Individui o cittadini – it/en

222222222

«[Uomini senza mondo] erano e restano coloro che sono

costretti a vivere all’interno di un mondo che non è il loro (…) 

all’interno di un mondo per il quale sono presenti e in funzione del quale

sono certo pensati e utilizzati, ma i cui modelli, scopo, linguaggio e gusto

non sono comunque loro, né sono loro concessi»

(Günther Anders)

 

Individui senza mondo, siamo soli con noi stessi.

I nostri critici, scuotendo la testa davanti ai nostri scarsi risultati, ci rimproverano la nostra poca disponibilità. Ma alla fine, diciamocelo, uno si annoia. Possibile che non ci sia un angolino al sole anche per noi? Se l’estremismo è considerato da molti una malattia infantile, lo è in virtù di questa banalità: solo da giovani ci si sente in grado di rifiutare il mondo, questo mondo che non ci appartiene. Quando si è pieni di forza, con tutto il futuro davanti a sé, non si ha paura di nulla, né delle cariche della polizia né di dormire sotto le stelle e tanto meno di disdegnare i compromessi. In questa continua fanciullezza tutto sembra possibile e a portata di mano. Ecco perché non si accetta di dare la vita in pasto ai ragionieri della sopravvivenza. Si ama con passione, si odia con furore. E se pure questa esuberanza, questo orgoglioso amore di sé, ha come conseguenza la messa al bando con la sua solitudine, e sia! Ma poi, col passare degli anni, interviene qualcosa. Le energie si consumano, le provviste si riducono, le munizioni scarseggiano, ci si accorge di avere ben poco in mano con cui affrontare quel che resta dell’avvenire.

Intanto l’inverno sociale avanza, ricoprendo di gelo il paesaggio. In qualche modo, bisogna porre rimedio. Stare allo scarto di questo mondo non è poi tanto comodo, forse riscalda talora il cuore, non le ossa. La comunità sarà anche un luogo terapeutico, nel curare e rimuovere la “devianza”, ma che torpore al suo interno, che pasti assicurati, che letti all’asciutto! E così, a poco a poco, con spostamenti quasi inavvertiti, ci si avvicina alla polis. Se prima questo mondo non poteva contare sulla nostra pietà, se prima attirava tutta la nostra ostilità, ora può fare affidamento sulla nostra comprensione: l’occhio critico ha lasciato posto allo sguardo estatico, la parola tagliente è stata sostituita dal discorso suadente. E una volta fatto ingresso nella polis, bisogna perdere alcune antiche abitudini e acquisirne di nuove. La vita in comunità esige il rispetto di orari e di buone maniere. Bisogna saper tollerare se si vuole essere tollerati. Diventa indispensabile evitare quei comportamenti che potrebbero suscitare la pubblica indignazione, e chiudere un occhio dinnanzi agli altrui atteggiamenti poco graditi. «Chi fa ha sempre ragione», recita un diffuso luogo comune. È come sostenere che «chi parla ha sempre ragione». A venire apprezzata non è la qualità intrinseca del movimento o della parola, ma la loro mera esistenza. Eppure il silenzio si rivela essere d’oro quando non si sa cosa dire: meglio stare zitti che lasciarsi andare ad un perenne e cretinizzante chiacchiericcio. Se così è, perché tanto agitarsi quando non si sa cosa fare? Perché dedicarsi all’attivismo, a questo fare coatto, a questa mobilitazione costante, onnipresente, che riempie sì il vuoto della nostra esistenza, ma senza darle un senso che sia nostro, autonomo, che porti il segno della differenza, dell’unicità che sta all’origine di ogni vera azione?

Il fatto è che fuori dalle nuvole filosofiche si ha orrore del «nulla creatore», in cui non si vede l’occasione per arrivare ad una nostra pienezza ma solo la premessa per precipitare nel vuoto. Meglio allora affidarsi al moto perpetuo dell’urgenza delle cose, laddove non c’è tempo per riflettere sui fini perché bisogna pensare a come organizzare i mezzi. L’utopia è bella, ma è davvero poco pratica.

 

La pratica

In Francia viene chiamato cittadinismo, termine che indica un movimento composto da un vasto e multiforme arcipelago di associazioni, sindacati, collettivi, organi di stampa e correnti politiche, il cui scopo è battersi per il ripristino della “democrazia tradita”. Il fatto che il nostro pianeta si trovi allo stremo, dal punto di vista sociale, politico, economico ed ecologico, oggi non è un mistero per nessuno. La causa di questa situazione viene fatta risalire dai cittadinisti al mancato rispetto della «volontà popolare» la quale — una volta caduta nelle mani di politici assetati solo di potere in combutta con affaristi avidi solo di profitto — si ritroverebbe disattesa, manipolata, rinnegata.

Nemici di quei politici e di quegli affaristi (più che del sistema sociale di cui costoro sono espressione), i cittadinisti sono persuasi che la democrazia — nella sua forma più genuina, più rustica — sia effettivamente il migliore dei mondi possibili e che sia possibile migliorare e moralizzare il capitalismo e lo Stato, opponendosi con efficacia alle loro più palesi nocività ed abusi. A due condizioni però: che questa democrazia si esprima attraverso una rinata politica che abbia come modello più l’Atene di Pericle che la Firenze di Machiavelli, ovvero con una maggiore partecipazione diretta dei cittadini, i quali non solo devono eleggere i loro rappresentanti ma devono altresì agire costantemente per fare pressione su di essi affinché applichino davvero ciò per cui sono stati eletti. Questa pressione può venire esercitata nelle maniere più disparate, senza escludere quegli atti di “disobbedienza civica” che tanto fiele fanno sbavare ai reazionari più beceri e tanta ammirazione suscitano all’interno del movimento.

In un certo senso, si può affermare che il cittadinismo nasca dalla delusione. Nella sua variante più riformista, delusione per la distanza che sempre più separa chi viene mandato a Palazzo da chi rimane nella piazza. Sono molte le persone dabbene — per intendersi, quelle convinte che il potere sia ciò che crea e garantisce la libertà, che il mercato debba fondarsi su princìpi etici o che le operazioni militari debbano rispettare un codice deontologico — che non si sentono più rappresentate da una classe dirigente accusata apertamente di costituire una casta privilegiata, di essere sorda agli interessi della gente comune, di preoccuparsi solo di mantenere i propri scranni. Queste persone dabbene credono fermamente nello Stato, nella necessità dello Stato, nell’utilità dello Stato, nella giustizia insita nello Stato, ma ne sono momentaneamente deluse, ritenendo che oggi non sia guidato da politici competenti, onesti, corretti, leali. Da qui la loro diffidenza nei confronti dei politici professionisti, di partito o di sindacato, pur non abbandonando la ricerca di qualcuno che si riveli all’altezza delle loro richieste.

Sentendosi trascurati, i cittadinisti si vedono costretti a scendere in piazza per difendere i propri “diritti”. Le loro lotte hanno sempre obiettivi precisi, si limitano a dire un secco NO a un determinato progetto statale che mette in pericolo la propria salute, senza minimamente voler mettere in discussione l’organizzazione sociale che l’ha prodotto. Le istanze radicali, le tensioni sovversive, non li riguardano minimamente. Loro sono onesti cittadini, non sono “teppisti” o “terroristi”. Va da sé che, pur essendo pronti a compiere atti formalmente “illegali” come i blocchi stradali, sono nemici dichiarati della violenza. Non sopportano il manganello del celerino che reprime, tanto quanto il sabotaggio del ribelle che insorge. I soli atti di forza che accettano sono quelli controllati, minimi, integrati, che di tanto in tanto realizzano, quelli cioè che mirano ad attirare l’attenzione della controparte, ovvero delle autorità. Atti di forza che talvolta possono anche essere assai spettacolari, ma che non impedirebbero a chi li compie di concorrere un domani per le elezioni presidenziali. Nella sua variante meno riformista, il cittadinismo è frutto della delusione per una rivoluzione il cui progetto storico si è rivelato un fallimento. Questo progetto mirava, nelle sue principali seppur diverse espressioni, ad una riappropriazione dei mezzi di produzione capitalista da parte del proletariato. In questa ottica il proletariato si percepiva come l’autentico artefice della ricchezza sociale, il cui godimento avveniva però a beneficio esclusivo della borghesia: al proletariato la fatica della semina, alla borghesia i frutti del raccolto. Con una simile premessa, il cambiamento sociale non poteva essere considerato che come una mera soppressione della classe usurpatrice. Perciò l’accrescimento delle forze produttive era visto come un passo in avanti nel cammino verso la rivoluzione, accompagnando quel movimento reale attraverso il quale il proletariato si costituiva come futuro soggetto rivoluzionario che avrebbe realizzato il comunismo e l’anarchia. Il fallimento di questa prospettiva ha cominciato a far capolino nella prima metà del ventesimo secolo, con le sconfitte delle rivoluzioni in Russia, in Germania ed in Spagna. L’ultimo sussulto è stato il maggio francese del’68, che ha aperto un altro decennio di aspre lotte sociali. Gli anni 80 hanno messo fine all’ultimo grande assalto al cielo, segnando il declino irrimediabile e la scomparsa di questo progetto di liberazione sociale, in concomitanza con quelle ristrutturazioni del capitale che introducendo l’automazione ponevano fine alla centralità della fabbrica e ai miti ad essa legati. Gli orfani della rivoluzione proletaria hanno trovato nel cittadinismo una forma di protesta in grado di consolare il loro lutto. Alcune delle idee che circolano al suo interno, come quella relativa alla «ripartizione delle ricchezze», provengono direttamente dal vecchio movimento operaio che intendeva gestire per conto proprio il mondo capitalista. In simili concetti si può intravedere un ritorno, una continuità ed anche un dirottamento degli ideali di un tempo ad opera del cittadinismo. È quel che si chiama «arte di accomodare i resti».

Che si tratti di borghesi illuminati che pretendono più trasparenza negli affari pubblici, o di proletari disillusi che vogliono colmare il vuoto lasciato dal crollo del muro di Berlino, resta il fatto che i cittadinisti, non potendo avere un pensiero unico, hanno almeno un pensiero comune: un altro Stato è possibile. Se all’interno di questa vasta nebulosa è possibile trovare tante anime, talvolta anche contraddittorie, è perché il cittadinismo esprime una forma integrata di contestazione che spera di poter riequilibrare le disfunzioni del sistema economico o di riaggiustarne le derive attraverso una migliore partecipazione dei cittadini. In tal modo il cittadinismo riesce ad essere trasversale, a tenere insieme contestazione e collaborazione. La contestazione sprona la collaborazione, la collaborazione gratifica la contestazione. Questo spiega il suo successo e il suo sicuro avvenire. Esso è la sola mediazione che consenta di ottenere “vittorie” immediate, per quanto parziali, attraverso la composizione con le istituzioni.

 

Qualcosa è andato perduto

In Italia il cittadinismo ha mosso i suoi primi passi in Val Susa, con la lotta contro il treno ad alta velocità. A dire il vero, nella vallata piemontese la lotta contro il TAV era iniziata oltre dieci anni prima in maniera del tutto diversa, con alcuni sabotaggi contro i primi cantieri. Piccole azioni salite alla ribalta delle cronache con l’arresto dei presunti responsabili, tre anarchici risultati poi estranei ai fatti. Due di loro, nel corso dell’inchiesta, si suicidarono. Il clamore suscitato all’epoca da questi avvenimenti, sufficientemente conosciuti per non doverci tornare sopra, ha attirato l’attenzione sui progetti statali in Val Susa, generando un movimento di protesta che per alcuni anni — pur riscuotendo non poche simpatie — era rimasto circoscritto per lo più all’ambito militante. Ma a partire dal novembre 2005, con l’inizio vero e proprio dei lavori, questo movimento è riuscito a rompere gli argini, assumendo un carattere di massa. Quanto è successo in Val Susa ha provocato un entusiasmo generale che ha spinto molti a ritenere di aver scoperto infine la formula magica, la quale doveva solo essere ripetuta in altri contesti per ottenere i medesimi risultati. Da qui il dilagare in tutta Italia di comitati, di assemblee, di iniziative popolari contro le “nocività” che stanno riempiendo l’agenda di movimento.

Ma qual è l’idea che sta dietro tutto questo sfrenato attivismo che nel luglio 2006 si è andato coordinando nel Patto di Solidarietà e Mutuo Soccorso?

 

I Comitati, le Reti, i Movimenti, i Gruppi a conclusione della Carovana NO TAV Venaus-Roma, qui riuniti, presso la sala della Protomoteca del Comune di Roma, il giorno 14 luglio 2006, di comune accordo, stabiliscono di creare una RETE NAZIONALE PERMANENTE E UN PATTO NAZIONALE DI SOLIDARIETA’ E MUTUO SOCCORSO per affermare nel nostro paese: 
– Il diritto alla preventiva informazione e partecipazione attiva dei cittadini in merito a ogni intervento che si voglia operare sui territori in cui essi vivono, condividendone i beni comuni (acqua, aria, terra, energia); 
– L’utilizzo di sistemi di promozione e di consumo che valorizzino le risorse territoriali, minimizzino gli impatti ambientali e gli spostamenti di merci e persone, e che non siano basati sullo sfruttamento, in particolare del Sud del mondo; 
– Il principio di una moratoria nazionale sulla realizzazione delle grandi opere pubbliche e sulla localizzazione degli impianti energetici (centrali a combustibili fossili, inceneritori, termovalorizzatori, gassificatori, rigassificatori, ecc) sia per la mancanza di un piano energetico nazionale, sia per impedire che la logica degli affari di pochi divori le risorse dei molti. 
– L’urgenza della cancellazione della Legge Obiettivo, della Legge Delega Ambientale, della Legge Sblocca Centrali, dei Certificati Verdi per gli inceneritori e della radicale modifica del Disegno di Legge sull’energia. 
Su queste basi, diamo vita a un Coordinamento Nazionale (con sito Web ed e-mail), costituito da un rappresentante per ogni organizzazione partecipante, e invitiamo tutti gli altri Comitati, Reti, Movimenti e Gruppi ad unirsi in questo Patto Nazionale di Solidarietà e Mutuo Soccorso. 

 

 

Il discorso principale è quello della creazione di una “nuova” e “vera” democrazia, cioè il discorso cittadinista. Presentato da molti come un testo libertario, quello del Patto di Solidarietà e Mutuo Soccorso è un perfetto esempio di documento politico, contraddistinto dall’ambiguità di chi tiene il piede in due staffe per compiacere tutti i palati (e se vedere che molti cittadini hanno messo un piede fuori dalle istituzioni non può che rallegrarci, come considerare quei ribelli che per solidarietà hanno messo un piede dentro le istituzioni?). Ci sono anarchici che esultano nel leggere «Il Patto Nazionale di Solidarietà e Mutuo Soccorso non è certo un tentativo per infiltrarsi di soppiatto nella politica di palazzo né intende farsi ospitare nei palazzi della politica; non ha governi amici a cui guardare con fiducia; non ha partiti a cui consegnare deleghe in bianco e non intende certo percorrere una strada che lo porti a diventare esso stesso partito», senza accorgersi che qui viene affermata soltanto la natura trasversale e lobbistica del cittadinismo. I cittadinisti sono persone equilibrate, non vogliono diventare un partito, ma vogliono esercitare una certa pressione sui partiti. Sanno bene che battersi nell’arena politica non è esente da spiacevoli conseguenze. E il modo per evitare questo rischio è quello di assumere la forma del gruppo di pressione che si guarda bene dall’esercitare direttamente il potere. È per questo che non consegnano «deleghe in bianco», perché non vogliono avere interlocutori privilegiati. Chiunque stia ad ascoltarli può andare bene. Ecco perché subito dopo viene precisato che il Patto «Non per questo rifugge dalla politica e dal confronto, e sa distinguere chi opera con trasparenza da chi tenta di imbrigliare le lotte. Il modello che propone è al tempo stesso l’unico metodo che è disponibile ad accettare: quello della partecipazione attiva dei cittadini». I cittadinisti non rifuggono affatto la politica, nossignori, solo non vogliono più essere presi per i fondelli: patti chiari… Lungi dal sostenere l’astensionismo, predicano la partecipazione. Non è perciò un caso se la protesta anti-Tav in Val Susa, evidentemente ancora troppo radicata al vecchio mondo, pur essendo stata capace di scontrarsi con le forze dell’ordine o di devastare il nascituro cantiere di Venaus (momento di rottura successivamente scomparso nella narrazione filovalsusina, che preferisce dilungarsi sulle più presentabili assemblee popolari), è successivamente confluita nelle urne, dove l’alta affluenza ai seggi là registrata alle ultime elezioni ha visto il trionfo di quella sinistra che era stata più presente. Dunque, scontri e barricate (per ora?) non hanno alimentato la rivolta contro tutti i partiti, favorendone alcuni.

E se la nutrita presenza di sovversivi in Val Susa ha comunque dato all’opposizione al TAV un colore particolarmente vivace, le lotte susseguitesi altrove sembrano il più delle volte nutrirsi delle amenità dei Grillo boys. Ad esempio a Vicenza, dove è in corso la lotta contro l’ampliamento della base militare statunitense. I comitati No dal Molin affermano espressamente di reclamare «il rispetto del programma dell’Unione» e di essere sorti contro «il progetto che dal punto di vista ambientale viola le direttive già recepite dal nostro ordinamento 2003/35/CE», il tutto per «promuovere il cambiamento e per affermare un nuovo progetto alternativo nella difesa dei valori e dei beni comuni della collettività». La loro natura di aspiranti governanti è tale da indurli a patrocinare sotto l’egida di “AltroComune” le proprie iniziative. Con una simile premessa non c’è da stupirsi se questi Comitati, autonominatisi unici legittimi rappresentanti della lotta contro la base militare statunitense, hanno scomunicato gli autori di alcuni sabotaggi avvenuti contro la base lo scorso aprile. Prendere le distanze dai fatti, evidentemente, per loro non era abbastanza. Né è strano se nei loro campeggi a pagamento vengono invitati cani e porci col pedigree istituzionale, sollecitati ad abbaiare e grugnire in nome della democrazia. Men che meno ci si può indignare se durante i periodici cortei di protesta che sfilano per la città paladina, come in quello dello scorso 15 dicembre, costoro svolgono il ruolo di pompieri arrivando ad ostacolare apertamente quei manifestanti intenzionati a sabotare la prevista passeggiata. Stupefacente, semmai, dopo aver sostenuto i comitati No dal Molin (con relativo marchio registrato in tribunale!), pubblicizzato le loro iniziative, espresso loro solidarietà, diffuso le loro parole d’ordine — avendo evidentemente perduto ogni fiducia nella possibilità di un intervento autonomo in quella che è una lotta contro la base militare statunitense e non la lotta No dal Molin, che di questa lotta è solo l’espressione riformista — è sperare di provocare un’improvvisa “svolta” radicale rispetto ai loro obiettivi (fra i quali c’è la richiesta di moratoria, il cui principio è stato valorizzato all’interno del movimento proprio dal Patto di Solidarietà e Mutuo Soccorso, parte del quale è riprodotta a pag. 8).

 

L’equivoco

Come già detto, il cittadinismo si configura come una reazione politica dal basso alla cosiddetta “crisi della rappresentanza”. Una reazione che mira a superare e a curare tale crisi attraverso nuove forme di rappresentanza. Da questo punto di vista, si pone come erede naturale di partiti e sindacati nel recupero delle tensioni più radicali e sovversive. Ma ciò non toglie che i contesti in cui esso si manifesta presentino elementi di estremo interesse, perché potenzialmente gravidi di prospettive favorevoli. Il medico cittadinista si fa infatti vedere laddove il malato politico agonizza. La sua sola presenza è indice a colpo sicuro di opportunità d’azione. Infatti, mentre lui è indaffarato a prescrivere rimedi per salvare il moribondo, non si potrebbe approfittare della confusione per praticare a quest’ultimo una sana eutanasia? È perciò comprensibile che molti sovversivi abbiano deciso di intervenire in queste situazioni di lotta nell’intento di sfruttare l’occasione, di radicalizzare gli obiettivi cittadinisti, superandoli e mettendoli di fronte alle proprie contraddizioni. Ma in che modo?

Si tratta di una questione che forse è stata sottovalutata. Una simile ipotesi è una riproposizione dell’antica teoria degli “incidenti di percorso”. Un movimento, seppur nato su basi riformiste, può sempre deragliare e invertire la rotta. Dopo tutto, è stato più volte fatto notare come la banalità sia stata il biglietto da visita delle rivoluzioni nel corso della storia. Ciò è senz’altro vero, ma… non costituisce un buon motivo per iniziare a sostenere banalità. Quanto agli incidenti di percorso, l’esperienza storica insegna che a subirli spesso e volentieri sono stati i sovversivi; i quali, a furia di frequentare movimenti riformisti al fine di radicalizzarli, hanno sovente finito col cambiare rotta essi stessi. E questo è inevitabile quando ci si adegua agli avvenimenti invece di provare a forzarli sostenendo le proprie idee (a rischio di rimanere a margine dalla “massa”). Purtroppo mai come adesso questo aspetto salta agli occhi. Accantonata l’insurrezione dell’individuo, oggi si sostiene la democrazia diretta del popolo, si prende parte alle manifestazioni politiche più o meno oceaniche che prima si invitavano a disertare, si ospitano nelle proprie iniziative i cattedratici professionisti del sapere separato prima disprezzati. Non si è più orgogliosi della propria differenza qualitativa, quanto della propria identità quantitativa. Non si lanciano più critiche radicali nell’intento di provocare conflitto, si mettono a tacere le bestemmie per trovare concordia.

In Val Susa per una volta tanto, dopo tempo immemorabile, non erano i sovversivi a inseguire le lotte della “gente comune”, ma è stata la gente comune ad unirsi ai sovversivi nelle lotte. La presenza delle “masse” deve aver dato un po’ alla testa se, dopo aver sostenuto per anni la necessità di cogliere l’aspetto critico in ogni situazione di lotta al fine di rafforzarla, nel caso della Val Susa questo non è avvenuto, permettendo la rimessa in circolazione, tanto per fare alcuni esempi, di due cadaveri concettuali come “popolo” o “democrazia diretta”, nelle loro varie declinazioni ideologiche.

E cos’è il popolo? È un insieme di soggetti caratterizzati dalla volontà di vivere sotto un medesimo ordinamento giuridico. L’elemento geografico non è sufficiente a delimitare il concetto di popolo, il quale necessita del consenso allo stesso diritto e di una comunanza di interessi. Il popolo è una identità politica e storica, che ha accesso al racconto e alla memoria, ha diritto a commemorazioni, a manifestazioni e a lapidi di marmo. Il popolo è visibile e dicibile, strutturato nelle sue organizzazioni, rappresentato dai suoi delegati, dai suoi martiri, dai suoi eroi. Non è un caso se il suo mito è sempre stato accarezzato dagli autoritari di ogni pelo, o se era stato abbandonato da decenni dai libertari (almeno da quelli meno lobotomizzati). La sua disinvolta esaltazione in Val Susa ha avuto come conseguenza l’immediata comparsa della sindrome del populismo. Con questo termine generalmente si intende ogni formulazione politica basata sulla premessa che la virtù risieda nel popolo — considerato un aggregato sociale omogeneo, depositario esclusivo di valori positivi, specifici e permanenti — e nelle sue tradizioni collettive (la Val Susa come terra di partigiani,…). Nel populismo predomina spesso l’elemento rurale, poiché chi è rimasto a contatto con la terra, con le montagne, guarda con qualche sospetto e ostilità chi vive in un ambiente urbano. Il populismo è ecumenico, esclude ogni conflitto di classe giacché considera il popolo come massa omogenea. Dal punto di vista storico, esso tende a diffondersi ideologicamente nei periodi di transizione, nonché di forte tensione fra metropoli e provincia nel momento in cui sono in corso processi di industrializzazione, poiché offrono un motivo di coesione e nel contempo di richiamo e di coagulo. Le formule populiste risorgono ogni qual volta si assiste ad una rapida mobilitazione di vasti settori sociali e ad una politicizzazione intensiva al di fuori dei canali istituzionali esistenti. L’appello alla forza rigenerante del mito — e il mito del popolo è il più affascinante e il più oscuro nel medesimo tempo, il più immotivato e il più funzionale nella lotta per il potere — è latente anche nella società più articolata e complessa, pronto a materializzarsi nei momenti di crisi.

Tutte queste caratteristiche sono ben presenti in Val Susa, sfruttate dalle molte parti in causa, che non vogliono lasciarsi sfuggire la ghiotta occasione di una mobilitazione generale con certe potenzialità. Anche da parte anarchica non ci si è tirati indietro, affidandosi a quel populismo libertario che conosce illustri teorici e che ha nelle assemblee popolari la sua espressione maggiore. A partire dalla Val Susa si è infatti diffusa la sensazione che ogni individuo possa avere il controllo sulle decisioni che determinano il destino della nostra società: basta che sappia discutere con gli altri. Questa convinzione ha portato alla riesumazione della democrazia diretta, della politika intesa in senso ellenico, del mito dell’agorà — dello spazio civico in cui i cittadini si possono radunare informalmente per discutere, scambiarsi idee e impegnarsi in proficui rapporti, in vista di quell’assemblea popolare dove affrontare le questioni comuni allo scopo di arrivare all’accordo in forma diretta, faccia-a-faccia. Insomma, quella che i militanti anarchici più bolsi e tristi definiscono da anni «sfera pubblica non-statale».

Non è certo un caso che il termine greco di assemblea sia ecclesia. Se la più perfetta organizzazione dell’universo si può chiamare Dio, allora il nesso fra politica e religione si evidenzia. Meno evidente è la forza attrattiva che esercita su chi è intenzionato a sovvertire questo mondo da cima a fondo. La mostruosa aberrazione che induce gli uomini a credere che il linguaggio sia nato per facilitare e risolvere le loro reciproche relazioni li conduce a questi ritrovi collettivi, dove si discute su come affrontare le faccende della vita. Che poi queste faccende siano vissute in maniera diversa fra i presenti, che poi la discussione non possa essere paritaria finché non lo saranno anche le capacità dei partecipanti (chi conosce di più e parla meglio, domina l’assemblea), che poi la minoranza non abbia motivo di accettare la decisione della maggioranza… tutto ciò va fatto notare solo quando non si frequenta l’agorà. Appena vi si mette piede, magari sulla spinta degli eventi, le antiche perplessità si diradano; miracolo che si verifica tanto più facilmente se si scopre di possedere una buona “capacità oratoria”. Eppure, c’è chi persiste a considerare odioso questo sforzo di unire gli individui in una comunità, di fornire loro qualcosa da condividere, di renderli uguali. Perché gronda ipocrisia. La stessa ipocrisia che, dopo aver trascurato gli schiavi che permettevano agli antichi Greci di deliberare a getto continuo, dopo aver rimosso la plebe amorfa e anonima indegna di far parte del popolo, oggi si predispone a tralasciare il fatto che gli esseri umani possono aggregarsi a patto che rinuncino ai rispettivi mondi — mondi sensibili, privi di supermercati e autostrade, ma ricchi di sogni, pensieri, rapporti, parole, amori.

Nella ragione politica, come nella fede religiosa, predomina l’idea che l’uguaglianza sia data dall’identità, dalla comune adesione a una visione del mondo. Siamo tutti uguali perché tutti figli di Dio, o cittadini della Società. Mai viene considerata la possibilità opposta, che pure è affiorata nel corso della storia. Che l’armonia generale dell’Umanità possa nascere dalla divisione degli individui spinta all’infinito. Si è uguali o se si è tutti identici, o se si è tutti diversi. Nell’assemblea che accomuna tutti viene evocata la ragione — il Logos — attraverso la discussione. Parlando, ragionando, argomentando, ecco che i problemi si sciolgono come neve al sole, i conflitti si appianano, gli accordi si stringono. Ma quanti compromessi, quanta moderazione, quanto realismo sono necessari per arrivare ad un accordo comune, per scoprirsi all’improvviso tutti fratelli?

Così, dopo aver tanto criticato la convinzione che si possa risalire ad una scienza della trasformazione sociale, dopo aver affermato che non esistono leggi che presiedono agli avvenimenti sociali, dopo aver smentito l’illusione di un meccanismo storico oggettivo, dopo aver sgombrato il campo da tutte le pastoie che ostacolano il libero arbitrio, dopo aver cantato l’eccesso che ripudia ogni forma di calcolo, ecco che si ritorna a prendere in mano un metro con cui misurare i passi compiuti. Si contano i partecipanti alle iniziative, si controlla la copertura mediatica ottenuta, si fanno continue previsioni di bilancio. Evidentemente le passioni non erano poi così cattive, i desideri non erano così sfrenati, gli interessi non erano così distanti.

Né si capisce perché la democrazia diretta, da mediazione fra le diverse forze in campo che sorge nel corso di una rottura insurrezionale (come storicamente è stata), dovrebbe diventare ideale da realizzare qui ed ora in collaborazione con sindaci, assessori e politicanti vari messi alle strette dai cittadini delusi. La democrazia diretta è una falsa buona idea. Condivide con la sua sorella maggiore, la Democrazia in senso lato, il feticismo della forma. Ritiene che la maniera di organizzare una discussione collettiva pre-esista alla discussione stessa, e che questo metodo sia valido ovunque, in tutti i tempi, e per ogni genere di questione. Difendere la democrazia diretta, contrapporla — in quanto democrazia “reale” — alla “falsa” democrazia rappresentativa, significa credere che la nostra autentica natura possa essere infine rivelata se ci si libera delle costrizioni che ci gravano addosso. Ma liberarsi di queste costrizioni suppone una trasformazione tale che alla fine del processo noi non saremo più gli stessi, o meglio, non saremo più ciò che siamo in questa civiltà basata sul dominio e sul denaro. Non si può arrivare all’ignoto per vie note, così come non si può arrivare alla libertà attraverso l’autorità. Infine, anche ammettendo le possibilità d’instaurare una effettiva democrazia diretta, continuerebbe a sussistere un’obiezione: perché mai una minoranza dovrebbe adeguarsi ai voleri della maggioranza?

Chissà, forse è proprio vero che stiamo vivendo in un continuo e terribile stato di eccezione. Però non si tratta di quello decretato dal dominio nei confronti delle sue stesse regole — il diritto è una pura menzogna inventata dal sovrano, il quale non è affatto tenuto ad essere coerente con le proprie bugie — bensì quello dell’individuo nei confronti delle proprie aspirazioni. È non vivere come si vorrebbe vivere. È non affermare quanto si vorrebbe affermare. È non agire come si vorrebbe agire. È non amare chi si vorrebbe amare. È dover scendere, giorno dopo giorno, a compromessi con il tiranno che condanna a morte i nostri sogni. Perché qui non si tratta di vincere o di perdere (ossessione tipica del militante), ma di vivere la sola vita che si ha a disposizione e di viverla a modo proprio. Piccoli gesti e parole comuni possono tenere insieme fiumi di folle e piazze gremite: ma questi gesti, queste parole, possono essere cercati fuori da noi stessi solo per appagare un nuovo senso di appartenenza a una comunità? A meno che non si voglia dare carta bianca all’individuo solo per poi comunicargli che si tratta di carta igienica.

 

[da Machete n. 1, gennaio 2008]

 

Individuals or citizens?

 

[Worldless men] were and still are those who are forced to live in a world that is not their own, (…)

in a world for which they are present, on whose terms they are considered and used,

but whose models, aims, language and taste are still not their own, and are not granted to them.

Günther Anders

 

Worldless individuals, we are alone with ourselves. Our critics shake their heads before our meager results and scold us for our lack of willingness. But in the end, let’s admit it, one gets bored. Is it possible that there isn’t some small place in the sun for us as well? If many consider extremism an infantile disorder, it is by virtue of this banality: only in youth do we feel capable of refusing the world, this world that is not our own. When we are full of strength, with the entire future before us, we fear nothing, neither police charges nor sleeping under the stars, and so even less, disdaining compromises. In this perpetual childhood, everything seems possible and within reach. This is why we refuse to throw our life to the bookkeepers of survival. We love with passion, we hate with fury. And if this exuberance, this proud love of ourselves, has the consequence of exiling us with our solitude, so be it! But then as the years pass, something intervenes. Energy is used up, stockpiles are reduced, ammunition is lacking, we notice that we have very little within reach for confronting what is left of the future.

Meanwhile, the social winter advances, covering the landscape with frost. In some way, it is necessary to put forth a remedy. Then staying at the margin of this world is not so very comfortable; perhaps at times the heart warms up, not the bones. Community will even be a therapeutic place, curing and removing “deviance”, but that torpor within it, the guaranteed meals, the dry beds! And so, bit by bit, with almost unnoticed movement, we approach the polis. If earlier this world could not count on our sympathy, if earlier it drew all our hostility, now it can rely on our understanding: the critical eye has given way to the entranced gaze, the biting word has been replaced by persuasive discourse. And once one has entered the polis, it is necessary to lose all the old habits and acquire new ones. Life in community requires respect for schedules and good manners. It is necessary to know how to tolerate if one wants to be tolerated. It becomes indispensible to to avoid behaviors that might provoke public indignation and to close one’s eyes before the unwelcomed behavior of others. “The one who does is always right,” says a widespread commonplace. It is like maintaining that “the one who speaks is always right”. What is valued is not the intrinsic quality of the movement or speech, but their mere existence. And yet silence is revealed to be golden when you don’t know what to say: better to remain silent than to let yourself go on in endless, idiotic babbling. If this is so, then why fret so much when one doesn’t know what to do? Why dedicate oneself to activism, to this compulsory doing, to this constant, omnipresent mobilization, which, indeed, fills the emptiness of our existence, but without giving it a meaning that our own, that is autonomous, that bears the mark of the difference, the uniqueness, that stands at the origin of every true action?

The fact is that outside the philosophical fogs, there is a horror of the “creative nothing”, in which we do not see the opportunity for reaching our fullness, but only the promise of falling headlong into the void. Better then to trust in the perpetual motion of the urgency of things where there is no time to reflect on ends because it is necessary to think about how to organize means. Utopia is beautiful, but it really isn’t practical.

 

THE PRACTICE 

In France, it is called citizenism, a term that indicates a movement made up of a vast and multiform achipelago of associations, unions, collectives, press organs and political currents, whose aim is to fight for the restoration of “democracy betrayed”. The fact that our planet is at the end of its rope from the social, political, economic and ecological point of view, is now not hidden from anyone. The citizenists trace the cause of this situation back to a lack of respect for the “popular will” which–once it has fallen into the hands of politicians hungry only for power, in cahoots with businessmen greedy only for profit–would be disregarded, manipulated, denied.

Enemies of these politicians and businessmen (more than of the social system of which they are mere expressions), the citizenists are convinced that democracy–in its most genuine, roughest form–is effectively the best of all possible worlds and that it is possible to improve and moralize capitalism and the state, by opposing their obvious harmfulness and abuses effectively. But on two conditions: that this democracy expresses itself through a political rebirth that is modelled more after Pericles’ Athens than Machiavelli’s Florence, or with greater direct participation of the citizens, who should not just elect their representatives, but should also constantly act to put pressure on them so that they truly stick to what they were elected to do. This pressure can be exercized in the most varied manner, including those acts of “civil disobedience” that make the most loutish reactionaries spit venom and that cause so much admiration in the movement.

One could say, in a certain sense, that citizenism is born of disappointment. In its most reformist variant, disappointment about the distance that increasingly separates those who are sent to the Palace from those who remain on the streets. There are many respectable people–to be clear, those who are convinced that it is power that creates and safeguards freedom, that the market should be based on ethical principles or that the military should respect a moral code–that no longer feel that they are represented by a ruling class which is openly accused of forming a privileged caste, of being deaf to the interests of the common people, of being concerned only with maintaining their positions. These respectable people firmly believe in the state, in the necessity of the state, in the usefulness of the state, in the justice inherent to the state, but they are temporarily disappointed with it, holding that today it isn’t guided by competent, honest, upright, loyal politicians. This is the source of their distrust for professional politicians, parties or unions, while still not abandoning their search for someone who will meet their highest demands.

Feeling neglected, the citizenists find themselves constrained to go down into the streets to defend their “rights”. Their struggles always have precise objectives, are limited to saying a sharp NO to a specific state project that jeopardizes their health, without in the least wanting to call the social organization that produced it into question. They don’t concern themselves with radical moments, subversive tensions. They are honest citizens, not “hooligans” or “terrorists”. It goes without saying that, though they are ready to carry out formally illegal acts like street blockades, they are declared enemies of violence. They don’t support the truncheon of the riot cop that suppresses any more than the sabotage of the rebel who rises up. The only acts of force that they accept are the controlled, minimal, integrated ones that they occasionally carry out to draw the attention of the adversary, or rather of the authorities. The acts of force can sometimes even be quite spectacular, but that wouldn’t prevent the one who carries them out from competing in presidential elections in the future. In its less reformist variant, citizenism is the fruit of disappointment in a revolution whose historical project has been revealed as bankrupt. Despite different expressions, in its principles, this project aimed at a reappropriation of the capitalist means of production by the proletariat. In this perspective, the proletariat is seen as the authentic crator of social wealth, which is, nonetheless, is enjoyed exclusively by the bourgeoisie; to the proletariat the effort of sowing, to the bourgeoisie the fruit of the harvest. With such a premise, social change could only be considered as a mere suppression of the usurping class. Therefore, the expansion of the production forces was seen as a step forward on the road to revolution, going along with the real movement through which the proletariat was constituted as the future revolutionary subject that would have realized communism and anarchy. The bankruptcy of this perspective began to peek out in the first half of the twentieth century, with the defeat s of the revolutions in Russia, Germany and Spain. The final shock was the French may of 1968, which opened another decade of bitter conflict. The 1980s put an end to the last great assault on the heavens, marking the irretrievable decline and disappearance of this project of social liberation in conjunction with the restructuring of capital, which, through the introduction of automation, set up the end of the centrality of the factory and the myths linked to it. The orphans of proletarian revolution found a form of protest in citizenism that could console them in their mourning. Some of the ideas that circulate in it, like those about the “redistribution of wealth”, come directly from the old workers’movement that planned to manage the capitalist world on their own behalf. In such concepts, one can glimpse a return , a continuity and even a highjacking of former ideals by citizenism. This is what is called “the art of arranging the remains”.

Whether it is enlightened members of the bourgeoisie demanding more transparency in public affairs or disppointed proletarians wanting to fill the void left by the fall of the Berlin Wall, the fact remains that citizenists, incapable of having a unique thought, at least have a common thought: another state is possible. If in this vast cloud, it is possible to find so many minds, sometimes even in contradiction, it is because citizenism expresses an integrated form of protest that hopes to be able to put the malfunctions of the economic system back into balance or to readjust its drifts through greater citizen participation. In this way, citizenism manages to cut across party lines, keeping protest and collaboration together. The protest spurs the collaboration; the collaboration satisfies the protest.This explains its success and its certain future. It is the only mediation that allows you to obtain immediate “victories”, however partial, through coming to terms with the institutions. 

 

SOMETHING HAS BEEN LOST 

In Italy, citizenism took its first step in Val Susa, with the struggle against the high speed train (TAV). To tell the truth, the struggle aginst the TAV in the Piedmontese valley began more than ten years ago in a completely differetn way, with some acts of sabotage against the earliest construction sites. Small actions brought into the limelight of the newspapers with the arrest of those presumed responsible, three anarchists who later proved to be unconnected to the events. In the course of the investigation, two of them committed suicide. The clamor these events provoked at the time, sufficiently well-known that we don’t need to go over them, drew attention to the state project in Val Susa. This gave birth to a protest movement that–though it met with quite a bit of sympathy–remained limited, for the most part, to the militant milieu for several years. But starting in November 2005, when the real work on the TAV line began, this movement managed to break the dam, assuming a mass character. What happened in Val Susa provoked a general enthusiasm that led many to think that they had finally discovered the magic formula that merely had to be repeated in other contexts to get the same results. From this came the spread of committees, assemblies, popular initiatives against “harmfulness” that are filling the agenda of the movement throughout Italy. But what is behind all this unbridled activism that in July 2006 was coordinating in the Pact of Solidarity and Mutual Aid? The primary discourse is that of creating a “new” and “real” democracy, i.e., the citizenist discourse. The Pact is presented by many as a liberatarian text, but its text is a perfect example of a political document, marked by the ambiguity of those who have a foot in each camp in order to satisfy all palates (and if seeing that so many citizens have taken a step outside the institutions can only bring us joy, what are we to think of those rebels who, in solidarity, take a step into the institutions?). There are anarchists who exult in reading “The National Pact of Solidarity and Mutual Aid is certainly not an attempt to stealthily infiltrate into the politics of the palace, nor does it intend to get hosted in the palaces of politics. It has no friendly governments to which to look with trust. It has no parties to which to give a blank slate delegation, and it certainly has no intention of going down a road that would lead it to becoming a part itself”, without noticing that this merely affirms the cross-party and lobbyist nature of citizenism. Citizenists are balanced people, they don’t want to become a party, but rather to put a certain type of pressure on parties. They are well aware that fighting in the political arena is not exempt from unpleasant consequences. And the way to avoid this risk is to assume the form of a pressure group that is careful not to directly exercise power. This is why they cannot present “blank slate delegations”, since they don’t want to talk with a favored few. Anybody who listens to them may be okay. This is why it is pointed out immediately afterwards that the Pact “does not, for this reason, avoid politics and confrontation, and is able to distinguish those who operate with transparency from those who try to contain struggles. The model that it proposes is at the same time the only method that it is willing to accept; that of the active participation of citizens”. In fact, citizenists don’t avoid politics, not at all; they simply no longer want to be made fun of: clear understandings… Far from supporting abstentionism, they preach participation. So it is no accident if the anti-TAV protest in Val Susa is clearly still too rooted in the old world, if after having clashed with the forces of order and devastated the unborn construction sit at Venaus (a moment of rupture that later vanished in the pro-Val Susa narratives, which preferred to dwell on the more presentable popular assemblies), this protest later flowed into the ballot box where the high turnout at the polling stations recorded there in the last elections saw the triumph of the left that was most present. Thus, clashes and barricades (for now?) have not fueled the revolt against all parties, but has rather favored some of them.

And if the large presence of subversives in Val Susa has given the opposition a particularly lively color, the struggles that followed elsewhere mostly seem to be fed by the nonsense of the Grillo boys*. For example, in Vicenza, where the struggle against the expansion of the US military base is going on. The No to Molin Committees expressly state that they demand “respect for the Union** program” and are coming out against “the project that from the environmental point of view violates the directives already acknowledged by our regulation 2003/35/CE,” all in order to “promote change and affirm a new alternative project in defense of the values and common good of the collectivity”. Their nature as aspiring governors is such as to cause them to sponsor their initiatives under the aegis of “AltroComune” [“Other Municipality”–translator]. With such a premise, it is no surprise that these Committees, having designated themselves as the only legitimate representatives of the struggle against the US military base, have excommunicated the authors of some acts of sabotage that were carried out against the base last April. Distancing themselves from the acts was clearly not enough. Nor is it strange that any scum with an institutional pedigree gets invited into their paid campgrounds to babble in the name of democracy. Even less, one can get indignant if during the periodic protest marches that parade through the Paladin city, like the one of last December 15 [2007], they play the role of firefighters, coming to openly block demonstrators who intend to sabotage the expected walk. If anything, it is astounding that, after having maintained the No to Molin Committees (with a court-registered trademark!), published their initiatives, expressed their solidarity, spread their slogans–clearly having lost confidence in the possibility of an autonomous intervention in what is a struggle against the US military base and not the No to Molin struggle, which is merely the reformist expression of the larger struggle–is the hope to provoke a sudden radical “turn” with regard to their objectives (among which is the demand for a moratorium, whose principle has been valorized within the movement precisely by thePact of Solidarity and Mutual Aid, part of which will be translated below).

 

THE MISUNDERSTANDING 

As was already said, citizenism starts out as a political reaction from below to the so-called “crisis of representation”. A reaction that aims to overcome and cure this crisis through new forms of representation. From this point of view, it arises as a natural heir to the parties and unions in the recuperation of more radical and subversive tensions. But this doesn’t take away from the fact that the contexts in which it is manifested present elements of extreme interest, because they are potentially pregnant with favorable opportunities. The citizenist doctor appears where the political invalid is in the throes of agony. Its presence alone is a surefire indication of the opportunity for action. In fact, while the doctor is busy prescribing remedies, couldn’t one take advantage of the confusion to carry out a healthy euthanasia on this patient? So it is understandable that many subversives have decided to intervene in these situations of struggle with the intent of exploiting the occasions, of radicalizing citizenist objectives, of getting beyond them and making them face their contradictions. But how?

This problem has perhaps been underestimated. One hypothesis of this sort is a reposing of the old theory of “accidents along the way”. Even though a movement is born on reformist bases, it can always jump tracks and change course. After all, it has been noted time and again how banality has been the calling card of revolutions throughout history. This is certainly true, but… it isn’t a good reason to begin supporting banality. As to accidents along the way, historical experience teaches that subversives are often the ones to willingly suffer them. These subversive, frantic to take part in reformist movements with the aim of radicalizing them, have often ended up changing course themselves. And this is inevitable when one adapts to events instead of trying to force them by maintaining one’s ideas (at the risk of remaining at the margins of the “mass”). Unfortunately, this aspect leaps before our eyes now as never before. Laying aside individual insurrection, one now supports the direct democracy of the people, takes part in more or less massive political demonstrations that one used to call others to desert, hosts the academic professionals of separated knowledge, who one used to despise, in one’s intiatives. One is no longer proud of one’s qualitative difference, but of one’s quantitative identity. One no longer launches radical critiques with the intent of provoking conflict; instead one silences blasphemies to find harmony.

In Val Susa, for once, after such a long time, subversives weren’t chasing after the struggles of the “common people”, but rather the common people were joining with subversives in their struggle. The presence of the “masses” must have gone a bit to the heads of the subversives since, after they had maintained for years the necessity of keeping hold of the critical aspect in every situation of struggle with the aim of strengthening, in Val Susa this did not happen. Instead, the subversives allowed some conceptual corpses like “the people” and “direct democracy”, in their various ideological adulterations, to be put back in circulation.

And what is the people? It is an ensemble of subjects characterized by the will to live under a single legal system. The geographical element is not enough to define the concept of the people, which requires the consent to the same rights and a community of interests. The people is a political and historical identity, which has access to stories and memories, the right to commemorations, demonstrations and marble gravestones. The people is visible and speakable. structured in its organization, represented by its delegates, its martyrs and its heroes. It is no accident that its myth has been embraced by authorities of every stripe, or that it was abandoned decades ago by libertarians (at least by the less lobotomized ones). Its uninhibited exaltation in Val Susa has had the consequence of the immediate appearance of the syndrome of populism. Generally, this term is used to refer to any political formulation based on the premise that virtue resides in the people–considered as a homogeneous social aggregate, the sole agent of positive specific and permanent values–and in its collective tradition (Val Susa as land of the partisans…). In populism, often the rural element is predominant since those who have remained in contact with the land, with the mountains, look with some suspicion and hostility on those who live in an urban environment. Populism is ecumenical. It excludes any class conflict since it considers the people as a homogeneous mass. From the historical viewpoint, it tends to spread ideologically in periods of transition, as well as those of strong tensions between metropolis and province when processes of industrialization are going on, because they offer a reason for cohesion and at the same time for warning and coagulation. Populist formulas revive whenever a rapid mobilization of vast social sectors and an intense politicization outside of existing institutional channels is seen. The appeal to the regenerating force of myth is lurking even in the most articulate and complex society, ready to materialize in the moment of struggle. And the myth of the people is the most appealing and the most obscure at the same time, the most groundless and the most functional in the struggle for power.

All these characteristics are very much present in Val Susa, exploited by the many sides involved that don’t want to let the delicious occasion of a general mobilization with certain potentialities escape them. Even from the anarchist side, there are those who have not flinched, placing confidence in libertarian populism that knows its distinguished theorists and has its best expression in popular assemblies. Starting from Val Susa, the feeling has spread that every individual can have control over the decisions that determine the destiny of our society: it is enough to know how to discuss with others. This conviction has led to the revival of direct democracy, of politika in the Hellenic sense, of the myth of the agora–the civic space in which citizens can gather informally to discuss, exchange ideas and involve themselves in useful relationships, in view of those popular assemblies where they will confront the common questions with the aim of reaching agreement in a direct, face-to-face way. In short, what the flabbiest, sorriest anarchist militants have describes for years as “non-state public spheres”.

It is certainly no accident that the Greek word for assembly is ecclesia***. If the most perfect organization in the universe can be called God, then the link between politics and religion is emphasized. Less obvious is the attractive force it exercises over those who intend to subvert this world from top to bottom. The monstrous aberration that causes men and women to believe that language is born to facilitate and resolve their mutual relationships leads them to these collective gatherings,where they debate how to face the affairs of life. That theses affairs are experienced in different ways among those present, that the debate cannot be equal since capacities will not be equal (those who know more and speak better dominate the assembly), that the minority has no reason to accept the decision of the majority… all this gets noted only when one doesn’t frequent the agora. As soon as one sets foot there, perhaps prodded by events, old perplexities dissipate; a miracle that occurs much more easily if one discovers that he has a fine “capacity for oratory”. And yet there are still those who go on thinking that this effort to unite individuals into a community, to supply them with something to share, to render them equal, is odious. Because it is dripping with hypocrisy. The same hypocrisy that, after ignoring the slaves that allowed the ancient Greeks to deliberate non-stop, after removing the amorphous and anonymous plebeian unworthy of being a part of the people, is now prepared to overlook the fact that human beings can join together only if they renounce their respective worlds–sensitive worlds, without supermarkets and highways, but rich in dreams, thoughts, relationships, words and loves.

In political reason as in religious faith, the leading idea is that equality comes from identity, from common adherence to one vision of the world. We are all equal because we are all children of God, or citizens of Society. The opposite possibility, which has also cropped up in the course of history, is never considered. That general harmony of humanity might originate in the division of individuals pushed to infinity. Individuals are equal either when they are all identical or when they are all different. In the assembly that unites everyone, reason–the Logos–is evoked through discussion. Speaking, reasoning,arguing, this is where problems melt like snow in the sun, conflicts are settled, agreements are made. But how many compromises, how moderation, how much realism are necessary to reach a common agreement, to suddenly discover we are all brothers?

Thus, after having so thoroughly criticized the conviction that one can return to a science of social transformation, after having affirmed that there are no laws that control social events, after having refuted the illusion of an objective historical mechanism, after having cleared the field of all the fetters that get in the way of free will, after having sung the excess that repudiates every form of calculation, one goes back and takes a yardstick in hand to measure the steps carried out. The participants at initiatives get counted, the media coverage received is controlled, continuous forecasts of the balance are made. Clearly then, the passions were not so wicked, the desires were not so wild, interests were not so distant.

Nor is it understood why direct democracy, as a mediation between various forces in the field that arises in the course of an insurrectional rupture (as has happened historically) should become an ideal to realize here and now in collaboration with various mayors, local authorities and politicians put on the spot by disillusioned citizens. Direct democracy is a sham good idea, It shares with its big sister, Democracy in the broad sense, the fetishism of form. It holds that the manner of organizing a collective pre-exists the discussion itself, and that this method is valid everywhere, at all times, and for every kind of question. Defending direct democracy, counterposing–as “real” democracy–to “false” representative democracy, means believing that our authentic nature can finally be revealed when it liberates from the constraints that weigh on us. But being liberated from these constraints supposes a transformation such that at the end of the process we will no longer be the same, or better, we will no longer be what we are in this civilization based on domination and money. The unknown cannot be reached by known routes, just as freedom cannot be reached through authority. Finally, even in accepting the possibilities of establishing an effective direct democracy, there would still be an objection: why should a minority ever adapt itself to the desires of the majority? Who knows, perhaps it is true that we are living in an ongoing and terrible state of exception. However, it is not the one decreed by power in the face of its own rules–rights are a pure lie invented by the sovereign who is not held to be consistent with this lie–but rather that of the individual in the face of his own aspirations. It is not living as one would like to live. It is not saying what one would like to say. It is not acting as one would like to act. It is not loving who one would like to love. It is having to lower oneself, day after day, to compromises with the tyranny that condemns our dreams to death. Because here it is not about winning or losing (a typical obsession of militants), but of living the only life one has available, and living it in one’s own way. Small gestures and common words can hold crowds and crowded streets together, but can we only seek these gestures, these words, outside ourselves to satisfy a new sense of belonging to a community? Not unless we want to give the individual a blank check, only in order to later let them know that it was really toilet paper.

___________________________

* The Grillo boys are similar to Michael Moore–translator

** The old name of the Democratic Party of Italy, before the Rifondazione Communista split off–translator

*** Which also means “church”, hence, the word “ecclesiastical”.–translator

_______________________________

EXCERPT FROM THE “NATIONAL PACT OF SOLIDARITY AND MUTUAL AID”:

 

At the end of the Venuas-Rome NO-TAV Caravan, the Committees, Networks, Movements and Groups assembled here in the room of the Protomoteca of the Municipality of Rome, on this day of July 14, 2006, in common agreement, determine to create a PERMANENT NATIONAL NETWORK AND A NATIONAL PACT OF SOLIDARITY AND MUTUAL AID in order to affirm in our country:

 

  • The right to precautionary information and active participation of the citizens with regard to every intervention that wants to operate on the territory on which they live, sharing the common goods (water, air, land, energy);
  • The use of systems of promotion and consumption that valorize territorial resources, minimize environmental impact and the movement of merchandise and people, and that are not based on exploitation, particularly of the South of the world.
  • The beginning of a national moratorium on the carrying out of large public works and on the localization of energy plants […here I left out a list of specific types of energy plants, because I couldn’t find translations for most of the Italian words in any of my dictionaries…] both due to the lack of a national energy plan and to prevent the business logic of the few from devouring the resources of the many.
  • The urgency of the cancellation of the Objective Law, the Environmental Proxy Law, the Central Release Law, Green Certifcates for incinerators and the radical modification of the Design Law on Energy.

 

On these bases, we are giving life to a National Coordination (with website and e-mail) constituted of a representative from every participating otganization and we invite all other Committees, Networks, Movements and Groups to join together in this National Pact of Solidarity and Mutual Aid.

 

[http://apioludd.blogspot.com]