suddividono l’inferno sociale contemporaneo e troverete ben poche idee su cui riflettere, però molti stati d’animo da condividere. Come già detto, gli autori/redattori di questo testo evitano di basare il proprio discorso su una qualsivoglia teoria. Per non correre il rischio di risultare stantii, gli scribi preferiscono registrare il vissuto nella sua ordinarietà, ove tutto diventa familiare, come un luogo comune appunto. In questo nitido e ben articolato fluire di banalità quotidiane — fatto di aneddoti, facezie, slogan pubblicitari, sondaggi e via intristendo — ognuno vi trova del suo e vi si riconosce. Nel prendere atto con toni apocalittici della fine del mondo incombente, nel passare in rassegna i diversi ambiti sociali in cui essa si sta consumando, il Comitato Invisibile si sofferma sugli effetti più immediatamente percepibili, tacendo le possibili cause. Infatti, ci informa, «il malessere generale smette di essere sostenibile, dal momento in cui appare per quello che è: un malessere senza causa, né ragioni». Senza causa né ragioni? Non aspettatevi critiche radicali all’esistente, magari mescolando quelle comuniste al capitalismo con quelle anarchiche allo Stato: è un vecchiume che va evitato, se si vuole apparire originali. Di questa civiltà vengono sì attestati l’impotenza politica, la bancarotta economica, il decadimento sociale, ma sempre visti dall’interno. Senza delusione per ciò che è, ma pure senza slancio per ciò che potrebbe essere. Questo perché L’insurrezione che viene, dopo esser nato sotto forma di merce editoriale, è pensato e scritto per raggiungere il “grande pubblico”. E il “grande pubblico” è composto da spettatori avidi di emozioni da consumare sul momento, nel corso di situazioni, ed è refrattario alle idee che possono dare senso ad una vita intera. Al “grande pubblico”, se lo si vuole sedurre, bisogna propinare immagini facili in cui sappia rispecchiarsi senza troppa fatica (come dichiarano compiaciuti gli impareggiabili traduttori italiani, «senza promesse di comprensioni da raggiungere al termine di chissà quali interpretazioni»).

È quasi banale osservare come il fantasma di Guy Debord infesti questo testo, che a tratti ricorda Fight Club. Sì, proprio il celebre film tratto dal romanzo di Chuck Palahniuk, noto per lo stile «asciutto e innovativo, con contenuti nichilistici». Il Comitato Invisibile ci fa venire in mente l’azzimato Edward Norton seduto sul cesso con il catalogo Ikea in mano, sul punto di esplodere e tramutarsi in un selvaggio Brad Pritt. Stessa “schizofrenia”, stesse frasi ad effetto sparate a bruciapelo.

Questa è la tua vita e sta finendo un minuto alla volta.

— Dopo la lotta ogni altra cosa nella vita si abbassava di volume. Potevi affrontare tutto! 

— Era davanti agli occhi di tutti, Tyler e io l’avevamo solo reso visibile. Era sulla punta della lingua di tutti, Tyler e io gli avevamo solo dato un nome. 

— Omicidi, crimini povertà. Queste cose non mi spaventano. Quello che mi spaventa sono le celebrità sulle riviste, la televisione con cinquecento canali, il nome di un tizio sulle mie mutande, i farmaci per capelli, il viagra, poche calorie.

— È solo dopo aver perso tutto che siamo liberi di fare qualsiasi cosa.

— Siamo i figli di mezzo della storia, non abbiamo né uno scopo né un posto. Non abbiamo la grande guerra né la grande depressione. La nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita.

— Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinto che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock star. Ma non è così. E lentamente lo stiamo imparando. E ne abbiamo veramente le palle piene. 

— Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante merda del mondo! 

— Perché questi edifici? perché le società di credito? – Se si cancella la traccia dei debiti allora torniamo tutti a zero. Si crea il caos totale.

… e avanti così fino al crollo delle metropoli.

Su questa stessa aria nichil-estetica, ne L’Insurrezione che viene la fine della convivenza civile è raffigurata con la distanza che separa il sentimentalismo delle canzonette dal bellicismo del rap più militante. La fine della famiglia si evince dal clima di noia e imbarazzo che incombe sulle rituali cene comuni. La fine dell’economia è leggibile nelle barzellette che circolano fra gli stessi manager. La fine delle città si concretizza sotto forma di manifesto pubblicitario. Arrivati alla fine del settimo cerchio, la conclusione è scontata: come il duo Norton/Pitt, il Comitato Invisibile merita gli applausi. Che non sia così difficile essere convincenti quando ci si limita a descrivere l’orrore quotidiano di cui siamo tutti vittime, poco importa. Che poi qua e là questa lunga sequela di constatazioni oggettive lasci trapelare qualche tic soggettivo, a chi interessa? Su, non siate pedanti. Non ringhiate davanti alla reiterata apologia del Noi collettivo accompagnata dall’incalzante disprezzo per l’Io individuale. Già liquidato come ispiratore della Reebok, l’individuo si ritrova poi contrabbandato come sinonimo di «identità», «problema», «camicia di forza». Agli aspiranti pastori piace crogiolarsi nel lezzo del branco. Per farli felici basta l’evocazione di una banda di strada o di un collettivo politico, coi relativi gregari a fare rissa e corteo per il controllo rackettistico del «territorio». L’unicità va respinta perché non fa massa di manovra. Il grado zero di coscienza è il silenzio in cui rimbombano più forte gli slogan, la carta bianca su cui sono stampati gli Appelli all’arruolamento.

Allo stesso modo non corrucciatevi al cospetto del bizantino distinguo fra la politica e il politico, dell’affannoso tentativo di salvare il salvabile dopo aver preso atto del naufragio in corso. Il fuoco che incenerisce qualsiasi rivendicazione, come il furore che si sottrae ad ogni civile confronto, hanno senz’altro un significato politico. Ma per chi? Non per gli anonimi insorti che vogliono fare tabula rasa di quanto li circonda, ai quali basta dare libero corso ai propri desideri. Ogni preoccupazione politica appartiene solo agli «pseudopodi di Stato». E non sbuffate di fronte alla riproposizione di tiritere dialettiche, immancabili giochi ad incastro che trasformano il susseguirsi di eventi in un meccanismo ben oliato (se per Marx ed Engels «la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le recano la morte», per il Comitato Invisibile «la metropoli produce anche i mezzi della sua stessa distruzione»). Se tutto ciò vi ricorda qualcosa di vecchio e lugubre, è solo perché siete imbevuti di pregiudizi ideologici vecchi e lugubri.

 

Drammaticamente consapevole che «Non ci si sbarazza di ciò che ci ostacola senza perdere, nel momento stesso dell’atto di disfarsene, l’oggetto sul quale le nostre forze potrebbero essere esercitate», il Comitato Invisibile si tiene ad accorta distanza da ogni irriducibile alterità. Meglio non eccedere in «disaffiliazione», meglio che essa rimanga «politica». Questa società è diventata invivibile, viene detto e ripetuto, ma solo dopo averne constatato gli insuccessi nel mantenere le proprie promesse. Viene da chiedersi: altrimenti? Chissà, forse se non fossimo «stati espropriati della nostra lingua dall’insegnamento», o «delle nostre canzoni dagli spettacoli di varietà», o «delle nostre città dalla polizia»… potremmo ancora essere felici di vivere nel nostro mondo. In attesa di riappropriarci di qualcosa che non abbiamo mai posseduto, possiamo campare & lottare sfruttando i nostri genitori («Di ciò che vi è di incondizionato nei legami di parentela, noi contiamo di farne l’armatura di una solidarietà politica, impenetrabile dall’ingerenza dello Stato quanto può esserlo un accampamento di gitani. Non vi è nessuna, tra le interminabili sovvenzioni che numerosi genitori sono obbligati a versare alla loro progenie proletarizzata che non possa divenire una forma di mecenatismo in favore della sovversione sociale»), o magari partecipando alla fiera elettorale («Quelli che votano ancora, danno l’impressione di non avere più altro obiettivo che non sia far saltare le urne a forza di votare, per pura protesta. Si comincia a pensare che sia proprio contro lo stesso voto che si continua a votare»). Questi filosofi radicali, che mattacchioni! Tanto da maltrattare i più conformisti fra i loro lettori, spaventandoli con l’evocazione degli incendi dell’inverno 2005, minacciandoli con l’apologia della teppa di periferia, stupendoli con l’affermazione dell’inutilità pratica dello Stato, arrivando ad accusarli di invidiare la vita dei poveri.

 

Tutto ciò per arrivare dove? Per il Comitato Invisibile, questa civiltà non ha più nulla da offrire. Solo che si tratta di un tramonto che non annuncia nessuna aurora. Come in tutte le forme di nichilismo — ed è risaputo come nulla ecciti i filosofi radicali più del nichilismo — è la tensione utopica a farne le spese. Al di fuori di questo mondo c’è solo questo mondo. Non c’è soluzione, non c’è futuro. Rimane solo un presente in rapida decomposizione, al cui interno sopravvivere alla meno peggio. Non stupisce quindi se per gli scribi «Divenire autonomo» significa semplicemente «imparare a battersi nelle strade, ad accaparrarsi case vuote, a non lavorare, ad amarsi follemente e a rubare nei supermercati»: sopravvivere alla meno peggio, appunto.

Ma allora, l’insurrezione? Che diamine, ora ci si arriva. Dopo aver descritto un malessere sociale senza causa né ragioni, eccoci giunti alla seconda parte, quella in cui si annuncia una insurrezione senza contenuto. Anche qui, fin dall’inizio, spicca un’approssimazione buona per accontentare tutti i palati. Un’insurrezione, esordisce il Comitato Invisibile, «non immaginiamo nemmeno più da dove cominci». Da una sommossa — è stato fatto notare con irritazione. Naaah, troppo preciso. Meglio lasciare la questione in sospeso, così da attrarre quanti più curiosi è possibile, e spiccare pindarici voli per scansare i punti su cui solitamente gli animi si dividono. Pensate che i rapporti fra sovversivi debbano basarsi sulla affinità (cioè su un’assodata condivisione di prospettive generali e di idee) o piuttosto sulla affettività (cioè su una momentanea condivisione di situazioni particolari e di sentimenti)? Niente paura, al Comitato Invisibile basta un salto acrobatico per superare con non chalance l’ostacolo e dondolare su una sensazionale sovrapposizione («Ci siamo abituati a un’idea neutra dell’amicizia, come un puro affetto senza conseguenza. Ma qualsiasi affinità è affinità a una verità comune»). Il trucco è semplice. Anziché partire dai desideri individuali, per forza di cose molteplici e divergenti, basta partire da contesti sociali facilmente percepibili come comuni. Al Comitato Invisibile non garbano le idee che si possiedono, preferisce le verità che ci possiedono: «Una verità non è un’opinione sul mondo, ma quello che ci tiene legati ad esso in una maniera irriducibile. Una verità non è qualcosa che deteniamo, ma qualcosa che ci sostiene». La verità è esterna ed oggettiva, univoca, al di fuori di ogni discussione. L’imminenza della fine del mondo che ci circonda, ad esempio (ignorando quindi un possibile prolungamento artificiale di questa agonia). Basta condividere il sentimento di questa verità per ritrovarsi a fare comunella su banalità del tipo «bisogna organizzarsi». Non rompete l’incantesimo. Date per buona questa verità, secondo cui il vicolo cieco in cui si trova l’ordine sociale si tramuta in un’autostrada per l’insurrezione, e non osate chiedere: organizzarsi come? per fare cosa? con chi? e perché?

 

Siete fra quelli che ritengono che la distruzione del vecchio mondo sia un momento inevitabile e preliminare ad un’autentica trasformazione sociale? o forse siete persuasi che la nascita immediata di nuove forme di vita riuscirà ad esautorare i vecchi modelli autoritari, rendendo superfluo ogni scontro diretto con il potere? Nessun problema, ancora una volta il Comitato Invisibile, con le sue estremità in tutte le staffe, è in grado di conciliare tensioni da sempre contrapposte. Mentre auspica «una molteplicità di comuni, che si sostituisca alle istituzioni della società: la famiglia, la scuola, il sindacato, il club sportivo, e così via», teorizza di «Non rendere visibile, ma volgere a nostro vantaggio l’anonimato in cui siamo stati relegati e, attraverso la cospirazione, l’azione notturna o a volto coperto, farne un’inattaccabile posizione di attacco». La mancanza di imbarazzo degli scribi-che-constatano-evidenze è imbarazzante. È vero che la storia del movimento rivoluzionario è un immenso arsenale, teorico e pratico, da saccheggiare. Ma la disinvoltura con cui sciolgono nodi secolari lascia allibiti da tanto è frutto di una grossolana manipolazione. Osserviamo come trasformano il concetto di «Comune» in un passepartout ideologico in grado di spalancare (loro) ogni porta. Pur di raccattare consensi in tutto il variegato campo degli insoddisfatti, fra i nemici di questo mondo (per cui la Comune è sinonimo della Parigi insorta del 1871) come fra gli alternativi a questo mondo (per cui la Comune è l’oasi felice nel deserto del capitalismo), essi si fanno i cantori di una “Comune” che vedono dappertutto: «Ogni sciopero spontaneo è una comune, ogni casa occupata collettivamente su delle basi chiare e precise è una comune, i comitati di azione del ‘68 erano delle comuni come lo erano i villaggi di schiavi neri negli Stati Uniti, o ancora Radio Alice a Bologna nel 1977». E poi cos’altro? «La comune è l’unità elementare della realtà partigiana. Un’ondata insurrezionale non è forse nient’altro che una moltiplicazione delle comuni, dei loro legami e della loro articolazione. A seconda del corso degli eventi, le comuni si fondono in entità di più ampio respiro, o al contrario si frazionano. Tra una banda di fratelli e sorelle legati “per la vita e per la morte” e la riunione di una molteplicità di gruppi, di comitati, di squadre per organizzare l’approvvigionamento e l’autodifesa di un quartiere, come di una regione in sollevazione, non vi è che una differenza di scala, esse sono indistintamente delle comuni». Certo, indistintamente tutte le vacche sono grigie.

È incredibile dover ricordare che il dibattito sul rapporto fra rottura rivoluzionaria e sperimentazione di forme di vita alternative al modello unico imposto dai rapporti sociali dominanti risale perlomeno alla fine dell’ottocento. In Italia si manifestò soprattutto nelle discussioni attorno alla Colonia Cecilia, mentre in Francia si incarnò nelle scelte esistenziali di due fratelli, Emile e Fortuné Henry (scusate, ma ognuno ha una sua Storia da tramandare. A differenza del Comitato Invisibile, a noi vengono in mente gli anarchici). Il primo dei fratelli, sottoscrivendo le parole di Alexandre Herzen secondo cui «Noi non costruiamo, noi demoliamo; noi non annunciamo nuove rivelazioni, noi distruggiamo le vecchie menzogne», salì sul patibolo dopo aver compiuto alcuni attentati dinamitardi; il secondo fondò la colonia di Aiglemont. I termini della questione da allora sono rimasti pressoché immutati: una nuova forma di vita si può palesare solo nel corso di fratture insurrezionali, oppure può verificarsi anche al di fuori di esse? Sono le barricate a rendere possibile l’impossibile attraverso la sospensione di abitudini, pregiudizi e divieti secolari, oppure questo impossibile può essere assaporato e alimentato quotidianamente a margine dell’alienazione dominante?

 

Il Comitato Invisibile è come la virtù: sta sempre nel mezzo. Come gli odierni sostenitori della “sfera pubblica non-statale” (dai militanti anarchici più bolsi ai “disobbedienti” negriani più scaltri), sostiene che «L’auto-organizzazione locale, imponendo la propria geografia alla cartografia dello Stato, la sconvolge, l’annulla: produce la sua propria secessione». Ma mentre i primi vedono nella progressiva diffusione di esperienze di autorganizzazione una alternativa all’ipotesi insurrezionale, il Comitato Invisibile propone una integrazione strategica di vie giudicate fino ad ora separate. Non più il sabotaggio o l’orto, bensì il sabotaggio e l’orto. Di giorno a piantare patate, di notte ad abbattere tralicci. L’attività diurna è giustificata dall’esigenza di non essere dipendenti dai servizi oggi forniti dal mercato e dallo Stato e di garantirsi così una certa autonomia materiale («Come nutrirsi una volta che tutto è stato paralizzato? Saccheggiare i negozi, come è stato fatto in Argentina, ha i suoi limiti»), quella notturna dall’esigenza di interrompere i flussi del potere («Il primo gesto per permettere che qualcosa sorga dal bel mezzo della metropoli, perché si aprano nuove possibilità, è arrestare il suo perpetuum mobile»). Trascinati dall’entusiasmo per questa brillante combinazione che mai nella mente di nessun rivoluzionario aveva fatto capolino, dopo aver prescritto che «Il movimento espansivo di costituzione delle comuni deve doppiare a livello sotterraneo quello della metropoli», gli scribi si domandano: «Perché le comuni non dovrebbero moltiplicarsi all’infinito? In ogni fabbrica, in ogni strada, in ogni villaggio, in ogni scuola. Finalmente, eccolo il regno dei comitati di base!». La risposta a questo interrogativo è un’evidenza facilmente constatabile a Tarnac, l’11 novembre 2008: la polizia che viene. Senza alcuna originalità, il Comitato Invisibile rimastica la vecchia illusione attiva negli anni 70 di una «Comune Armata», di una Comune cioè che non si arrocchi in difesa del proprio spazio liberato ma vada all’attacco degli altri spazi rimasti in mano al potere. Solo che questo non è realizzabile, per almeno due ordini di motivi.

Il primo è che, al di fuori di un contesto insurrezionale, una comune vive in uno degli interstizi lasciati vuoti dal dominio. La sua sopravvivenza è legata alla sua inoffensività. Finché si tratta di coltivare zucchine in orti biologici, di sfornare pasti in mense popolari, di curare malati in ambulatori autogestiti, va tutto bene. Alle volte serve qualcuno che rimedi alle carenze dei servizi sociali. In fondo fa comodo un’area di parcheggio per emarginati lontana dalle sfavillanti vetrine del centro cittadino. Ma, non appena si esce per andare in cerca del nemico, le cose cambiano. Prima o poi la polizia bussa alla porta e la comune finisce, o per lo meno si ridimensiona. Altro che «doppiare» la metropoli! Tutte le Comuni che hanno aggredito l’esistente hanno avuto vita breve.

L’altro motivo che vanifica il tentativo di una generalizzazione di “Comuni Armate” fuori da un’insurrezione, è dato dalle difficoltà materiali in cui si dibattono simili esperienze, che di solito vedono sorgere davanti a sé una miriade di problemi accompagnata da una cronica mancanza di risorse. Dato che solo pochi privilegiati sono in grado di risolvere ogni seccatura con la velocità con cui si firma un assegno (o lo si fa firmare da mamma e papà mecenati della sovversione), i partecipanti della comune quasi sempre sono costretti a dedicare tutto il tempo e le proprie energie al suo “funzionamento” interno. Insomma, per restare nella metafora, da un lato l’attività diurna con le sue esigenze tende ad assorbire tutte le forze a scapito dell’attività notturna; dall’altro, l’attività notturna con le sue conseguenze tende a mettere in pericolo l’attività diurna. Alla fine, queste due tensioni si vengono a scontrare. Fortuné Henry, nel momento in cui iniziò una intensa attività propagandistica che lo portò ad assentarsi da Aiglemont, vide il suo esperimento sociale naufragare in pochissimo tempo (e nessuno lo rimpianse). Gli anarchici illegalisti francesi di inizio novecento avevano sì convissuto nella colonia di Romanville, ma fu solo dopo il collasso di questo tentativo comunitario e il loro ritorno a Parigi che diventarono i «banditi in automobile».

 

Che sia chiaro. Ciò non vuol dire negare l’importanza e il valore di simili esperimenti. Significa solo non sovraccaricarli di un significato e di una portata che non possono avere. Come Malatesta nel 1913, «Noi non abbiamo niente da obiettare al fatto che alcuni compagni cerchino di organizzare la loro vita nel modo che la intendono e trarre il miglior partito che possono dalle circostanze in cui si trovano. Ma protestiamo quando dei modi di vita, che non sono e non possono essere che degli adattamenti al sistema attuale, si vogliono presentare come cose anarchiche e, peggio ancora, come mezzi per trasformare la società senza ricorrere alla rivoluzione». Un esperimento in vitro, limitato e circoscritto, è senz’altro in grado di fornire buone indicazioni e di tornare più che utile in determinate circostanze; ma non costituisce di per sé la liberazione.

Estendere il concetto di Comune a tutte le manifestazioni ribelli ed equiparare la loro somma a un’Insurrezione, come fa il Comitato Invisibile, è una trovata strumentale per aggirare la questione e far accogliere ovunque il proprio slogan pubblicitario. Se l’insieme di pratiche sovversive è l’insurrezione, allora questa non sta affatto arrivando: è già presente, lo è sempre stata. Non ve ne siete accorti? Più che una constatazione che diffonde gioia, ci sembra una consolazione che diffonde compiacimento. In gergo retorico si potrebbe forse definire, scusandoci per la trivialità, una metonimia. Detto terra terra, uno scambio di termini come quello che consiste nell’usare il nome della causa per quello dell’effetto, del contenente per il contenuto, della materia per l’oggetto… Si tratta di un confusionismo utile al Comitato Invisibile, che gli consente di blandire sia chi mira alla soddisfazione di bisogni quotidiani e sia chi punta alla realizzazione di desideri utopici (del resto, «non si sarebbero mai dovute slegare rabbia e politica»), di accarezzare sia chi è dedito a «comprendere la biologia del plancton» e sia chi si pone problemi quali «come rendere inutilizzabile una linea dell’alta velocità, o una rete elettrica? Come trovare i punti deboli delle reti informatiche, come offuscare le onde radio e mandare in panne il piccolo schermo?». Attraverso lo sfoggio del proprio essere pratico — nobile intento cui nessuno oserebbe opporsi — il Comitato Invisibile glissa su ogni questione che potrebbe sollevare discordia, sfregandosi le mani per la «fecondità politica» così raggiunta. Strepita a voce alta contro questa civiltà e non dice una parola su ciò per cui si batte. Il risultato pratico di questo atteggiamento? «Noi abbiamo l’ostilità a questa civiltà per tracciare solidarietà e dei fronti comuni su scala mondiale». In effetti, se l’ostilità a questa civiltà si accompagnasse alla passione per un’esistenza priva di ogni forma di dominio, tutti questi fronti comuni non sarebbero poi possibili: chi stringerebbe un’alleanza con un concorrente del potere?

 

Quando non ci si esprime né sul perché né sul cosa, figurarsi se si affronta la questione del come! Anche qui l’elusione viene rivestita con la stoffa dello stile: «Quanto a decidere l’azione, il principio potrebbe essere questo: che ciascuno vada in ricognizione, che si raccolgano le informazioni, e la decisione verrà da sola, prendendo noi piuttosto che venendo presa da noi». Inutile quindi perdere tempo in noiosi dibattiti sul metodo da adottare e sulla finalità da perseguire, che hanno per di più la disdicevole conseguenza di produrre dissapori: andiamo tutti a zonzo e la decisione verrà da sola. Bella, luminosa e valida per tutti. Se poi avete bisogno di qualche precisazione, date un’occhiata ai loro riferimenti storici e sforzate un po’ l’immaginazione. Sebbene a parole «L’incendio del novembre 2005 ne offre il modello», l’azione che hanno in mente gli scribi sembra assomigliare più a quella di un Partito delle Black Panthers guidato da Blanqui. Se ritenete che assomigli ad un guazzabuglio autoritario di tipo avanguardista, allora tocca constatare che siete irrimediabilmente vecchi e superati. Incapaci di accontentarvi di doti evanescenti quali la «densità» relazionale o lo «spirito» comunitario, magari siete anche capaci di trovare stucchevole la descrizione letteraria di cosa potrebbe accadere in una insurrezione, quella con cui si conclude il libro! Abbiamo già accennato alla scarsa precisione con cui è redatto questo testo, la quale non costituisce affatto il suo difetto maggiore, il suo lato debole, come qualcuno ha sostenuto nel recensirlo. Al contrario, appare il suo punto di forza. L’insurrezione che viene è al passo coi tempi, perfettamente alla moda. Possiede le caratteristiche più richieste del momento, è flessibile ed elastico, si adatta a tutte le circostanze (in ambito sovversivo). Si presenta bene, ha stile e risulta simpatico a chiunque perché dà un po’ di ragione a tutti, senza scontentare fino in fondo nessuno. Da questo punto di vista, è un libro decisamente politico.

 

Infine, due parole sul contesto da cui proviene questo libro. La Francia è notoriamente la patria della rivoluzione e dell’amore. Ma anche delle avanguardie culturali. Là è stato pubblicato il Manifesto del Futurismo, considerato il capostipite dell’avanguardia, là era attiva l’Internazionale Situazionista, considerata la sua ultima espressione. Il Comitato Invisibile è il negromante di questa putrida tradizione che vorrebbe coniugare tensioni rivoluzionarie e incassi di drogheria (solitamente mettendo le prime al servizio dei secondi). Come i suoi predecessori, non fa che pubblicizzare questioni che sono state sempre affrontate da individui e gruppi lontano e al riparo dal palcoscenico culturale e politico. Dopo aver attinto alle fonti più disparate del patrimonio rivoluzionario, dopo aver ben miscelato i singoli elementi prescelti, presenta con cipiglio questo frizzante mix sovversivo ad un pubblico di consumatori di brividi radicali, vantandone l’originalità. Pur istruito sulle contraddizioni in cui erano caduti i suoi padri/padrini, il Comitato Invisibile li segue nei fatti come nelle parole. Il risultato è un testo che viene sì pubblicato da una casa editrice commerciale, ma che nel contempo mette in guardia contro «gli ambienti culturali» il cui compito «è di recuperare le intensità nascenti e di sottrarvi, esponendolo, il senso di ciò che fate». Da un lato viene eletto libro del mese dalla FNAC, dall’altro ammonisce che «La letteratura è in Francia lo spazio che è stato da sempre accordato dall’alto come svago dei castrati. Essa è la libertà formale concessa a chi non si cura della negazione della propria libertà reale». Ma, come è già stato fatto notare, un movimento rivoluzionario animato da una volontà di arrivare ad una rottura con l’esistente non ha nessun bisogno della conferma dell’ordine sociale che critica. Lasciamo agli opportunisti di ogni colore l’ipocrisia di spacciare per spregiudicata incursione in territorio nemico quello che è in realtà collaborazionismo. È una strana idea di secessione e autonomia dalle istituzioni quella che consiglia di mettervi piede e parteciparvi senza remore.

Ci rendiamo conto che i fan di questo libro hanno i loro buoni motivi per gongolare: dopo che l’edizione statunitense stampata dalla Semiotext(e), specializzata nella french theory post-strutturalista, sarà distribuita dal M.I.T Press (a soli 12.95 dollari), il suo successo si preannuncia planetario. E a cosa è dovuto questo successo? Malgrado le assonanze che vi si possono trovare, L’Insurrezione che (s)viene nelle vetrine di tutte le librerie non è che la caricatura e la mercificazione di quell’insurrezione che potrebbe spaccarle tutte.

 

[da Machete n. 5, novembre 2009]

www.macheteaa.org

 

The Insurrection and Its Double

In distinguishing true romanticism from sham, Victor Hugo observed how all authentic thought had a disquieting double on the watch for it, always lying in wait, always quick to interpose itself for the original. A character of astounding plasticity that plays on similarities in order to gather some applause on the stage, this double has the specific ability to transform sulfur into holy water and to make the most reluctant public accept it. Modern insurrection, the one that is glad to do without Central Committees and the Sun of the Future, also finds itself reckoning with its shadow, with its parasite, with its classic that imitates it, that wears its colors and clothes, that sweeps up its crumbs.

On the wave of the media clamor that made it a best-seller in France, The Coming Insurrection is now also available in an Italian version.

Published in March 2007, under the signature of the Invisible Committee, this text has risen into the limelight of transalpine news thanks to a judiciary investigation that led to the arrest on November 11, 2008 in the little village of Tarnac, of nine subversives, accused of involvement in an act of sabotage against the high speed railroad line. As often happens in these cases, the investigating judge sought to strengthen his theorem from a “theoretical” point of view as well, by attributing the authorship of the book in question to one of those arrested. Printed by a small commercial leftist publishing house and distributed throughout the national territory, already well received by the establishment[1] at the time of its publication—The Coming Insurrection has become by a decision of the Prosecutor’s Office a dangerous and frightening “manual of sabotage”[2]. From this comes its success, fed by the fact that a few priests of the intelligentsia (French as well as others) came out in its favor, concerned with the undue police intrusion into the sphere of political philosophy. If one can imagine the bewilderment of those who have suddenly discovered that the Party can be Imaginary, but the police much less so, it is even easier to imagine the satisfaction of the editor of this little book, who had never thought of finding such an efficient advertising agent in the Ministry of the Interior. In any case, all those arrested were out of prison after a few months and it is hoped that they avoid it for a long time. Here we can end all references to this event, which has taken on ridiculous connotations, since the mixing of The Coming Insurrection with those arrested in Tarnac, in the end, is the work of the French magistrature. There is thus no reason to concern ourselves with it for now.

Deserving of warning instead is the brief introductory note in the Italian edition, in which the “Invisible Translators” (talk about the franchising[3] of politics…) don’t hesitate to use the judiciary investigation referred to above as a practical demonstration of the value of this text. After having given word to its alleged author, according to whom “The scandal of this book is that all that appears there is rigorously and catastrophically true, and it doesn’t stop coming true more every day.” (quotation drawn from an interview released in the well-known subversive newspaper Le Monde), the Invisible Translators reach the bizarre conclusion that he was arrested only because he was suspected of having written “the book that you hold in your hands”. Seized with excitement, they write of having translated it “because what it says is true, and, above all, it says so”. The reason why “ we would almost have to thank the sorry puppet theater of anti-terrorism laws for having allowed this book to be read on such a vast scale, in a collective manner, and often from a practical point of view. If it hadn’t been for them, probably the joy propagated by this book would not have reached so many people.” What do you say in the presence of such considerations that compete in devotion with other salivations of prositu memory? Perhaps it would be enough to recall that this certainly isn’t the first time that a subversive writing was used as supporting piece in a judicial inquiry, without for this reason becoming Gospel. It would be like claiming that the arrest of certain stalinists proves the truth of marxist-leninist publications, or that of certain anarchists proves the truth of anti-authoritarian books. That those in power in France don’t feel a jolt at the riots that inflame the banlieu, at the periodic social movements, at direct actions spreading across the territory, nor so much the less at a possible encounter between these events—of course not!—so much as at a commentary on them that can be acquired for 7 euros in any bookstore… it is a question of a consolation typical of certain armchair revolutionaries. The fact the Translators, Invisible, but above all Self-Interested, transform repression into an advertising spot says nothing about this book. But it says a lot about them.

This dreariness banished, The Coming Insurrection doesn’t wait.

But what is the coming insurrection that we need to examine? The original one that departed from France, or the one that landed elsewhere preceded by trumpet blasts? Let’s not get fooled by appearances, since it is not, in fact, a question of the same one. The first is the expression of a milieu that, in a world of zombies, points directly toward the success at reviving the corpse of the vanguard, and to do this, it leans on the culture industry. The second, which has the bad luck of being shown off in a country where for now the revolution isn’t for sale, is forced to cover the glitter of the merchandise with the cloak of conspiracy. The Italic readers that will avidly read this text, drunk on the subversive perfume sprayed on it by the pigs; would they have done the same if they had found it on a bookshelf at Feltrinelli’s with the sole recommendation of some authorized personnel? Permit us to doubt it. But however it may be, it’s useless to go into it too much. So let’s start by taking this text literally, outside of its specific context to which we will return briefly at the end. It goes without saying that disagreements, more than agreements, are what attracted our attention.

Apart from a prologue, the book is composed of seven circles and four chapters. In the first part, the Invisible Committee, in Dantesque guise, take us through the hell of the current society, illustrating it with numerous examples. In the second part, we are introduced into the paradise of insurrection, to be attained through a multiplication of communes. If the first part has an easy time winning a certain approval, with a panoramic view of the world that offers us a glimpse of the continuous devastation, the second part limps, and not just a little. Still, they both share a common characteristic: a certain vagueness, well concealed by the dry and peremptory style. But are we sure that this is a defect and not, rather, a basic ingredient for the success of the book?

As writers of an essay of political philosophy, the Invisible Committee affects a strong contempt for speculation and a marked penchant for practice. And this is good,above all because it allows them to rake in the applause both of the erudite in withdrawal from vitamins and of the activists thirsty for knowledge. Distinguishing themselves from the many marxist sects, the Invisible Committee has no love for the great analyses that subsume and explain, explain and subsume everything. Intelligent analyses if you will, for goodness sake, but that after a century and a half they have been a bit of a pain in the ass. They are uncertain, disputable, at times even pathetic. The critique of the existent, taken in its totality, doesn’t interest the Committee. Nonetheless, precisely like the various marxist sects, the I.C. has the lust to impose its vision. But since today a discourse that demands to be taken seriously because it is based on “scientific” presuppositions would provoke a certain hilarity, better to bet on something else, better to peddle it as true insofar as it is based on observation. There’s been enough analysis, enough critique, enough research, make way for the evidence and its rock-hard objectivity that hits you suddenly right in the eye. Thus, with contrived humility, the Invisible Committee states from the start that they are content to “introduce a little order into the common-places of our time, collecting some of the murmurings around barroom tables and behind closed bedroom doors”, in other words, “to lay down a few necessary truths” [The Coming Insurrection – hereafter TCI – , p. 28, Semiotext(e)/MIT Press, 2009]. Its members don’t even consider themselves the authors of this book; simply, “They’ve made themselves scribes of the situation. It’s the privileged feature of radical circumstances that a rigorous application of logic leads to revolution. It is enough just to say what is before our eyes and not to shrink from the conclusions” [TCI, p.28].[4] We bet that you had never thought of this: commonplaces are the necessary truths to transcribe in order to awaken the sense of rigor that leads logically to revolution. It’s obvious, isn’t it?

Dive into the seven circles that subdivide the contemporary social hell and you will find very few ideas on which to reflect, but many states of mind to share. As we’ve said already, the authors/writers of this text avoid basing their discourse on any theory. In order not to incur the risk of seeming old-fashioned, the scribes prefer to register the lived in its ordinariness, where everything becomes familiar, precisely as a common-place. In this clear and well-articulated flow of everyday banalities—made of anecdotes, witticisms, advertising slogans, surveys and pining away—each one finds something of himself there and recognizes it. In taking note, in apocalyptic tones, of the impending end of the world, in reviewing the various social spheres in which it is consuming, the Invisible Committee lingers over the most immediately perceivable effects, saying nothing about the possible causes. Indeed, it informs us, “the general misery becomes intolerable the moment it is shown for what it is, a thing without cause or reason” [TCI, p. 65]. Without cause or reason? Don’t expect radical critiques of the existent, even if it means mixing the communist ones of capitalism and the anarchist ones of the state: these are out-dated things to be avoided, if one wants to appear original. From this civilization, political powerlessness, economic bankruptcy, social decline get confirmed, but always seen from the inside. Without illusions about what is, but also without an impulse for what could be. This is because The Coming Insurrection, after being born in the form of editorial merchandise, is thought and written to reach the “great public”. And the “great public” is composed of spectators greedy for emotions to consume in the moment, in the course of situations, and is insensitive to ideas that might give meaning to a whole life. To the “great public”, if one wants to seduce it, it is necessary to palm off easy images in which one knows how to reflect oneself without too much effort (as the Italian translators smugly declare, “with no promise of understandings to be achieved in terms of who knows what interpretations”).

It is almost banal to observe how Guy Debords ghost haunts this text that sometimes recalls The Fight Club. Yes, precisely the famous film taken from Chuck Palahniuk’s novel, known for the “hard and innovative style, with nihilistic contents”. The Invisible Committee brings to mind the dressed-up Edward Norton seated on the john with the Ikea catalog in hand, on the point of exploding and transforming into a wild Brad Pitt. Same “schizophrenia”, same phrases for a point-blank effect.

—“This is your life, and it is ending one minute at a time.”

— “After fighting, everything else in your life got the volume turned down.. You could deal with anything.”

“It was right in every everyone’s face. Tyler and I just made it visible. It was on the tip of everyone’s tongue. Tyler and I just gave it a name.”

—“ Murder, crime, poverty, these things don’t concern me. What concerns me are celebrity magazines, television with 500 channels, some guy’s name on my underwear. Rogaine, Viagra, Olestra.”

—“It’s only after we’ve lost everything that we’re free to do anything.”

— “We’re the middle children of history, man. No purpose or place. We have no Great War. No Great Depression. Our Great War’s a spiritual war… our Great Depression is our lives. We’ve all been raised on television to believe that one day we’d all be millionaires, and movie gods, and rock stars. But we won’t. And we’re slowly learning that fact. And we’re very, very pissed off.”

—“ You’re not your job. You’re not how much money you have in the bank. You’re not the car you drive. You’re not the contents of your wallet. You’re not your fucking khakis. You’re the all-singing, all-dancing crap of the world.”

—“Why these buildings? Why credit card companies?” – “If you erase the debt record, we all go back to zero. It’ll create total chaos.”[5]

…and so on until the collapse of the metropolises.

In this same nihil-aestheticist air, in The Coming Insurrection the end of civil life together is depicted with the distance that separates the sentimentalism of pop songs from the warnongering of the most militant rap. The end of the family is inferred from the climate of boredom and embarrassment that looms over the ritual common meal. The end of the economy is readable in the jokes that circulate among the managers themselves. The end of the city materializes in the form of advertising posters. Having reached the end of the seventh circle, the conclusion is predictable: like the Norton/Pitt due, the Invisible Committee deserves applause. That it isn’t so difficult to sound convincing when one limits oneself to describing the daily horrors of which we are all victims is of little importance. That later, here and there, this long series of objective observations allows some subjective tic to leak through, who cares? Come on don’t be pedantic. Don’t growl in the face of the collective We accompanied by the insistent contempt for the individual I. Already sold off as the inspiration of Reebok, the individual later finds itself again passed off as a synonym for “identity”, “problem”, “straightjacket”. Aspiring shepherds like to wallow in the stench of the flock. All that is needed to make them happy is the evocation of a street gang or a political collective, with their respective followers to fight and make processions for the racketistic control of the “territory”. Uniqueness is fought off because it doesn’t create a mass to manipulate. Level zero of consciousness is the silence in which slogans echo the strongest, the blank sheet on which the Calls to enlistment are printed.

In the same way don’t frown at the sight of the Byzantine distinction between politics and the political[6], of the frantic attempt to save the savable after having taken note of the shipwreck that is going on. The fire that burns all demands to ashes, like the fury that escapes all civil confrontation, certainly has a political meaning. But for whom? Not for the anonymous insurgents who want to make a blank slate of what surrounds them, to whom it is enough to give free rein to their desires. Every political concern belongs only to the “state’s tentacles” [TCI, p. 95]. And don’t snort at the reproposition of the dialectical nursery rhymes, inevitable jigsaw puzzles that transform the following of one event after the other into a well-oiled mechanism (if for Marx and Engels “ the bourgeoisie has not only manufactured the weapons the bring its death”, for the Invisible Committee “the metropolis also produces the means of its own destruction” [TCI, p. 61]). If this all reminds you of something old and dismal, it is only because you are absorbed with old and dismal ideological prejudices.

Dramatically aware that “We can’t rid ourselves of what binds us without at the same time losing the very thing to which our forces would be applied” [TCI, p. 32], the Invisible Committee keeps all irreducible otherness at a safe distance. Best not to go too far into “disaffiliation”, best that it remains “political”. This society has become unlivable, it is said repeatedly, but only after having observed its failure to keep its promises. One comes to ask oneself: if it had not failed? Who knows, maybe if we hadn’t “been expropriated from our own language by education, from our songs by reality TV contests, […] of our city by the police” [TCI, p. 36]… we might even be happy living in our world. In expectation of reappropriating something that we have never possessed, we can get by and struggle by exploiting out parents (“We count making that which is unconditional in relationships the armor of a political solidarity as impenetrable to state interference as a gypsy camp. There is no reason that the interminable subsidies that numerous relatives are compelled to offload onto their proletarianized progeny can’t become a form of patronage in favor of social subversion” [TCI, p. 42][7]) or perhaps by participating in the electoral show (“Those who still vote seem to have no other intention than to desecrate the ballot box by voting as a pure act of protest. We’re beginning to suspect that it’s only against voting itself that people continue to vote” [TCI, p. 23]). These radical philosophers, what jokers! So much for maltreating/misusing the most conformist among their readers, frightening them with evocations of the fires of the winter of 2005, threatening them with the defense of the riffraff of the urban outskirts, surprising them with the affirmation of the practical uselessness of the state, reaching the point of accusing them of envying the life of the poor.

All this to get where? For the Invisible Committee, this civilization no longer has anything to offer. Only it’s a dusk that doesn’t forecast any dawn. As in all forms of nihilism—and it is well-known that nothing excites philosophers more than nihilism—it is the utopian tension that gets lost. Beyond this world, there is only this world. All that is left is a present that is rapidly disintegrating, inside of which to survive as best one can under the circumstances. It is therefore not surprising that for the scribes “Becoming autonomous” means merely “learning to fight in the streets, to occupy empty houses, to love each other madly, and to shoplift” [TCI, p. 42]: surviving as best one can under the circumstances, precisely.

But then, what about the insurrection? What the heck, here we are. After having described a social misery without cause or reason, here we have reached the second part, that in which an insurrection without content is announced. Here as well, from the start, a good approximation for satisfying all palates stands out. “We can no longer even see,” the Invisible Committee begins, “ how an insurrection might begin”. From an uprising—someone has noted with irritation. Naaah, too precise. Best to leave the question unresolved, so as to appeal to as many of the curious as possible, and to jump from subject to subject in order to dodge the points on which minds are usually divided. Do you think relationships between subversives should be based on affinity (i.e., on a firm sharing of general perspectives and ideas) or rather on affectivity (i.e., on a temporary sharing of particular situations and feelings)? Never fear, to the Invisible Committee an acrobatic leap is enough to nonchalantly overcome the obstacle and swing on a sensational overlap (“We have been given a neutral idea of friendship, understood as a pure fondness without consequence. But all affinity is affinity within a common truth” [TCI, p.98]). It’s a simple trick. Instead of starting from individual desires, by force of things, multiple and divergent, it is enough to start from social contexts that are easily perceived as common. The Invisible Committee doesn’t like ideas that we possess; they prefer truths that possess us: “A truth isn’t a view on the world but what binds us to it in an irreducible way. A truth isn’t something we hold but something that carries us” [TCI, p.97]. Truth is external and objective, single-voiced, beyond discussion. The imminence of the end of the world that surrounds us, for example (thus ignoring a possible extension of this agony). It is sufficient to share the feeling of this truth in order to find oneself again in cahoots about banalities of the “we need to get organized” type. Don’t break the spell. Take this truth, according to which the dead end in which the social order finds itself is transformed into a superhighway toward the insurrection, on trust and don’t dare to ask: organize how? for what? with whom? and why?

Are you one of those who holds that the destruction of the old world is an unavoidable and preliminary moment in an authentic social transformation? Or perhaps you are convinced that the immediate birth of new forms will manage to divest the old authoritarian models of their power, rendering all direct conflict with power superfluous? No problem. Once again the Invisible Committee, with a finger in every pie, is able to reconcile tensions that have always been opposed. While it hopes for “a multiplicity of communes that will displace the institutions of society: family, school, union, sports club, etc.”[ TCI, p. 102], it theorizes about “Not making ourselves visible, but instead turning the invisibility to which we have been relegated to our advantage, and through conspiracy, nocturnal or faceless actions, creating an invulnerable position of attack” [TCI, p. 113]. The lack of embarrassment of the scribes-who-make-note-of-the-evidence is embarrassing. It is true that the history of the revolutionary movement is a huge theoreticaland practical arsenal to loot. But the ease with which they untie centuries old knots, the fruit of a crude manipulation, leaves us astounded. Let’s observe how they transform the concept of the “Commune” into an ideological master key able to fling open all their doors. Still scraping together consent throughout the varied field of the dissatisfied, among the enemies of this world (for whom the Commune is synonymous with the insurgent Paris of 1871) as among the alternatives to this world (for whom the Commune is the happy oasis in the desert of capitalism), they become the bards of a “Commune” that they see everywhere: “Every wildcat strike is a commune; every building occupied collectively and on a clear basis is a commune. The action committees of 1968 were communes, as were the slave maroons in the United States, or Radio Alice in Bologna in 1977” [TCI, p. 102]. And then what else? “The commune is the basic unit of partisan reality. An insurrectional surge may be nothing more than a multiplication of communes, their coming into contact and forming of ties. As events unfold, communes will either merge into larger entities or fragment. The difference between a band of brothers and sisters bound ‘for life’ and the gathering of many groups, committees and gangs for organizing the supply and self-defense of a neighborhood or even a region in revolt, is only a difference of scale, they are all communes” [TCI, p. 117].[8] Of course, the cows are all herds, without distinctions.

It is incredible to have to recall that the debate over the relationship between the revolutionary rupture and experimentation with ways of life that offer an alternative to the single model imposed by the ruling social relationships goes back at least to the end of the nineteenth century. In Italy it was manifested above all in the discussions around the Cecilia Community, while in France it was embodies in the choices of two brothers, Emile and Fortuné Henry (pardon, but everyone has a History of his own to pass on. Unlike the Invisible Committee, for us, anarchists come to mind). The first of the brothers, subscribing to the words of Alexander Herzen according to whom “We do not build, we demolish; we do not announce new revelations, we destroy old lies”, went up on the gallows after having carries out some dynamite attacks; the second founded the community of Aiglemont. The terms of the question from that time have remained more or less the same: can a new form of life be revealed only in the course of an insurrectional break, or can it be realized also outside of this? Do the barricades make the impossible possible through the suspension of centuries-old habits, prejudices and prohibitions, or can this impossible be relished and nourished daily at the margins of the ruling alienation?

The Invisible Committee is like virtue: it always stays in the middle. Like today’s supporters of the “non-state public sphere” (from the flabbiest anarchist militants to the slickest negrian “disobbedienti”), it maintains that “Local self-organization superimposes its own geography over the state cartography, scrambling and blurring it: it produces its own secession” [TCI, p. 108-9]. But whereas the former see in the progressive spread of experiments in self-organization an alternative to the insurrectional idea, the Invisible Committee proposes a strategic integration of ways judged separate up to now. No longer sabotage or the garden, but rather sabotage and the garden. During the day planting potatoes, during the night knocking down trellises. The daytime activity is justified by the need not to be dependent on the services now provided by the market and the state and to guarantee oneself in this way a certain material autonomy. (“How will we feed ourselves once everything is paralyzed? Looting stores, as in Argentina, has its limits” [TCI, p. 125]), the nighttime activity by the need to interrupt the flows of power (“In order for something to rise up in the midst of the metropolis and open up other possibilities the first act must be to interrupt its perpetuum mobile” [TCI, p. 61]). Driven by enthusiasm for this brilliant combination that had never poked its head up in the mind of any revolutionary, after having prescribed that “The expansive movement of commune formation should surreptitiously overtake the movement of the metropolis” [TCI, p. 109], the scribes ask themselves: “Why shouldn’t communes proliferate everywhere? In every factory, every street, every village, every school. At long last, the reign of the base committees!” [TCI, p.101].The answer to this question is something obvious, observable in Tarnac on November 11, 2008: the coming police. Without any originality, the Invisible Committee broods over the old illusion active in the 1970s of an “Armed Commune”, of a commune that is that doesn’t retreat in defense of its liberated space but goes to attack other spaces that remain in the hands of power. It’s just that this cannot be realized for two types of reasons.

The first is that, outside of an insurrectional context, a commune exists in one of the gaps left empty by the ruling order. Its survival is linked to its innocuousness. As long as it is a matter of cultivating zucchini in organic gardens, of churning out food in people’s dining halls, of healing sick people in self-managed clinics, it all goes well. At times, someone is needed to remedy the lack of social services. At bottom it provides a convenient place to park the marginalized far from the glittering showcases of the city centers. But as soon as one goes out in search of the enemy, things change. Sooner or later, the police come knocking on the door and the commune is finished, or at least trimmed down. Something other than “surreptitiously overtaking” the metropolis. Every commune that has attacked the existent has had a short life.

The other reason why the attempt to generalize the “Armed Commune” outside of an insurrection is thwarted springs from the material difficulty in which such experiments flounder, since they generally see rising before them a myriad of problems accompanied by a chronic lack of resources. Since only a privileged few are able to resolve every annoyance with the speed with which one signs a check (or gets it sign by mamma and papa, patrons of subversion), commune participants are almost always forced to dedicate all their time and energies to internal “functioning”. In short, sticking with the metaphor, on the one hand, the daytime activity with its needs tends to absorb all strength at the expense of the nighttime activity; on the other hand, the nighttime activity with its consequences tends to endanger the daytime activity. In the end, these two tensions clash. Fortuné Henry, at the time when he started an intense propaganda activity that led him to go away from Aiglemont, saw his social experiment overturning in a very short time (and no one missed it). The French illegalist anarchists at the start of the 20th century had lived together in the community at Romanville, but it was only after the collapse of this communitarian endeavor and their return to Paris that they became the “automobile bandits”.

Let’s be clear. This doesn’t mean to deny the importance and value of such experiments. It only means not overburdening them with a meaning and an importance that they cannot have. As Malatesta said in 1913, “We have no objection to the fact that some comrades seek to organized their life in the way the intend it and draw the best solution that they can from the circumstances in which they find themselves. But we protest when they want to present ways of life, which are and can only be adaptations to the current system, as anarchist things, or worse still, as means for transforming society without having recourse to revolution”. A limited and circumscribed in vitro experiment is certainly able to furnish good indications and become more than useful in specific circumstances, but it isn’t, by itself, liberation.

Extending the concept of the commune to all rebellious manifestation and equating their sum to an Insurrection, as the Invisible Committee does, is an instrumental gimmick for evading the question and causing one’s advertising slogan to be welcomed everywhere. If the totality of subversive practices is the insurrection, then this is not at all arriving: it is already here, it always has been. Haven’t you noticed it there? More than an observation that spreads joy, it seems to us to be a consolation that spreads complacency. In rhetorical jargon one might perhaps describe it, excusing us for the triviality, as a metonymy. Speaking plainly, an exchange of terms of the sort in which the name of the cause is used for that of the effect, the name of the container is used for what is contained, the name of the material is used for the object… It is a question of a tendency towards confusion that is useful to the Invisible Committee, which allows them to pander to both those who aim for the satisfaction of daily needs and those who point toward the realization of utopian desires (besides, “rage and politics should never have been separated”[TCI, p. 111]), to entertain both those who are dedicated to understanding “plankton biology” [TCI, p. 107] and those who pose questions such as “How can a TGV line or an electrical network be rendered useless? How does one find the weak points in computer networks or scramble radio waves and fill screens with white noise?” [TCI, p. 112]. Through the show of its being practical—a noble intent that no one would dare to oppose—the Invisible Committee skirts over every question that might stir up discord, rubbing their hands for the “political richness” [TCI, p. 120] achieved in this way. It roars loudly against this civilization and doesn’t say a word about what it is fighting for. The practical result of this attitude? “We have our hostility to this civilization for drawing lines of solidarity and of battle on a global scale” [TCI, p.99] In fact, if hostility to this civilization is accompanied by a passion for an existence without any form of domination, all these common fronts[9] would not be possible: who would form an alliance with a contender for power?

Since they don’ say anything about Why and What, obviously, they don’t say anything about How. Here as well avoidance is dressed up with the fabric of style: “As for deciding on actions, the principle could be as follows: each person should do their own reconnaissance, the information would then be put together, and the decision will occur to us rather than being made by us” [TCI, p.124].[10] It’s useless, therefore, to lose time in tedious debates on what method to adopt and on the aim to pursue, which mostly have the disgraceful consequence of producing misunderstandings: let’s all go on a stroll and the decisions will come by themselves. Beautiful, brilliant and valid for all. If you then have need of some precision, take a look at their historical references and strainyour imagination a bit. Although in words “The fires of November 2005 offer a model for this” [TCI, p.113], the action that the scribes have in mind seems to more closely resemble that of a Black Panther Party led by Blanqui. If you think that it resembles an authoritarian hodgepodge of a vanguardist type, then it is necessary to see that you are irreversibly old and surpassed. Unable to satisfy yourself with the elusive gifts of relational “density” or the communitarian “spirit”, perhaps you are still able to find the literary description of what might happen in an insurrection, with which this book concludes, sickening! We have already mentioned the lack of precision with which this text is put together, which is not at all its greatest defect, its weak side, as some have maintained in reviewing it. On the contrary, it seems to be its strong point. The Coming Insurrection is in step with the times, perfectly in fashion. It possesses the characteristics most required at the moment, it is flexible and elastic, it adapts itself to all circumstances (in the subversive sphere). It is well presented, has style and ends up being liked by everyone because it gives a bit of reason to all, without disaffecting anyone in the end. From this standpoint, it is a decidedly political book.

We’ll end with a couple of words on the context from which this book comes. France is notoriously the fatherland of revolution and of love, but also of cultural avant-gardes. That is where the Futurist Manifesto, considered the father of the avant-garde, was published[11], that is where the Situationist International, considered its final expression, was active. The Invisible Committee is the necromancer of this rotting tradition that would like to combine revolutionary tensions and grocery[12] sales (generally putting the former in the service of the latter). Like its predecessors, it does nothing more than publicize problems that have always been faced as individuals and groups struggle, sheltered from the cultural and political stage. After drawing from the most varied sources of the revolutionary heritage, after having thoroughly mixed single, pre-selected elements, it arrogantly presents this brisk subversive mix to a public of consumers of radical thrills, boasting about its originality. Even though instructed about the contradiction into which its fathers/godfathers had fallen, the Invisible Committee follows them in deeds as well as words. The result is a text that gets published by a commercial publishing house, but that, at the same time, warns against “cultural circles” whose task is “to spot nascent intensities and to explain away the sense of whatever it is you’re doing” [TCI, p.100]. On the one hand, it is chosen as book of the month by the FNAC[13], but on the other hand, it admonishes us that “In France, literature is the prescribed space for the amusement of the castrated. It is the formal freedom conceded to those who cannot accommodate themselves to the nothingness of their real freedom” [TCI, p.87]. But as has already been noted, a revolutionary movement animated by a desire to achieve a rupture with the existent has no need of confirmation from the social order that it criticizes. Let’s leave to the opportunists of every stripe the hypocrisy of passing off as a daring incursion into enemy territory what is, in reality, collaborationism. It is a strange idea of secession and autonomy from the institutions that advises setting it up and participating in it without hesitation.

 

Let’s keep in mind that the fans of this book have good reason to be happy: after the American edition published by Semiotext(e), which specializes in post-structuralist French theory, is distributed by M.I.T. Press (at only $12.95), its planetary success is preannounced. And to what is this success due? Despite the assonance that can be found there, The Coming Insurrection—coming into all bookstore windows, that is—is that it is the caricature and the commodification of the insurrection that might break them all.

 

 

[1] In English in the original—translator.

[2] In the material I have read in English, the French Minister of the Interior went so far as to call it a “manual of terrorism”—translator.

[3] In English in the original—translator.

[4] The original in the French actually reads: “c’est le privilege des circonstances radicals que la justesse y mène en bonne logique à la revolution”. In the English, the word “justesse” (accuracy or correctness) disappears within the “rigorous application of good logic”. I have therefore taken some liberties with the next sentence, replacing the Italian word “giusto” (rightness, correctness, accuracy) with “rigor” in order to parallel the English translation.

[5] All quotes from the movie The Fight Club

[6] See page 25 of TCI, among other places.

[7] One has to wonder why the explicit references to family relationships and parents found in the passage in both the Italian and in the original French are dropped in the English version. The passage is about depending on one’s parents for cash as a path to autonomy… The assumption is that one’s parents have cash and will give it with no strings attached.—translator.

[8] In the original: “elles sont indistinctement des communes”, literally “they are communes without distinction”.

[9] In the quote from TCI above, in the Italian version, the phrase “fronti comuni” (common fronts) was used to translate the original French phrase “fronts à l’échelle mondiale”, which would basically mean “global fronts”. In the Semiotext(e)/MIT Press English translation, the phrase “battle” is used, even though I could find nothing to indicate that this is a legitimate translation for the phrase “fronts à l’échelle mondiale”. But it is more exciting than “common front” or “global front”.—(translator’s note)

[10] The last clause in both the French and the Italian is a word play of some significance (French: “et la décision viendra d’ellemême, elle nous prendra plus que nous ne la prendrons”: “and the decision comes by itself, it takes us rather than we taking it”, the point being our relative passivity in the face of the force of circumstance.—translator.

[11] Though the Futurist Movement was founded by Italians, the manifesto was first published, in French, in Le Figaro (a French newspaper) on February 20, 1909.—translator.

[12] A reference to the fact that one of the Tarnac 9 bought (with those subversive parental “subsidies”) and runs the local grocery store. In an interview he is reported to have said: “I’m just a shopkeeper with a historical passion for revolutionary movements.”

[13] Fédération nationale d’achats des cadres, or National Purchasing Federation for Cadres (literally “managers”, but in this case apparently a reference to “cadres” in the leftist political sense), an “international entertainment retail chain”, centered in France, offering “cultural and electronic products”, started by two members of France’s Young Socialists movement in 1954, one of whom was Trotsky’s bodyguard for a while.