Al centro del vulcano (it/en/fr)

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Dominique Miséin

Per quanto messa a dura prova dalle molteplici catastrofi che incombono sull’essere umano, resiste ben radicata nella sua testa la convinzione che tutta la Storia si sia svolta seguendo un percorso progressivo, se non proprio regolare, quanto meno costante. L’evoluzione non può essere una bizzarra opinione, se è vero, come è vero, che usciti dalle caverne siamo arrivati a navigare nello spazio. Oggi è meglio di ieri — e peggio di domani. Ma qual è stato il punto di partenza di questa irrefrenabile corsa? Uno dei padri dell’antropologia culturale, L. H. Morgan, nel suo studio sulle linee del progresso umano dallo stato selvaggio alla civiltà, divide la storia dell’umanità in tre stadi: lo stadio primitivo, lo stadio della barbarie e quello della civiltà. Morgan sostiene che quest’ultima ha avuto inizio con l’invenzione di un alfabeto fonetico e con la diffusione della scrittura.

«In principio era il Verbo», recita la Bibbia. È stato il discorso ad aver facilitato il cammino dell’uomo, consentendogli di congetturare, argomentare, ribattere, discutere, accordarsi, concludere. Senza il discorso la torre di Babele della comunità umana non potrebbe essere stata costruita. Nella forza persuasiva della parola si manifesta la Ragione, la quale diventa così la tecnica della creazione e del governo del mondo, facendo in modo che gli esseri umani non si distruggano a vicenda ma trovino un’intesa nel modo ritenuto migliore. E la Ragione, come diceva un saggio romano, è la sola cosa per cui «ci differenziamo dai bruti».
Anche Dante usava lo stesso vocabolo per indicare gli animali non razionali, bestie o esseri umani che fossero: «manifesto è che vivere ne li animali è sentire — animali, dico, bruti — vivere ne l’uomo è ragione usare». Gli uomini infatti possono anch’essi comportarsi come «bruti», quando rinunciano a seguire quelle prerogative che per il poeta toscano sono tipiche dell’essere umano e ne costituiscono la grandezza, vale a dire la libera volontà e la ragione. In effetti tutta la filosofia insegna che l’uomo è diverso dall’animale perché dotato di ragione. Se egli si limitasse alla soddisfazione dei propri bisogni fisiologici nulla lo separerebbe dal resto della fauna, e la vita su questo pianeta sarebbe ancora ferma alle condizioni della preistoria. Ma così non è. E la sua modificazione, cioè il processo evolutivo, viene vista come un’ascesa. L’uomo ora cammina eretto e sfida il cielo, mentre gli animali per lo più continuano a radere il suolo. Ecco perché si ritiene che gli animali abbiano come guida l’Istinto — che li porta a conservarsi e a cercare ciò che è immediatamente vantaggioso —, considerato alla bassezza del ventre. Mentre gli uomini hanno come guida la Ragione — che li porta a perseguire il giusto e l’utile — che ha sede all’altezza della testa.
E la Ragione, dicevano gli antichi greci, è comune a tutti e universale. La Ragione è quindi Una. Ma chi la detiene? E, soprattutto, cosa accade se qualcuno si ostina a non volerla seguire perché possiede altre ragioni a cui non intende rinunciare? Se la ragione si manifesta attraverso il discorso, cosa succede quando non troviamo parole per esprimere ciò che ci anima? Il mondo in cui viviamo è un universo talmente chiuso in sé, capace di accettare soltanto ciò che rientra nei suoi schemi conoscitivi e normativi, che non può tollerare ciò che gli sfugge e finisce col relegarlo nell’ambito della follia, della barbarie, dell’utopia irragionevole.
Anche la critica sociale — intesa non solo nelle sue mere espressioni teoriche, ma pure nelle sue realizzazioni pratiche — ha conosciuto una propria brutalità, uno stadio in cui la lotta contro l’ordine sociale provocata dalla insoddisfazione per la propria misera condizione non si è manifestata in maniera articolata, attraverso un’azione progettuale, assumendo piuttosto la forma di rivolte sporadiche, prive di motivazioni teoriche e che miravano solo ad una soddisfazione immediata. Per dirla in altre parole, quando il vaso traboccava si scatenava una violenza cieca che, se era in grado di identificare il nemico da colpire, non era altresì capace di esprimere le proprie ragioni. Anche per questo, appena sbollita la rabbia la situazione tornava alla normalità. E, come per l’uomo, anche per la critica sociale è possibile indicare un momento a partire dal quale l’istinto lascia il posto alla ragione.
Nella prima metà dell’Ottocento si assiste all’ultima grande rivolta “insensata” (il luddismo) e all’affacciarsi di quel progetto politico che, pur conoscendo illustri predecessori, avrà bisogno dell’intervento di Marx e di Engels per svilupparsi pienamente. Il 1848 non fu solo l’anno dei grandi sconvolgimenti sociali che attraversarono tutta l’Europa, ma anche l’anno in cui vide la luce il Manifesto del partito comunista. Il desiderio di trasformare il mondo esce dalle caverne, stempera di molto anche i propri connotati mistici e idealistici, tipici dei millenaristi e dei socialisti utopisti, per acquisire una propria razionalità e diventare scienza sociale. Non a caso Engels, nella prefazione al Manifesto scritta per l’edizione inglese del 1888, definirà i movimenti sociali radicali antecedenti il 1848 sostenitori di «un tipo di comunismo grossolano, appena abbozzato, puramente istintivo».
La lotta per la libertà, persuasa della fatuità degli scatti inconsulti dell’odio, elabora un proprio programma, una propria strategia, e inizia a propugnare la sovversione dell’intera società e la sua riedificazione su altre basi. Nasce il comunismo scientifico, con tutte le sue varianti, e nasce anche il movimento anarchico. Per un secolo e mezzo, comunisti autoritari e anarchici hanno visto nella presa di coscienza la condizione fondamentale di ogni cambiamento sociale. Se gli autoritari hanno preteso di imporre questa coscienza dall’alto delle proprie organizzazioni politiche a un proletariato che ne era sprovvisto, gli anarchici hanno tentato di farla sorgere spontaneamente, attraverso la propaganda o l’esempio. A questo scopo sono stati diffusi milioni di scritti — sotto forma di giornali, riviste, libri, opuscoli, volantini, manifesti — sono state organizzate conferenze, manifestazioni, iniziative, costituiti comitati e associazioni; per non parlare di tutte le lotte di stampo sociale e delle azioni individuali e collettive realizzate contro le istituzioni. Nel cuore di ogni rivoluzionario c’era assai più di una speranza. C’era la certezza che tutta questa attività avrebbe portato, presto o tardi, al risveglio negli sfruttati di quella Coscienza che avrebbe reso possibile infine la rivoluzione. La ragione della Libertà — ritenuta anch’essa una, comune a tutti e universale — avrebbe preso il posto della ragione del Potere, che ne usurpava la legittimità.
Oggi sappiamo che questo processo determinista è stato solo una illusione. La Storia non va ineluttabilmente da nessuna parte. E comunque sia, il potere non è rimasto a guardare. Se un tempo, al solo sentire la parola “sciopero”, gli sfruttati si sentivano toccati; se in ogni città, paese, fabbrica o quartiere, si riunivano tra di loro perché la vita stessa era vita collettiva di classe; se per molti anni la vita degli oppressi aveva compreso la discussione quotidiana delle condizioni d’esistenza e di lotta; se ovunque e nonostante l’eterogeneità di quella coscienza di classe, si discuteva della necessità di distruggere il capitalismo, di costruire una nuova società senza sfruttati né sfruttatori; è innegabile che, nel corso di questi ultimi decenni, tutto ciò sia scomparso assieme al tanto temuto “proletariato” — considerato in quanto classe, visione del mondo contrapposta a quella del Capitale.
Non a caso. Il capitale si è applicato per arrivare a costruire una società ideale in cui non esista più il nemico, ma dove vivano solo dei produttori-buoni-cittadini e, possibilmente, degli umanoidi capaci di ri-produrre la società senza porre domande. Di fronte al pericolo rappresentato dalla ragione rivoluzionaria, una folta schiera di cortigiani — filosofi, artisti, scrittori, linguisti, sociologi, psicanalisti, storici — si è prodigata per prosciugare ogni forma di significato. La “fine della Storia” insegna che non c’è più un avvenire sul quale si possa pretendere di aver presa; l’istante, questa pulsazione artificiale, astratta e disinserita dalla durata, viene innalzato al rango di istanza suprema. In un tempo senza spessore la cosa soccombe sotto l’apparenza, il contenuto arretra davanti alla forma vuota, la scelta cede all’automatismo, l’individuo abdica alla propria autonomia. In questo modo ci si ritrova a sguazzare nel vuoto prepotente dei manifesti pubblicitari che rendono l’Assenza qualcosa di attraente. Sola a resistere e ad amministrare è rimasta la ragione di Stato, l’unica che i chierici del postmodernismo non si sono mai sognati di mettere in discussione.
In questa maniera il dominio ha voluto cancellare preventivamente le ragioni dei rivoltosi. E non soltanto le grandi ragioni — il Comunismo o l’Anarchia — ma anche quelle più piccole e semplici, quelle che contrassegnavano la vita quotidiana di ogni sfruttato permettendogli di non ignorare cosa voleva e perché lo voleva, rendendolo capace di distinguere il ricco dal povero, il poliziotto dal prigioniero, la violenza dello Stato da quella del ribelle, la carità dalla solidarietà. Ma, se l’intento era di porre fine per sempre alle ribellioni, allora qualcosa non ha funzionato. Le rivolte continuano a scoppiare. Ciò che le caratterizza è il fatto che non esiste una progressione quantitativa visibile prima dell’esplosione, la misura diventa colma senza essere preceduta da grandi lotte parziali. La loro scintilla non è la promessa di una futura libertà ma la consapevolezza di una odierna miseria, quando non economica di certo emozionale. Ora la rivolta non ha più ragioni da avanzare, non ha rivendicazioni da vedere esaudite, è senza un obiettivo preciso ed esplicito e raramente propone qualcosa di pro-positivo. Il punto di partenza è una negazione generale nella quale si mescolano aspetti economici, politici, sociali e di vita. Ora la rivolta si caratterizza con l’azione violenta e decisa degli insorti che occupano la strada e si scontrano violentemente con tutti gli organi dello Stato, e anche fra di loro. Siamo alla soglie della guerra civile, siamo già nella guerra civile.
Il fatto stesso che la rivolta possa assumere la forma di una deflagrazione imprevista determina un elemento di forza importante: l’effetto sorpresa. Il vecchio arsenale socialdemocratico riformista è disarmato di fronte all’azione degli insorgenti. Il sindacalismo stesso si trova completamente incapace di rispondere e di inquadrarne la violenza. Gli assistenti sociali e in generale tutti gli agenti statali di mediazione sociale si ritrovano completamente superati. L’assenza di rivendicazioni precise rende ancora più ardua la loro opera di recupero, e a tutti costoro non resta altro da fare che deprecare quello che non esitano a definire «autismo degli insorti». Ma non sono soltanto i consiglieri del re a rimanere costernati. Anche i rivoluzionari, usi da anni a ripetere e a ripetersi che la rivoluzione «non ha nulla dell’esplosione di un barile di polvere», si ritrovano spiazzati, presi alla sprovvista. Come ragionare con chi non ha ragioni? Come discutere con chi non ha parole? La rivolta può essere feroce, non è in grado di fare distinzioni che necessitano di un’analisi. Chiunque di noi potrebbe trovarsi al posto di quel camionista che nel corso della rivolta di Los Angeles nel 1992 è stato picchiato, preso a sassate e a fucilate.

Il gallo, costretto nell’angustia della stalla, attorniato dai cavalli,
e nessun altro giaciglio essendo sotto mano, era costretto a cercare
precario posatoio sull’insidioso pavimento; coi cavalli scalpiccianti tutt’intorno,
e in serio pericolo per la sua fragile vita, il galletto rivolge il seguente saggio invito:
«Vi prego, gentiluomini, cerchiamo di tenerci ben saldi sulle zampe;
ho il timore che, altrimenti, potremmo calpestarci l’un l’altro»

Con la lanterna della nostra coscienza più o meno critica ci aggiriamo nel vano tentativo di illuminare la notte nera che oggi ci avvolge. Tutti i testi che abbiamo letto si stanno dimostrando insufficienti, incapaci di fornirci un filo che ci aiuti ad uscire da questo labirinto. Quando i fatti quotidiani ci si parano davanti, non siamo più in grado di decifrarli. In giro per il mondo le rivolte continuano a scoppiare, ma del loro manifestarsi non c’è traccia nei nostri manuali. Così, quando seguendo il suggerimento di una ragione infarcita di nozioni libresche arriviamo a denigrare la cattiva insurrezione in Albania e ad applaudire la buona rivolta di Seattle, non facciamo cosa poi tanto diversa dal gallo della favola: consigliamo a tutti di tenersi ben saldi. Finalmente una rivolta come si deve! Che tutti gli insorti del mondo ne traggano esempio!
In questo modo dimostriamo ancora una volta come l’esigenza avanzata dai rivoluzionari nel corso della storia sia sempre stata quasi esclusivamente di tipo logico, cioè normativo. E la norma, la ragione coerente con se stessa, fa di tutto per obbligare la realtà ad adeguarsi ad essa. Ma la realtà vi si sottrae, perché nessuna ideologia è in grado di esaurirla. Malgrado le nostre migliori intenzioni, nulla ci assicura che la rivolta di Seattle diventi un modello. Di fatto, sembra che il vento tiri da tutt’altra parte.
Per anni abbiamo sostenuto la virtù della Ragione come unica guida delle nostre azioni, ed ora ci ritroviamo con poco o nulla in mano. Alla ricerca di una via di fuga dall’assurdo che minaccia le nostre esistenze, è difficile resistere alla tentazione di invertire la rotta e volgere la nostra attenzione verso ciò che solitamente viene considerato agli antipodi della ragione, ovvero la passione. Dopo tutto, c’è già stato chi ha fatto della riscoperta delle passioni una delle armi più pericolose nell’assalto contro il mondo dell’autorità e del denaro. Possiamo rispolverare dalle nostre biblioteche i vecchi testi di Bakunin e di Cœurderoy, gli anarchici che nel secolo scorso esaltarono lo «scatenamento delle cattive passioni» e la «rivoluzione ad opera dei Cosacchi».
Prestiamo ascolto alla voce dirompente di Cœurderoy: «…non abbiamo speranze che nel diluvio umano; non abbiamo avvenire che nel caos; non abbiamo risorse che in una guerra generale che, mescolando tutte le razze e spezzando tutti i rapporti stabiliti, leverà dalle mani delle classi dominanti gli strumenti d’oppressione con cui esse vìolano le libertà acquisite al prezzo del sangue. Instauriamo una rivoluzione nei fatti, trasfondiamola nelle istituzioni; che essa sia inoculata attraverso la spada nell’organismo delle società, in modo che non gliela si possa più togliere! Che la marea umana salga e debordi! Quando tutti i diseredati saranno presi dalla fame, la proprietà non sarà più una cosa santa; nel fracasso delle armi, il ferro risuonerà più forte del denaro; quando ciascuno combatterà per la propria causa, nessuno avrà più bisogno d’essere rappresentato; in mezzo alla confusione di lingue, gli avvocati, i giornalisti, i dittatori dell’opinione perderanno i loro discorsi. Tra le sue dita d’acciaio, la rivoluzione spezza tutti i nodi gordiani; essa è senza accordo con il Privilegio, senza pietà per l’ipocrisia, senza paura nelle battaglie, senza freno nelle passioni, ardente con i suoi amanti, implacabile con i suoi nemici. Per Dio! lasciamola dunque fare e cantiamo le sue lodi come il marinaio canta i grandi capricci del mare, suo signore!».
Reclamare il caos dopo che per anni si è tentato inutilmente di mettere ordine. Esaltare la barbarie dopo che per tanto tempo l’abbiamo identificata con il capitalismo. Potrà anche sembrare contraddittorio, ma così facendo non ci sentiamo forse maggiormente vicini alla meta?
Eppure, a ben pensarci, è singolare che per avanzare la tesi che vuole nella barbarie non solo ciò che più ci incute timore, ma anche una possibilità su cui scommettere, si debba far ricorso a tali precursori. Come se ci sentissimo in difetto, quindi bisognosi di trovare nuove giustificazioni dietro cui nascondere dubbi e insicurezze. Ma allora, a cosa è servito darci da fare ad analizzare le profonde modificazioni subite dalla struttura sociale, illustrare la ristrutturazione tecnologica del capitale, gettare negli occhi la polverizzazione del sistema produttivo, prendere atto della fine delle grandi ideologie, arginare il declino del significato, piangere sulla riduzione del linguaggio, eccetera eccetera? Ragione dopo ragione, analisi dopo analisi, citazione dopo citazione, non abbiamo forse fatto altro che innalzare un ennesimo muro invalicabile, in grado di proteggerci, se non dalla realtà esterna, quanto meno da noi stessi.

“Se la ragione è una bussola, le passioni sono i venti.”
Alexander Pope

In realtà siamo vittime di un grande inganno, da noi stessi architettato, quando ci appropriamo delle tesi di un Bakunin e di un Cœurderoy per alleviare il bruciore lasciato dalla delusione per il tracollo di ogni grande progetto sociale. Non teniamo nell’opportuna considerazione che quegli anarchici non sono nostri contemporanei, non hanno assistito al crollo del muro di Berlino, non hanno vissuto nell’era di Internet. Riproponiamo le loro idee, ma evitiamo di riflettere sui motivi che li hanno spinti — in un contesto storico del tutto differente da quello in cui stiamo oggi vivendo — a riporre le proprie speranze di una radicale trasformazione sociale, non nell’adesione a un programma ideale, ma nell’irruzione selvaggia delle forze più oscure dell’essere umano. Così possiamo tralasciare di porci troppe domande sul perché — come diceva Cœurderoy — «la rivoluzione sociale non si può più fare attraverso una iniziativa parziale, attraverso la via semplice, attraverso il Bene. Bisogna che l’Umanità si salvi attraverso un sollevamento generale, attraverso un contraccolpo, attraverso il Male».
Meglio rivestire con nuovi panni le antiche certezze, anziché sbarazzarcene. Meglio guardarci nello specchio che riflette l’immagine di un individuo civilizzato e pensare che dentro, però, sta in agguato un barbaro libero e selvaggio che aspetta solo l’occasione propizia per manifestarsi. Se non si può più fare affidamento nella virtù del progresso, meglio giurare sull’effettiva natura genuina e spontanea dell’individuo, sul quale la civiltà ha sovrapposto nel corso dei secoli le proprie volgari convenzioni sociali. Ma non è anche questa una proiezione ideologica, una specie di versione aggiornata del sol dell’avvenire che prima o poi spunterà come per incanto dietro l’altura? E il problema non consiste solo nel sapere se ancora esista una natura umana incontaminata dalla televisione che possa essere riscoperta, o se l’inconscio umano possa venire bonificato dai veleni del Capitale.
In effetti, malgrado le apparenze, le tesi di Bakunin e di Cœurderoy sono il frutto di un ragionamento perfettamente logico. Il fine da raggiungere determina i mezzi da utilizzare. Se il nostro scopo fosse una ridistribuzione delle carte da gioco, i mezzi da impiegare potrebbero ben essere sorretti da argomentazioni ragionevoli. A turno, capita a tutti di tenere il banco. Ma, se il nostro obiettivo è di mandare all’aria il gioco stesso, con tutte le sue regole, le sue carte e i giocatori che vi prendono parte, allora le cose cambiano. In altre parole, se i nostri desideri si limitassero alla sostituzione di una classe dirigente, al ripristino delle aree dismesse, a un calo dei prezzi, a una riduzione del tasso d’interesse bancario, a una maggiore aerazione delle celle carcerarie e a quant’altro ancora, rimarremmo nell’ambito delle possibilità ragionevoli. Se invece vogliamo mettere fine al mondo così come lo conosciamo, col conseguente ingresso in un mondo fantastico tutto da immaginare, allora siamo di fronte a un progetto considerato impossibile, straordinario, sovrumano, che per essere realizzato richiede mezzi impossibili, straordinari, sovrumani. Una rivolta pesata sulla bilancia della convenienza, con l’occhio attento ai pro e ai contro in ogni suo passo, è sconfitta in partenza perché non può che giungere fino a un certo punto per poi arrestarsi. Dal punto di vista della logica, è sempre meglio trovare un compromesso che combattere. Non è ragionevole che uno sfruttato si ribelli alla società perché ne verrebbe sopraffatto. La barricata avrà anche il suo fascino, ma inutile nascondere che in molti vi troveranno la morte. E nessuno sa in anticipo nel petto di chi si fermerà la pallottola.
Come sole alleate restano quindi le passioni, quelle cattive passioni cui tutto è possibile, anche l’impossibile. Bakunin e Cœurderoy lo avevano capito. Non si può fare la rivoluzione col buon senso. Solo la passione è in grado di travolgere l’animo umano, di trasportarlo verso mete impensabili, di armarlo di forza invincibile. Solo individui che sono andati “fuori di testa”, su cui la ragione non esercita più alcun controllo, sono in grado di compiere le imprese eccezionali necessarie alla demolizione di una autorità secolare. Come si vede, non si tratta di convertire più persone possibile a un ideale ritenuto giusto, ma di accenderle poiché — come amava ripetere un vecchio anarchico — «è cosa ordinaria che il popolo partecipi assai le qualità del carbone: massa incomoda e sordida se spento; luminosa e ardente se acceso».
Ma la foga della passione non dura a lungo, è momentanea, proprio come le attuali rivolte. È un’ebbrezza che spinge fuori di sé, ma che al mattino successivo si smaltisce. Se ne può dedurre che, se la sola ragione non è in grado di guidarci verso la libertà, nemmeno la sola passione lo è. Del resto, nessuno lo ha mai preteso. Siamo qui di fronte agli strascichi di un equivoco che si verifica quando si oppone una passione presumibilmente irrazionale a una ragione presumibilmente fredda, generando un’antitesi che nella realtà non esiste. Perché la passione, lungi dall’essere precipitosa e irriflessiva, per raggiungere il proprio scopo è ben capace di prendere tempo e darsi una prospettiva. Così come le acrobazie della ragione molte volte non fanno altro che giustificare a posteriori il frutto delle nostre passioni. Forse nulla come l’opera di Sade, con il suo continuo concatenamento di scene orgiastiche e di ragionamenti filosofici, ha dimostrato come logica e passione si completino, si compenetrino e si contengano a vicenda. Bussola e venti sono entrambi indispensabili. Quale che sia il viaggio che si intende intraprendere, non si può fare a meno né dell’una né degli altri. Per questo Bakunin invocava sì il furore, ma parlava anche della necessità di un “pilota invisibile”. Ora piuttosto il punto è che non è possibile pilotare una tempesta. La si può solo subire.

“La rivoluzione violenta che sentivamo crescere da qualche anno,
e che personalmente avevo tanto desiderato, passava sotto le mie finestre, sotto i miei occhi.
E mi trovavo disorientato, incredulo. (…) I primi tre mesi furono i peggiori.
Come molti altri, ero ossessionato da quella tremenda mancanza di controllo.
Io, che avevo desiderato con tutte le forze la sovversione, il rovesciamento dell’ordine stabilito,
proprio io, adesso, al centro del vulcano, avevo paura…
detestavo le esecuzioni sommarie, il saccheggio, tutti gli atti di banditismo…
ero dibattuto come sempre fra l’attrazione teorica e sentimentale
verso il disordine e il bisogno fondamentale d’ordine e pace.”

Luis Buñuel

Contro la tempesta, contro il caos e le forze primordiali della barbarie, non scende in campo solo l’uomo politico ed economico, preoccupato per la stabilità del mercato elettorale e di quello dei beni, ma soprattutto l’uomo etico. Ripudiare le norme sociali, abbandonarsi agli istinti, significa ricadere nelle tenebre della ferinità fino a resuscitare gli orrori dell’orda primordiale. La civiltà, dunque, non può che essere Ragione, Ordine, Legge, e non necessariamente quelli decretati dallo Stato. I compagni di Bakunin, a Lione, non mancarono di rinfacciarglielo. Uno di questi ricorderà come fra di loro fossero scoppiati contrasti «la cui causa principale era la grande teoria di Bakunin sulla necessità di lasciare manifestarsi e rumoreggiare liberamente tutte le passioni, tutti gli appetiti, tutte le collere del popolo in rivolta, scatenato, libero dalla museruola». In particolare c’era chi «non vedeva di buon occhio questa possibile alluvione delle violenze della bestia umana» e «condannava ogni sorta di crimini e abomini, che darebbero alla rivoluzione sembianze sinistre, ruberebbero la grandezza dell’idea sotto la bruttezza degli istinti, sollevando contro tutti quelli che hanno a cuore l’amore per le grandi cose e la cui coscienza ha il senso del giusto e del bene». Come è possibile — egli si chiedeva — «che uomini che rappresentano l’idea dell’avvenire possano avere il diritto di sporcarla col contatto delle più antiche barbarie che le civiltà più elementari cercano di frenare»?
Le osservazioni di questo compagno di Bakunin hanno fatto molta più strada delle tesi del rivoluzionario russo. Prova ne sia l’oblio in cui queste ultime sono state relegate assieme a quelle di Cœurderoy. La barbarie non può aprire la porta alla libertà, ricordano quegli uomini etici che, per lo più, sono i medesimi che in altre occasioni hanno avuto modo di affermare che la guerra produce la pace, il ricco mantiene il povero, la forza garantisce l’uguaglianza. Ma cosa può aprire la porta alla libertà? Forse l’espansione dei mercati? L’aumento del numero dei partiti? Il consolidamento delle forze dell’ordine? Una migliore educazione scolastica? Lo sciopero generale? Una organizzazione rivoluzionaria con milioni di iscritti? Lo sviluppo delle forze produttive? E perché mai, se non per rispetto di quel meccanismo determinista che si considera motore della storia? D’altronde, è mistificatorio dipingere una situazione di anomia — vale a dire di assenza o forte indebolimento delle norme che regolano la condotta degli individui — con le tinte più fosche. Che dentro l’individuo si celi naturalmente un mostro pronto a fare scempio di innocenti è tutto da dimostrare. In realtà si tratta solo di una ipotesi — confermata quanto smentita dalle esperienze storiche — diffusa per avvantaggiare chi le regole le stabilisce e le impone. Tuttavia, se anche così fosse, si può forse decidere a priori quale direzione assumerà una situazione di anomia?
Un marinaio che canta la forza del mare, è improbabile che con ciò esalti la bellezza del naufragio. Allo stesso modo, riconoscere il ruolo svolto in ogni processo di trasformazione sociale dalle passioni, anche da quelle più oscure, non significa fare l’apologia dello stupro, del bagno di sangue, del linciaggio. Ogni rivoluzione ha conosciuto i suoi eccessi, inutile nasconderlo. Questo però non significa né rinunciare a una rivoluzione per paura che questi si verifichino, come hanno sempre preteso le cosiddette anime belle, né prendervi allegramente parte. Che il popolo scateni pure le proprie cattive passioni, troppo a lungo represse. In ciò, difficilmente i rivoluzionari saranno al suo fianco. Si presume infatti che abbiano ben altre cose da fare che barricarsi in casa o perdersi in mezzo al marasma urlante. Anche in mezzo alla tempesta, il marinaio che sa dove vuole andare ha sempre l’occhio sulla bussola e la mano sul timone. E nel cuore la speranza di poter sfruttare per quanto è possibile la forza delle acque per arrivare a destinazione, e di aver predisposto la propria imbarcazione perché resista all’urto dei marosi. Senza nessuna certezza di salvezza, naturalmente, ma senza nemmeno rinunciarvi anticipatamente.
Le riflessioni di Bakunin e di Cœurderoy — che qualcuno definirebbe di carattere metastorico e che come si è visto non hanno riscosso molto consenso fra i rivoluzionari — hanno trovato un insolito sostegno nelle conclusioni a cui sono giunti alcuni studiosi del comportamento umano. Quando Bakunin parla della rivoluzione come di una festa i cui partecipanti sono in preda all’ebbrezza («gli uni di folle paura, gli altri di folle estasi») e dove sembra «che il mondo intero fosse capovolto; l’incredibile era diventato familiare, l’impossibile possibile, ed il possibile ed il familiare insensati», ciò va preso alla lettera.
Ad esempio, Roger Caillois nel suo saggio che analizza il significato che la festa ha avuto nei diversi tipi di società umane, parla del «contagio di una esaltazione… che incita ad abbandonarsi senza controllo agli impulsi più irragionevoli». Definitala una «esplosione intermittente», lo studioso francese spiega come la festa «appare all’individuo come un altro mondo, dove egli si sente sostenuto e trasformato da forze che lo superano». Il suo scopo è quello di «ricominciare la creazione del mondo». «Il cosmos è uscito dal caos» — scrive Caillois — secondo il quale l’essere umano guarda con nostalgia a un mondo che non conosceva la dura necessità del lavoro, dove i desideri erano realizzati senza che si ritrovassero mutilati da qualche proibizione sociale. L’Età dell’Oro risponde a questa concezione di un mondo senza guerra e senza commercio, senza schiavitù e senza proprietà privata. «Ma questo mondo di luce, di gioia serena, di vita facile e felice — precisa ancora Caillois — è nello stesso tempo un mondo di tenebre e di orrore… l’era di creazioni esuberanti e disordinate, di parti mostruosi ed eccessivi».
L’attualità della barbarie, se così la vogliamo chiamare, sta nel fatto che essa non ci invita a massacrare, a torturare o a sgozzare, come non ci invita a immaginare una società egualitaria e felice. Nell’esplosione delle sue frenesie, la barbarie ci propone di assumere coraggiosamente la parte pericolosa, perfino inammissibile e antisociale, di noi stessi. Fin dalla nascita ci siamo trovati proiettati in un sistema sociale etico-chirurgico, il cui obiettivo è di praticare su di noi il massimo numero di amputazioni in nome del massimo ordine. Affrontando la barbarie, non facciamo che dare una risposta alla questione fondamentale della nostra pienezza.

“Non bisogna più fare assegnamento su grazie, su favori speciali.
Non si può più pagare riscatti al capo del Purgatorio, né unger la mano al guardiano dell’Inferno;
non c’è più un Paradiso dove si possono fissare i posti in anticipo.”

René Daumal

Il mondo in cui viviamo è una prigione, le cui sezioni si chiamano Lavoro, Denaro, Merce, e la cui ora d’aria è data dalle vacanze estive. È in questo universo carcerario che siamo nati e abbiamo sempre vissuto. Esso è quindi tutto ciò che conosciamo. Al tempo stesso è il nostro incubo ma anche la nostra sicurezza. Eppure. Come ogni carcerato ben sa, il nostro cuore ha contato mille e mille volte i passi che ci separano dal muro di cinta, per poi calcolare i metri di mattoni che bisogna scalare. Come ogni carcerato ben sa, il nostro sguardo ha scrutato mille e mille volte quella sottile linea d’orizzonte che divide il filo spinato dal cielo, per poi fantasticare sulle forme e sui colori che là si intravedono. Ma cosa ci sia, al di là di questo muro di cinta, noi non lo sappiamo. Forse un paesaggio meraviglioso. Forse una giungla pericolosa. Forse entrambi. Ogni congettura in proposito è una menzogna. Di sicuro c’è la libertà, quale essa sia. Una volta conquistata, sta a noi saperla mantenere e poterne godere. Sta a noi anche preferire rinunciarvi, ma non prima di averla sperimentata.
Oggi più che mai, è il tempo del disprezzo. Pensare di poter evadere dalla vita quotidiana è follia. E poi, un evaso solitario finirebbe col condurre comunque una vita grama. Voler addirittura distruggere il carcere per liberare tutti è una barbarie. Con quale diritto ci intromettiamo nella vita degli altri? Eppure. Eppure esiste un punto in cui la disperazione e l’angoscia per l’incompiutezza e la provvisorietà della propria prospettiva scivolano e si capovolgono nella determinazione di essere se stessi, senza indugi, identificare mezzi e fini e fondare su nulla la sovranità della rivolta. Quando arriveremo a quel punto, se già non ci siamo arrivati, sapremo cosa fare? Oppure indietreggeremo, per ritornare a ciò che conosciamo fin troppo bene?

[da Diavolo in corpo n. 2, maggio 2000]

At the Center of the Volcano

Although put to a difficult test by the multiple catastrophes that weigh upon humanity, the deep-seated conviction that all History has developed following a progressive route that is more or less constant if not really regular endures in its mind. This idea of progressive evolution is not an odd opinion if it is true, as it is true, that having left the caves we have now reached the point of traveling in space. Today is better than yesterday — and worse than tomorrow. But what was the point of departure for this unstoppable course? One of the fathers of cultural anthropology, L.H. Morgan, in his study on the lines of human progress from the savage state to civilization, divides the history of humanity into three stages: the primitive state, the stage of barbarism and that of civilization. Morgan claims that this last stage began with the invention of a phonetic alphabet and with the spread of writing. “In the beginning was the Word” the Bible says. It has been discourse that has facilitated the course of humanity, allowing it to conjecture, argue, retort, discuss, agree, conclude. Without discourse the tower of Babel of the human community could not have been built. In the persuasive force of the word, Reason manifests itself and thus becomes the technique for the creation and government of the world, making sure that human beings do not wear themselves out in turn, but rather contrive an understanding in the way deemed best. And Reason, as a Roman sage said, is the only thing by which “we distinguish ourselves from the brutes.”

Dante used the same expression to distinguish animals that were not rational from the human being who was: “it is evident that to live as animals is to feel — animals, I say, brutes — to live as a man is to use reason.” Indeed, humans themselves can also live like “brutes” when they renounce the prerogatives that the Tuscan poet considers typical of the human being and the source of his greatness. Effectively, all philosophy teaches that the human being is different from animals because he is gifted with reason. If she limited himself to the satisfaction of her physiological needs, nothing would separate him from the rest of the fauna, and life on this planet would still be holding steady in prehistorical conditions. But this is not the case. And this modification, that is the evolutionary process, is seen as an ascent. The human being now walks erect and challenges the heavens while the animals for the most part continue to graze the soil. This is why it is thought that animals are guided by Instinct — which leads them to preserve themselves and seek what is most beneficial — considered as the lowness of the belly; while humans are guided by Reason — which leads them to pursue the just and the useful — that is seated at the crown of the head.

And Reason, as the ancient Greeks said, is common to all and universal. Therefore, Reason is One. But who determines it? And, above all, what happens if someone opposes it, not wanting to follow it because she has other reasons that he does not intend to renounce? If reason is manifested through discourse, what happens when we don’t have the words to express that which enlivens us? The world in which we live is a universe closed in on itself to such an extent that it cannot tolerate that which escapes it, being capable of accepting only that which is included in its cognitive and normative schemas, and so it ends confining that which it cannot explain within the limits of madness, barbarism and irrational utopia.

Even social critique — understood not only in its mere theoretical expression, but also in its practical realization — has known its brutality, a stage in which the struggle against the social order provoked by dissatisfaction with one’s own wretched condition had not yet developed an articulated form through projectual activity, but rather assumed the form of sporadic revolts lacking theoretical motivations and only aimed at immediate satisfaction. In other words, when the vessel overflowed, a blind violence broke loose, that, though it was able to identify the enemy, was not yet able to express its reasons. And because of this, as soon as the rage calmed down, the situation returned to normal. As with the human being, so also with the social critique, it is possible to point to a moment of departure when instinct abandons its place to reason.

In the first half of the 19th century one witnesses the last great “senseless” revolt (luddism) and the appearance of the political project that, without forgetting its illustrious predecessors, would require the intervention of Marx and Engels to be fully developed. The year 1848 was not only the year of the great social upheavals that passed throughout Europe, but also the year in which the Communist Manifesto saw the light of day. The desire to change the world came out of the cave, dissolved a great part of its mystical and idealistic characteristics in order to acquire its own rationality and become social science. It was not by chance that Engels, in the preface to the English edition of the Manifesto published in 1888, would describe radical social movements before 1848 as supportive of “a crude, rough-hewn, purely instinctive form of communism.”

Convinced of the fatuity of thoughtless outbursts of hatred, the struggle for freedom elaborates its programs, its strategies, and starts to advocate the subversion of the entire society and its rebuilding on other foundations. Scientific communism and all its variants are born, as is the anarchist movement. For 150 years, authoritarian communists and anarchists have both seen the seizure of consciousness as the fundamental condition for every social change. While the authoritarians have aspired to impose this consciousness from above through their political organizations on a proletariat that was prepared for it, the anarchists have tried to make it rise up spontaneously through propaganda or example. Millions of writings have been distributed with this aim, in the form of newspapers, journals, books, pamphlets, posters, leaflets; conferences, demonstrations and initiatives have been organized, and committees and associations constituted; not to mention all the social struggles and individual and collective actions carried out against institutions. In the heart of every revolutionary there was a great deal of hope. There was the certainty that all this activity would sooner or later lead to the awakening of this consciousness in the exploited that would finally make the revolution possible. The reason of Freedom — still thought of as one, common to all and universal — would take the place of the reason of Power that had usurped its legitimacy.

Today we know that this determinist process was only an illusion. History does not inevitably go anywhere. And however that may be, power has not stopped paying attention. If once the exploited were moved at the mere mention of the word “strike”; if they gathered together in every city, country, factory or quarter because life itself was the collective life of the class; if the life of the oppressed had included daily discussions of the conditions of existence and struggle for so many years; if in spite of the heterogeneity of this consciousness, they discussed the necessity of destroying capitalism, of building a new society without exploited or exploiters, everywhere; it is undeniable that, in the course of the last several decades, all this has disappeared together with the so much dreaded “proletariat” — considered as a class, vision of the world opposed to that of Capital.

Not by chance. Capital has applied itself to reaching the point where it can build an ideal society in which the enemy no longer exists, but where only productive, good citizens live possibly along with humanoids capable of reproducing society without posing questions. In the face of the danger represented by revolutionary reason, a dense group of flatterers — philosophers, artists, writers, linguists, sociologists, psychoanalysts, historians — has devoted itself to draining this reason of all meaning. The “end of History” means that there is no longer any future one can claim to have an influence: the instant, this abstract, artificial pulsation, disconnected from duration, is elevated to the rank of supreme application. In a time without depth, the thing is overcome by the appearance, the content withdraws before the empty form, choice gives way to automatism, the individual abdicates her autonomy. Thus, he finds herself wallowing once again in the oppressive emptiness of advertising posters that render the Absence somewhat attractive. The reason of the state has remained, only to endure and manage, and this is the one thing that the ecclesiastics of post-modernism have never dreamed of placing into discussion.

In this way, power has tried to preventatively erase the reasons of the revolutionaries. And not only the great reasons — Communism or Anarchy — but the smallest and simplest ones as well, those that mark the daily life of every exploited person allowing him to be aware of what she wants and why he wants it, making her capable of distinguishing the rich from the poor, the police from the prisoner, the violence of the state from that of the rebel, charity from solidarity. But of the intent was to put an end to rebellion forever, something has not worked. Revolts continue to break out. What characterizes them is the fact that there is no visible quantitative progression before the explosion; the dimensions grow to the highest level without being preceded by great partial struggles. Their spark is not the promise of a future freedom but the awareness of a present misery, which, when not economic, is certainly emotional. Now, revolt has no more reasons to put forward, it is without precise and explicit objectives and rarely proposes anything pro-positive. The point of departure is a general negation in which economic, political, social and daily life aspects are blended. Now revolt is characterized by the violent and resolute action of insurgents who occupy the streets and clash violently with all the organs of the state, and also among themselves. We are at the threshold of civil war, we are already in civil war.

The very fact that revolt can assume the form of an unforeseen explosion brings out an element of important force: the surprise effect. The old reformist social democratic arsenal is disarmed in the face of the actions of insurgents. Syndicalism also finds itself completely unable to respond and incorporate the violence into itself. Social workers and all state agents of social mediation generally find themselves completely overwhelmed. The absence of precise demands renders the work of recuperation even more difficult, and there is nothing left for these people to do but denigrate those who don’t hesitate by referring to the “autism of the rebels.” But it is not just the counselors of the king who are dismayed. Revolutionaries as well, who have been accustomed for years to the constant repetition of the concept that the revolution “has nothing in common with the explosion of a powder barrel”, find themselves displaced, taken unawares. How do you reason with one who has no reasons? How do you discuss with one who has no words? The revolt may be fierce, but it is not currently able to make distinctions that require an analysis. Any one of us could find ourselves in the position of the truck driver who was beaten and attacked with stones in the course of the revolt in Los Angeles in 1992.

The rooster constrained in the narrowness of the stall, surrounded by horses, with no other bedding at hand, was compelled to seek out a place on the treacherous floor with horse tramping all around. Being in serious danger for his fragile life, the rooster put forth the following prudent invitation: “I beg you, gentlemen, let us seek to keep ourselves steady on our feet; I fear that otherwise we may trample one another.”

With the lantern of our more or less critical awareness, we wander about in the vain attempt to illuminate the black night that surrounds us today. All the texts that we have read are proving inadequate, incapable of providing us with a thread to lead us out of this labyrinth. When daily events present themselves before us, we are no longer capable of deciphering them. Revolts continue to break out around the world, but not a trace of them appears in our handbooks. Thus, when we come to denigrate the bad insurrection in Albania [1997 — translator] and applaud the good revolt in Seattle, following the suggestion of a reason stuffed with bookish notions, we don’t act so very differently from the rooster of the fable: we counsel everyone to hold themselves steady. At last, a revolt as it should be! That all the insurgents of the world take as a model!

Thus, we see once again how the requirement put forward by revolutionaries in the course of history has always been almost exclusively of the logical type, which is to say normative. And the norm, the reason consistent with itself, does its best to compel reality to conform itself to it. But reality escapes from it, because no ideology is in a position to exhaust it. In spite of our best intentions, nothing guarantees that the revolt of Seattle becomes a model. In fact, it seems that the wind is blowing the other way.

For years, we have upheld the virtue of reason as the sole guide of our actions, and now we find ourselves with little or nothing in hand. In the search for a way of escape from the absurdity that threatens our existence, it is difficult to resist the temptation to reverse direction and turn our attention to that which is usually considered as the antipode of reason, namely, passion. After all, there are already those who have made the rediscovery of the passions one of the most dangerous arms in the attack against the world of authority and money. We can dust off the old texts of Bakunin and Coeurderoy, the anarchists from the 19th century who exalted the “unchaining of the wicked passions” and “revolution as the work of the Cossacks”.

Let’s listen to the shattering voice of Coeurderoy: “…we have no hope except in the human deluge; we have no future except in chaos; we have no expedient except in general war that, mixing all the races and shattering all stable relationships, will remove the tools from the hands of the ruling class with which it violates the freedom required at the price of blood. We establish a revolution in action, we inspire it in foundations; so that it is inoculated through the sword into the organism of society, in a way that none could any longer escape from it! So that the human tide mounts and overflows. When all the disinherited will be taken with hunger, property will no longer be a sacred thing; in the clash of arms, the sword will resound more strongly than money; when everyone will fight for his own cause, no one will have any more need to be represented; in the midst of the confusion of tongues, the lawyers, the journalists, the dictators of opinion will lose their speech. Between its steel fingers, the revolution shatters all the Gordian knots; it is without compromise with privilege, without pity for hypocrisy, without fear in battle, without restraint on the passions, ardent with its lovers, implacable with its enemies. By god! Let’s do it then and sing its praises like the mariner sings the great caprices of the sea, his master!”

Claiming chaos after having futilely tried to set things in order for years. Exalting barbarism after we have identified it for so long with capitalism. It might even seem contradictory, but in doing so, don’t we perhaps feel that much nearer to the goal?

And yet, if we think it over well, it is odd that in order to advance the thesis that wants barbarism to be not only that which most inspires fear in us, but also a possibility on which to wager, one must appeal to such forerunners. As if we felt ourselves at fault and thus in need of finding new justifications behind which to hide our doubts and insecurities. But then, what is served by dedicating ourselves to making analyses of the profound changes that the social structure has undergone, illustrating the technological restructuring of capital, exposing the atomization of the production system, taking action for the end of the great ideologies, stemming the decline of meaning, lamenting the degradation of language, etc., etc.? Reason after reason, analysis after analysis, citation after citation, perhaps all that we have done is raise yet another insurmountable wall, in a position to protect us if not from external reality, at least from ourselves.

If reason is a compass, the passions are the winds

In reality, we are the victims of a great deception, designed by ourselves, when we appropriate the texts of a Bakunin or a Coeurderoy in order to alleviate the burning sensation left by the disappointment caused by the breakdown of every great social project. We don’t take into proper consideration that these anarchists are not our contemporaries, have not witnessed the fall of the Berlin wall, have not lived in the era of the Internet. We propose their ideas again, but avoid reflecting motives that moved them — in a historical context completely different from the one in which we live today — to place their hope for a radical transformation not in adherence to an ideal program, but in the wild irruption of the darkest human forces. Thus, we can leave for the pigs so many questions on why — as Coeurderoy said — “the social revolution can no longer be made through a partial initiative, the easy way, through the Good. It is necessary that Humanity deliver itself through a general revolt, through a counter-strike, through Evil.”

Better to dress the old certitudes up in new clothes than to rid ourselves of them. Better to look at ourselves in the mirror tat reflects the image of a civilized and thinking individual, even though inside a free and savage barbarian is on the lookout only waiting for the propitious occasion to show itself. If one can no longer have faith in the virtue of progress, better to swear on the genuine and spontaneous substantial nature of the individual upon which civilization has superimposed its vulgar social conventions through the course of the centuries. But isn’t this also an ideological projection, an updated version of the sun of the future that will sooner or later rise behind the peaks as if by magic? And the problem does not only consist in not knowing whether there even is a human nature uncontaminated by television that could be rediscovered, or whether the human unconscious could be reclaimed from the poisoning of Capital.

In fact, in spite of appearances, the texts of Bakunin and Coeurderoy are the fruit of a perfectly logical reasoning. The aim one wants to achieve determines the means to be used. If our goal was to redeal the cards in the game, on could easily present a rational argument for what means to use. It would be understood that each in their turn should hold the bank. But if our objective is to destroy the game itself, with all its rules, its cards and the players who take part in it, then things change. In other words, if our desires would limited themselves to the replacement of a ruling class, the restoration of areas presently not in use, a reduction in prices, the lowering of interest rates, better ventilation of prison cells and whatever else as well, it would remain in the ambit of rational possibility. If instead we want to put an end to the world as we know it and consequently enter into a world that is utterly fantastic to imagine, then we are facing a project considered impossible, extraordinary, superhuman, that requires impossible, extraordinary, superhuman means in order to be realized. A revolt weighed in the balance of convenience, with the eye attentive to the advantages and disadvantages at every step, is defeated from the start, because it can only advance to a certain point and then stop. From the point of view of logic, it is always better to find a compromise than to fight. It is not reasonable for an exploited person to rebel against society, because she will be overpowered by it. The barricade may still have its charm, but it’s useless to hide that many will meet their death there. And no one knows in advance in whose chest the bullet will stop.

This is why the only allies left are the passions, those wicked passions to which everything is possible, even the impossible. Bakunin and Coeurderoy understood this. One cannot make revolution with good sense. Only passion is capable of overwhelming the human mind, carrying it toward unthinkable ends, arming it with invincible strength. Only individuals who have gone “out of their mind”, on whom reason no longer exercises any control, are capable of accomplishing the undertakings necessary to the destruction of an age-old ruling order. As we can see, it is not a question of converting as many people as possible to an ideal deemed just, but of stirring them up since — as an old anarchist loved to say: “it is normal that people very much share the qualities of coal: an inconvenient and filthy mass when extinguished; luminous and fiery when ignited.”

But the ardor of the passions doesn’t last long, it is fleeting, just like the current revolts. It is an intoxication that thrust beyond itself, but that is slept off by morning. One can gather from this that if reason alone is not able to guide us toward freedom, neither is passion alone. But no one has ever claimed such a thing. Here we are before the consequences of a misunderstanding that occurs when one opposes a supposedly irrational passion to a presumably indifferent reason, generating an antithesis that does not exist in reality. Because, far from being rash and unreflective, passion is quite capable of taking time and giving itself a perspective in order to achieve its goal. Just as the acrobatics of reason often only serve to justify the outcome of our passions after the fact. Perhaps nothing has shown how logic and passion complete each other, interpenetrate each other and contain each other in turn like the work of Sade with its continuous linking together of orgiastic scenes with philosophical argumentation. Compass and winds are both indispensable. Whatever voyage one means to undertake, one cannot do without either one of these. This is why Bakunin invoked the fury, but also spoke of the need for an “invisible pilot.” Now however the point is that it is not possible to pilot a tempest. One can only endure it.

“The violent revolution that we felt rising for some years and that I had personally desired so much passed before my window, before my eyes, and it found me confused, incredulous. […] The first three months were the worst. Like many others I was one obsessed by the terrible loss of control. I, who had desired the subversion, the overturning of the established order, with all my might, indeed I, now at the center of the volcano, I abhor the summary executions, the pillage, all the acts of banditry. I was torn as always between the theoretical and emotional attraction for the disorder and the basic need for order and peace.”
— Luis Bunuel

It is not only the political and economic person, worried about electoral and commodity markets, who takes the field against the tempest, against the chaos and the primordial forces of barbarism, but, above all, the ethical person. To repudiate social norms, to abandon oneself to the instincts means to fall back into the darkness of wildness to the point of reviving the horrors of the primordial horde. Civilization, then, could only be Reason, Order, Law, and not necessarily those of the State. Bakunin’s comrades in Lyon don’t fail to reproach for this. One of them will remember how conflicts broke out between them “the principle cause of which was Bakunin’s great theory on the necessity of allowing all the passions, all the appetites, all the wrath of the people to manifest themselves and to freely rumble unchained, free of the muzzle.” There was one comrade in particular who “did not view this possible deluge of violence of the human beast” and “condemned every sort of crime and abomination, which would give the revolution a sinister countenance, rob the greatness of the idea through the brutishness of the instincts, rising against all those who have love in their hearts for the great things and whose consciousness has a sense of the just and the good.” How is it possible — he asked — “that people who represent the idea of the future could have the right to defile through contact with the most ancient barbarism which the most elementary civilizations seek to repress?”

The observations of this comrade of Bakunin have made much more headway than the texts of the Russian anarchist. The proof of it is the oblivion to which these latter have been relegated together with those of Coeurderoy. Barbarism cannot be the door to freedom, so we are reminded by those ethical people who, for the most part, are the very same ones who on other occasions have found ways of affirming that war produces peace, the rich preserve the poor, force guarantees equality. So what can open the door to freedom? Perhaps the expansion of markets? An increase in the number of parties? The consolidation in the forces of order? A better scholastic education? The general strike? A revolutionary organization with a million members? The development of the productive forces? And why ever, if not out of respect for the determinist mechanism which is considered the motor of history? It is a mystification, however, to paint a situation of anomie — that is to say, of an absence or great weakening of the norms that rule the conduct of individuals — with the darkest hues. It is yet to be demonstrated that inside the individual a monster quick to torture innocents is concealed. In reality this is merely a hypothesis — as often refuted as affirmed by historical experience — spread to benefit those who rule, decide and impose. Nevertheless, even if it were so, could one perhaps decide beforehand which direction a situation of anomie would assume?

A mariner who sings of the force of the sea is not likely to exalt the beauty of shipwreck with it. In the same way, recognizing the role developed in every process of social transformation for the passions, even for the darkest ones, does not mean making a defense for rape, the bloodbath or lynching. There is no use in hiding that every revolution has known its excesses. However, this does not mean either renouncing revolution for fear that these will happen, as the so-called beautiful souls always claimed, nor cheerfully taking part in them. Because the people unchain even their wicked passions that have been repressed for far too long. In this, the revolutionaries will hardly be at their side. Indeed, one presumes that they have quite different things to do than shut themselves up in their house or lose themselves in the midst of a howling marasmus. Even in the midst of the tempest, the mariner who knows where e wants to go always has his eye on the compass and his hand on the rudder — and in his heart the hope tat he can exploit the force of the water as much as possible in order to arrive at his destination and have his embarkation prearranged because he endures all the blows of the billows. Without any certainty of rescue, naturally, but without giving it up in advance.

The reflections of Bakunin and Coeurderoy — that some would describe as meta-historical and that, as we have seen, have not roused much agreement among revolutionaries — have found unwonted support in the conclusions that some observers of human behavior have drawn. When Bakunin speaks of the revolution as a festival in which the participants are overwhelmed by intoxication (“some from mad terror, others from mad ecstasy”) and where it seems that “the whole world was turned upside down, the incredible had become familiar, the impossible possible, and the possible and familiar senseless,” this is taken literally.

For example, Roger Caillois, in his essay that analyzes the meaning that the festival has had in different types of human society, speaks of the “contagion of an exaltation…that prompts one to abandon oneself, without control, to the most irrational impulses.” Describing it as “intermittent explosion”, the French scholar explains how the festival “appears to the individual as another world, where he feels himself supported and transformed by the forces that overcome him.” His aim is that of “beginning the creation of the world again.” “The cosmos has emerged from the chaos” — Caillois writes — according to which the human being looks with nostalgia at a world that didn’t know the hardship of work, where the desires were realized without finding themselves mutilated by any social prohibition. The Golden Age answers to this conception of a world without war and without commerce, without slavery and without private property. “But this world of light, of serene joy, of a simple and happy life” — Caillois clarifies further — “is at the same time a world of exuberant and disorderly creations, of monstrous and excessive fruitions.”

The innovation of barbarism, if so we choose to call it, is found in the fact that it invites us neither to slaughter, torture or slit throats, nor to imagine an egalitarian and happy society. In the explosion of its frenzy, barbarism proposes to us that we courageously rise to the dangerous, even unacceptable and anti-social, side of ourselves. From birth, we have found ourselves projected into an ethico-surgical social system, the purpose of which is to perform the maximum number of amputations on us in the name of the maximum level of order. Facing barbarism, we only have to give an answer to the basic question of our fullness.

It is no longer necessary to rely on goodwill or special favors. One can no longer pay ransom to the chief of purgatory, nor oil the palm of the guardian of hell; there is no longer a paradise where one could secure a seat in advance.
_ — Rene Daumal

The world in which we live is a prison, the sections of which are called Work, Money, Commodity, and the yard time of which is granted as summer vacation. We were born and have always lived inside this prison universe. Hence, it is all we know. It is our nightmare and our security at the same time. And yet. As every prisoner knows well, our heart has counted the steps that separate us from the wall thousands and thousands of times, afterwards calculating the meters of bricks that it is necessary to climb. As every prisoner knows well, our eyes have scrutinized that thin line on the horizon that divides the barbed wire from the sky thousands and thousands of times so that we can then muse on the forms and colors that we glimpse dimly there. But we don’t know what is there beyond the wall of this enclosure. Perhaps a marvelous landscape. Perhaps a dangerous jungle. Perhaps both. Every proposed conjecture is a lie. Certainly, there is freedom, whatever that may be. Once conquered, it is up to us to know how to maintain it and be able to take pleasure in it. It is up to us, as well, if we so choose, to renounce it, but not before we have tried it.

Now more than ever, it is time for defiance. To think one can escape from daily life is madness. And, besides, a solitary escapee would end up living a miserable life. But wanting to utterly destroy the prison in order to liberate everyone is a barbarity. By what right do we interfere in the lives of others? And yet. And yet, there is a point at which the desperation and anguish of having only incomplete and temporary prospects overturn in the determination to be oneself without delay, identify means and ends and found the sovereignty of revolt on nothing. When we arrive at this point, if we are not already there, will we know what to do? Or will we retreat in order to return to that which we know too well?

Dominique Misein.

 

 

Au centre du volcan (rééd. 2013)

Bien que mise à rude épreuve par les nombreuses catastrophes qui s’abattent sur l’être humain, une conviction demeure bien ancrée dans l’esprit de ce dernier : celle que toute l’Histoire s’est déroulée selon un parcours progressif plus ou moins constant, à défaut d’être régulier. S’il est vrai, comme cela semble être le cas, que nous sommes parvenus à naviguer dans l’espace tout en étant sortis des cavernes, la question de l’évolution ne peut être réduite à une simple question d’opinion. Aujourd’hui est meilleur qu’hier – et pire que demain. Alors, quel a été le point de départ de cette irrésistible course ? Dans son étude sur l’évolution du progrès humain, à partir de l’état sauvage jusqu’à la civilisation, un des pères de l’anthropologie culturelle, L. H. Morgan, divise l’histoire de l’humanité en trois stades : l’état primitif, l’état de la barbarie et celui de la civilisation. Morgan défend que ce dernier a débuté avec l’invention d’un alphabet phonétique et la diffusion de l’écriture. « Au commencement était le Verbe », selon la Bible. C’est le discours qui a facilité le chemin de l’Homme, en lui permettant de conjecturer, argumenter, réfuter, discuter, s’accorder, conclure. Sans le discours, la tour de Babel de la communauté humaine n’aurait pu être construite. Et à travers la force persuasive de la parole, c’est la Raison qui se manifeste. Elle devient ainsi la technique de création et de gouvernement du monde, faisant en sorte que les êtres humains ne se détruisent pas à tout bout de champ, mais parviennent à s’entendre de la meilleure manière qu’ils trouvent. Comme le disait un sage romain, la Raison est la seule chose qui « nous distingue des brutes ».

 

Dante utilisait le même vocabulaire pour désigner les animaux non rationnels, qu’il s’agisse de bêtes ou d’êtres humains : « il est évident que vivre en animaux –par animaux, je veux dire en brutes– signifie sentir, et que vivre en hommes signifie user de la raison ». De fait, les hommes peuvent eux aussi se comporter en « brutes », lorsqu’ils renoncent à suivre les prérogatives de l’être humain qui font toute sa grandeur, c’est-à-dire selon le poète toscan, la libre volonté et la raison. La philosophie enseigne aussi que l’Homme est différent de l’animal parce qu’il est doué de raison. S’il se limitait à la satisfaction de ses besoins physiologiques, rien ne le séparerait du reste de la faune, et la vie sur cette planète en serait restée aux conditions de la préhistoire. Mais ce n’est pas le cas. Et sa transformation, c’est-à-dire le processus évolutif, a été vu comme un progrès. L’Homme marche à présent debout et défie le ciel, tandis que les animaux continuent à raser le sol. Voilà pourquoi on pense que les animaux sont guidés par l’Instinct –qui les porte à se préserver et à rechercher ce qui leur est immédiatement profitable–, renvoyé à la bassesse du ventre. Tandis que les hommes ont pour guide la Raison –qui les amène à rechercher le juste et l’utile–, dont le siège est à la hauteur de la tête.

Et la Raison, disaient les grecs antiques, est commune à tous, et universelle. La Raison est donc Une. Mais qui la détient ? Et, surtout, qu’arrive-t-il si quelqu’un s’obstine à ne pas vouloir la suivre pour d’autres raisons auxquelles il n’entend pas renoncer ? Si la raison se manifeste à travers le discours, qu’arrive-t-il lorsque les mots nous manquent pour exprimer ce qui nous anime ? Le monde dans lequel nous nous trouvons est un univers tellement refermé sur lui-même, incapable d’accepter ce qui ne rentre pas dans ses schémas cognitifs et normatifs, qu’il ne peut tolérer ce qui lui échappe, et le relègue donc dans le domaine de la folie, de la barbarie ou de l’utopie irrationnelle.

Même la critique sociale –entendue non seulement dans ses expressions théoriques, mais aussi dans ses réalisations pratiques– a connu sa propre brutalité. Un stade où la lutte contre l’ordre social provoquée par l’insatisfaction de sa condition de misère ne se manifestait pas de manière articulée à travers une action projectuelle. Elle prenait plutôt la forme de révoltes sporadiques, sans motivations théoriques, visant uniquement à une satisfaction immédiate. En d’autres mots, lorsque le vase débordait, une violence aveugle se déchaînait. Et, si elle était en mesure d’identifier l’ennemi à frapper, elle n’était pas pour autant capable d’exprimer ses propres raisons. C’est aussi pour cela que la situation revenait à la normale une fois la rage apaisée. De la même façon qu’à propos de l’histoire de l’humanité, il est possible d’indiquer en matière de critique sociale un moment à partir duquel l’instinct a laissé place à la raison.

Dans la première moitié du XIXe siècle, on assiste à la dernière grande révolte « insensée » (le luddisme), et à l’apparition de ce projet politique qui, tout en ayant connu d’illustres prédécesseurs, aura besoin de l’intervention de Marx et Engels pour se développer pleinement. 1848 ne fut pas seulement l’année des grands bouleversements sociaux à travers toute l’Europe, mais aussi celle où vit le jour le Manifeste du Parti communiste. Le désir de transformer le monde sortait des cavernes, éliminant beaucoup de ses connotations mystiques et idéalistes, typiques des millénaristes et des socialistes utopiques, pour acquérir sa propre rationalité et devenir une science sociale. Ce n’est pas pour rien qu’Engels, dans la préface au Manifeste écrite pour l’édition anglaise de 1888, définira les mouvements sociaux radicaux précédant 1848 comme partisans d’un « type de communisme grossier, à peine ébauché, purement instinctif ».

La lutte pour la liberté, persuadée de la vanité des emportements de haine inconsidérés, élabore son programme, sa stratégie, et commence à combattre pour la subversion de toute la société et sa réédification sur d’autres bases. C’est la naissance du communisme scientifique, avec toutes ses variantes, et la naissance du mouvement anarchiste. Pendant un siècle et demi, communistes autoritaires et anarchistes ont vu dans la prise de conscience la condition fondamentale de tout changement social. Si les autoritaires ont prétendu imposer la conscience d’en haut avec leurs organisations politiques sur un prolétariat qui en était dépourvu, les anarchistes ont tenté de la faire surgir spontanément, à travers la propagande ou par l’exemple. C’est dans ce but qu’ont été diffusés des millions de textes –journaux, revues, livres, brochures, tracts, affiches–, qu’ont été organisées des conférences, des manifestations, des initiatives, qu’ont été montés des comités et des associations ; sans parler de toutes les luttes sociales et des actions individuelles et collectives réalisées contre les institutions. Dans le cœur de chaque révolutionnaire battait bien plus qu’un espoir. Il y avait la certitude que cette activité conduirait, tôt ou tard, au réveil de cette Conscience chez les exploités, qui rendrait enfin possible la Révolution. La raison de la Liberté –conçue elle aussi comme Une, commune à tous et universelle– aurait alors remplacé la raison du Pouvoir, qui en usurpait la légitimité.

Nous savons aujourd’hui que ce processus déterministe n’a été qu’une illusion. L’Histoire ne va inéluctablement dans aucune direction. Et quoi qu’il en soit, le pouvoir est resté en place. S’il fut un temps où les exploités se sentaient concernés rien qu’en entendant le mot « grève » ; si dans chaque ville, village, usine ou quartier ils se réunissaient parce que la vie elle-même était une vie collective de classe ; si pendant des années la vie des opprimés a inclus la mise en discussion quotidienne des conditions d’existence et de lutte ; si partout et malgré l’hétérogénéité de cette conscience de classe on discutait de la nécessité de détruire le capitalisme, de construire une nouvelle société sans exploités ni exploiteurs, tout cela a indéniablement disparu au cours des dernières décennies, en même temps que le si redouté « prolétariat » – considéré en tant que classe, en tant que vision du monde opposée à celle du Capital.

Ce n’est pas un hasard. Le capital s’est en effet efforcé de bâtir une société idéale où l’ennemi n’existe plus, une société uniquement peuplée de bons citoyens productifs et, si possible, d’humanoïdes capables de la reproduire sans se poser de questions. Face au péril que représente la raison révolutionnaire, une foule de courtisans –philosophes, artistes, écrivains, linguistes, sociologues, psychanalystes, historiens– s’est employée à dissoudre tout sens. La « fin de l’Histoire » nous dit qu’il n’y a plus d’avenir sur lequel on peut avoir prise ; l’instant, cette pulsion artificielle, abstraite et détachée de la durée, est élevé au rang de valeur suprême. En un temps sans substance, l’essence succombe sous l’apparence, le contenu recule devant le vide de la forme, le choix cède à l’automatisme, l’individu abdique sa propre autonomie. C’est ainsi qu’on se retrouve à patauger dans le néant envahissant des panneaux publicitaires qui rendent l’Absence attractive. La seule raison qui reste, pour résister ou administrer, est la raison d’Etat, la seule que les clercs du postmodernisme n’ont jamais tenté de remettre en question.

C’est ainsi que la domination a voulu effacer préventivement les raisons des révoltés. Et pas uniquement les grandes raisons –le Communisme et l’Anarchie–, mais aussi les plus petites et les plus simples, celles qui animaient la vie quotidienne de tout exploité en lui permettant de ne pas ignorer ce qu’il voulait et pourquoi il le voulait, le rendant capable de distinguer le riche du pauvre, le flic du prisonnier, la violence de l’Etat de celle du rebelle, la charité de la solidarité. Mais si l’intention était de mettre fin à jamais aux rebellions, alors quelque chose n’a pas marché. Les révoltes continuent d’éclater. Ce qui les caractérise, c’est que leur explosion n’est pas précédée par une progression quantitative visible, que le vase se remplit à ras bord sans grandes luttes partielles antérieures. Leur flamme n’est pas la promesse d’une liberté future, mais la conscience d’une misère actuelle sinon économique, au moins émotionnelle. A présent, la révolte n’a plus de raison à avancer, n’a plus de revendications à satisfaire, elle est sans objectif précis et explicite, elle développe rarement quelque chose de pro-positif. Le point de départ est une négation générale dans laquelle se mélangent des aspects économiques, politiques, sociaux et quotidiens. Désormais, la révolte se caractérise par l’action violente et décidée des insurgés qui occupent les rues et s’affrontent violemment avec tous les organes de l’Etat, mais aussi entre eux. Nous sommes à la veille de la guerre civile, nous sommes déjà dans la guerre civile.

Le fait même que la révolte puisse prendre la forme d’une déflagration imprévue lui donne un élément de force important : l’effet de surprise. Le vieil arsenal social-démocrate réformiste est désarmé face à l’action des insurgés. Le syndicalisme même se trouve totalement incapable d’y répondre et d’en encadrer la violence. Les assistants sociaux et tous les agents étatiques de médiation en général se retrouvent complètement dépassés. L’absence de revendications précises rend encore plus ardu leur travail de récupération, et il ne leur reste plus qu’à déprécier ce qu’ils n’hésitent pas à définir comme « l’autisme des insurgés ». Mais les conseillers du roi ne sont pas les seuls à être consternés. Même les révolutionnaires se retrouvent en dehors, pris au dépourvu, usés par des années à répéter et à se répéter que la révolution « n’a rien à voir avec l’explosion d’un baril de poudre ». Comment raisonner avec ceux qui n’ont pas de raison ? Comment discuter avec ceux qui n’ont pas de mots ? La révolte peut être féroce, elle n’est pas en mesure de faire les distinctions qui nécessitent une analyse. N’importe lequel d’entre nous pourrait se retrouver à la place de ce chauffeur de camion qui, au cours de la révolte de Los Angeles en 1992, a été tabassé et malmené à coups de pierres et de feu.

« Le coq à l’étroit dans l’étable, entouré de chevaux et sans autre perchoir à portée de main, était contraint de chercher un reposoir précaire sur le plancher instable. Avec les chevaux piétinant tout autour de lui, et sa fragile vie étant sérieusement en danger, le coq lança sagement l’invitation suivante : « je vous en prie, gentlemen, cherchons à nous tenir bien droits sur nos pattes ; je crains qu’autrement nous ne finissions par nous piétiner les uns les autres. »

Nous agitons notre conscience plus ou moins critique en une vaine tentative d’illuminer la nuit noire qui nous entoure aujourd’hui. Tous les textes que nous avons lus se révèlent insuffisants, incapables de fournir un fil qui nous aiderait à sortir de ce labyrinthe. Quant aux événements quotidiens qui se déroulent devant nous, nous ne sommes plus en mesure de les déchiffrer. Partout à travers le monde continuent d’éclater des révoltes, mais nos manuels n’en portent pas trace. Ainsi, lorsqu’on en vient à dénigrer la mauvaise insurrection en Albanie [1997] pour applaudir la bonne révolte de Seattle [1999] en suivant une raison farcie de notions livresques, on ne fait pas autre chose que le coq de la fable : on conseille à tous de se tenir bien droits. Enfin une révolte comme il faut ! Que tous les insurgés du monde la prennent en exemple !

Ce faisant, nous démontrons une fois encore à quel point l’exigence avancée par les révolutionnaires au cours de l’histoire a toujours été presqu’exclusivement de type logique, c’est-à-dire normatif. Et la norme, la raison cohérente avec elle-même, fait tout pour obliger la réalité à se conformer à elle. Mais la réalité s’en échappe, parce qu’aucune idéologie n’est en mesure de l’épuiser. Malgré nos meilleures intentions, rien ne garantit que la révolte de Seattle deviendra un modèle. De fait, il semble que le vent souffle dans une direction complètement différente.

Pendant des années, nous avons défendu la vertu de la Raison comme seul guide de nos actions, et nous nous retrouvons à présent avec rien, ou presque, en mains. A la recherche d’une issue de secours à l’absurde qui menace nos existences, il est difficile de résister à la tentation d’inverser les choses, en nous tournant désormais vers ce qui est généralement considéré comme aux antipodes de la raison : la passion. Après tout, il y a déjà des exemples de ceux qui ont fait de la redécouverte des passions une des armes les plus dangereuses pour partir à l’assaut du monde de l’autorité et de l’argent. On peut dépoussiérer de nos bibliothèques les vieux textes de Bakounine et de Cœurderoy, ces anarchistes qui au siècle dernier ont exalté le « déchaînement des mauvaises passions » et la « révolution par les Cosaques ».

Ecoutons la voix explosive de Cœurderoy : « Révolutionnaires anarchistes, disons-le hautement : nous n’avons d’espoir que dans le déluge humain ; nous n’avons d’avenir que dans le chaos ; nous n’avons de ressource que dans une guerre générale qui, mêlant toutes les races et brisant tous les rapports établis, retirera des mains des classes dominantes les instruments d’oppression avec lesquels elles violent les libertés acquises au prix du sang. Instaurons la révolution dans les faits, transfusons-la dans les institutions ; qu’elle soit inoculée par le glaive dans l’organisme des sociétés, afin qu’on ne puisse plus la leur ravir ! Que la mer humaine monte et déborde ! Quand tous les déshérités seront pris de famine, la propriété ne sera plus chose sainte ; dans le fracas des armes, le fer résonnera plus fort que l’argent ; quand chacun combattra pour sa propre cause, personne n’aura besoin d’être représenté ; au milieu de la confusion des langues, les avocats, les journalistes, les dictateurs de l’opinion perdront leurs discours. Entre ses doigts d’acier, la révolution brise tous les nœuds gordiens ; elle est sans entente avec le Privilège, sans pitié pour l’hypocrisie, sans peur dans les batailles, sans frein dans les passions, ardente avec ses amants, implacable avec ses ennemis. Pour Dieu ! laissons-la donc faire et chantons ses louanges comme le matelot chante les grands caprices de la mer, sa maîtresse ! »

Revendiquer le chaos après avoir inutilement essayé de mettre les choses en ordre pendant des années. Exalter la barbarie après l’avoir assimilée pendant si longtemps au capitalisme. Cela pourrait sembler contradictoire, mais de cette manière, ne nous sentons-nous pas beaucoup plus proches du but ?

Pourtant, à bien y réfléchir, il est étrange que pour avancer la thèse qui veut que la barbarie soit non seulement ce qui nous inspire le plus de crainte, mais aussi une possibilité sur laquelle parier, on doive avoir recours à de tels précurseurs. Comme si nous nous sentions en tort, et donc dans le besoin de trouver de nouvelles justifications derrière lesquelles cacher nos doutes et nos insécurités. Mais alors, à quoi cela nous a-t-il servi d’analyser les profonds changements de la structure sociale, de détailler la restructuration technologique du capital, d’exposer l’atomisation du système de production, de prendre acte de la fin des grandes idéologies, d’endiguer le déclin du sens, de pleurer sur la réduction du langage, etc., etc. ? Raison après raison, analyse après analyse, citation après citation, peut-être que tout ce que nous avons réussi à faire, c’est d’ériger un énième mur insurmontable qui nous protégerait, si ce n’est de la réalité extérieure, au moins de nous-mêmes.

« Si la raison est une boussole, les passions sont les vents »
Alexandre Pope

Lorsque nous nous approprions ces thèses d’un Bakounine ou d’un Cœurderoy pour soulager la brûlure de la déception liée à la débâcle de tout grand projet social, nous sommes en réalité victimes d’une grande tromperie, conçue par nous-mêmes. Nous ne prenons pas assez en considération que ces anarchistes ne sont pas nos contemporains, qu’ils n’ont pas assisté à la chute du mur de Berlin, qu’ils n’ont pas vécu à l’ère d’Internet. Nous proposons à nouveau leurs idées, mais en évitant de réfléchir aux raisons qui les ont poussés –dans un contexte historique complètement différent du nôtre– à placer leurs espoirs d’une transformation sociale radicale non pas dans l’adhésion à un programme idéal, mais dans l’irruption sauvage des forces les plus obscures de l’être humain. Ainsi, nous pouvons éviter de nous poser trop de questions sur le pourquoi –comme disait Cœurderoy– « la révolution sociale ne peut plus être menée par une initiative partielle, à travers un chemin simple, à travers le Bien. Il est nécessaire que l’Humanité se libère par une révolte générale, par un contrecoup, par le Mal. »

Mieux vaux alors revêtir les vieilles certitudes drapées de nouveaux habits, plutôt que de s’en débarrasser. Mieux vaut se regarder dans un miroir qui reflète l’image d’un individu civilisé, tout en pensant qu’à l’intérieur de lui sommeille un barbare libre et sauvage qui n’attend qu’une occasion propice pour se manifester. Si on ne peut plus avoir foi en la vertu du progrès, mieux vaut ne jurer que par la nature authentique et spontanée de l’individu, sur laquelle la civilisation a imprimé ses vulgaires conventions sociales au cours des siècles. Mais n’est-ce pas là encore une projection idéologique, une espèce de version remise à jour du soleil radieux de l’avenir qui tôt ou tard pointera comme par enchantement derrière les sommets ? Et le problème ne consiste pas seulement à savoir s’il existe encore une nature humaine non contaminée par la télévision que l’on pourrait redécouvrir, ou si l’inconscient humain pourrait encore être assaini après l’empoisonnement du Capital.

En effet, malgré les apparences, les thèses de Bakounine et de Cœurderoy sont le fruit d’un raisonnement parfaitement logique. La fin à réaliser détermine les moyens à utiliser. Si notre but était de redistribuer les cartes du jeu, les moyens à employer pourraient facilement s’appuyer sur des arguments rationnels. A chacun son tour de tenir la banque. Mais si notre objectif est d’envoyer valser le jeu en lui-même, avec toutes ses règles, ses cartes et les joueurs qui y prennent part, alors les choses changent. Autrement dit, si nos désirs se limitaient au remplacement d’une classe dirigeante, à la restauration de secteurs actuellement hors d’usage, à une baisse des prix, à une réduction des taux d’intérêt, à une meilleure ventilation des cellules de prison et à d’autres choses du même genre, nous resterions dans le domaine des possibilités raisonnables. Si en revanche, nous voulons mettre fin au monde tel que nous le connaissons et entrer par conséquent dans un monde tout à fait fantastique à imaginer, alors nous sommes face à un projet considéré comme impossible, extraordinaire, surhumain, qui exige des moyens impossibles, extraordinaires, surhumains pour être mené à bien. Une révolte pesée sur la balance de la commodité, avec un œil rivé sur les pour et les contre à chaque étape, est perdue d’avance parce qu’elle ne peut qu’atteindre un certain point, et s’arrêter ensuite. Du point de vue de la logique, il est toujours préférable de trouver un compromis que de se battre. Il n’est pas raisonnable pour un exploité de se rebeller contre la société, parce qu’il sera écrasé. La barricade peut toujours avoir son charme, mais inutile de cacher que beaucoup y trouveront la mort. Et personne ne sait à l’avance dans quelle poitrine s’arrêtera la balle.

Les seuls alliés qui restent sont donc les passions, ces viles passions avec lesquelles tout est possible, même l’impossible. Bakounine et Cœurderoy l’avaient compris. On ne peut pas faire la révolution avec le bon sens. Seule la passion est capable de bouleverser l’esprit humain, de le transporter vers des fins impensables, de l’armer d’une force invincible. Seuls des individus qui ont « perdu la tête », sur lesquels la raison n’exerce plus aucun contrôle, sont capables d’accomplir les entreprises exceptionnelles nécessaires à la démolition d’une autorité séculaire. On le voit, il ne s’agit pas de convertir le plus de personnes possibles à un idéal considéré comme juste, mais de les enflammer : comme aimait à le répéter un vieil anarchiste, « il est plutôt courant que le peuple partage les qualités du charbon : une masse encombrante et sordide lorsqu’elle est éteinte ; lumineuse et ardente lorsqu’elle s’embrase. »

Mais l’ardeur des passions ne dure pas longtemps, elle est passagère, exactement comme les révoltes actuelles. C’est une ivresse qui transporte au-delà de soi, mais qui est digérée au matin suivant. On peut en déduire que si la raison seule n’est pas en mesure de nous mener vers la liberté, il en va de même de la seule passion. Au reste, personne ne l’a jamais prétendu. Nous voilà devant les conséquences d’un malentendu qui survient lorsqu’on oppose une passion prétendument irrationnelle à une raison prétendument froide, générant une antithèse qui n’existe pas dans la réalité. Parce que la passion, loin d’être précipitée et non réfléchie, est tout à fait capable de prendre le temps et de se donner une perspective pour atteindre son but. De la même façon, les acrobaties de la raison ne servent le plus souvent qu’à justifier a posteriori le fruit de nos passions. Rien mieux que l’œuvre de Sade, avec son enchaînement permanent de scènes orgiaques et de raisonnements philosophiques, n’a démontré à quel point logique et passion se complètent, s’interpénètrent et se contiennent mutuellement. La boussole et le vent sont tous deux indispensables. Quel que soit le voyage que l’on entreprend, on ne peut se passer ni de l’une ni de l’autre. C’est pour cette raison que Bakounine invoquait certes la fureur, mais parlait aussi de la nécessité d’un « pilote invisible ». A présent, la question est plutôt qu’il n’est pas possible de piloter une tempête. On ne peut que l’endurer.

« La révolution violente que nous sentions croître depuis quelques années, et que j’avais personnellement tant désirée, passait sous mes fenêtres, sous mes yeux. Je m’en trouvais désorienté, incrédule. […]. Les premiers trois mois furent les pires. Comme beaucoup d’autres, j’étais obsédé par cette terrible perte de contrôle. Moi, qui avais désiré de toutes mes forces la subversion, le renversement de l’ordre établi, oui moi, maintenant, au centre du volcan, j’avais peur… Je détestais les exécutions sommaires, le pillage, tous les actes de banditisme… J’étais déchiré comme toujours entre l’attraction théorique et sentimentale pour le désordre, et le besoin fondamental d’ordre et de paix. »
Luis Buñuel

Il n’y a pas que l’homme politique et économique, préoccupé par la stabilité du marché électoral et des marchandises, qui entre en lice contre la tempête, contre le chaos et les forces primordiales de la barbarie. Il y a aussi surtout l’homme éthique. Répudier les normes sociales, s’abandonner aux instincts, signifie retomber dans les ténèbres de la sauvagerie, jusqu’à ranimer les horreurs de la horde primordiale. La civilisation, pour lui, ne peut qu’être Raison, Ordre, Loi, et pas nécessairement celles décrétées par l’Etat. Les compagnons de Bakounine à Lyon n’ont pas manqué de le lui reprocher. L’un d’entre eux se souviendra comment des divergences ont éclaté entre eux, « dont la cause principale était la grande théorie de Bakounine sur la nécessité que toutes les passions, tous les appétits, toutes les colères du peuple en révolte se manifestent et grondent librement, déchaînées, sans muselière. » Il y avait un compagnon en particulier qui « ne voyait pas d’un bon œil ce possible déluge de violences de la bête humaine » et « condamnait toute sorte de crimes et abominations qui donneraient à la révolution une mine sinistre, qui enseveliraient la grandeur de l’idée sous la brutalité des instincts en se soulevant contre tous ceux qui ont au cœur l’amour des grandes choses, et dont la conscience a le sens du juste et du bien. » Comment est-il possible –demandait-il – « que des hommes qui représentent l’idée de l’avenir puissent avoir le droit de la salir au contact des barbaries les plus antiques, barbaries que même les civilisations les plus élémentaires tentent de freiner ? »

Les observations de ce compagnon de Bakounine ont fait beaucoup plus de chemin que les thèses du révolutionnaire russe. Preuve en est l’oubli dans lequel ces dernières ont été reléguées, au même titre que celles de Cœurderoy. La barbarie ne peut ouvrir la porte à la liberté, rappelaient ces hommes éthiques qui, pour la plupart, sont les mêmes qui en d’autres occasions ont affirmé que la guerre produit la paix, que le riche défend le pauvre, que la force garantit l’égalité. Mais qu’est-ce qui peut ouvrir la porte à la liberté ? Peut-être l’expansion des marchés ? Une augmentation du nombre de partis ? Le renforcement des forces de l’ordre ? Un meilleur enseignement scolaire ? La grève générale ? Une organisation révolutionnaire avec des millions de membres ? Le développement des forces productives ? Et pourquoi pas, après tout, si on souhaite respecter ce mécanisme déterministe qui est considéré comme le moteur de l’histoire ? C’est une mystification que de dépeindre une situation d’anomie –c’est-à-dire d’absence ou de grand affaiblissement des normes qui règlent la conduite des individus– avec les couleurs les plus sombres. Qu’à l’intérieur de l’individu se dissimule naturellement un monstre prêt à massacrer des innocents reste à démontrer. En réalité, il s’agit seulement d’une hypothèse répandue –aussi bien confirmée qu’infirmée par l’expérience historique– qui ne profite qu’à ceux qui établissent et imposent les règles. Et toutefois, même si c’était le cas, peut-on déterminer a priori quelle direction prendra une situation d’anomie ?

Un marin qui chante les « caprices de la mer » ne va probablement pas exalter la beauté du naufrage qui va avec. De la même façon, reconnaître le rôle tenu dans chaque processus de transformation sociale par les passions, même les plus sombres, ne signifie pas faire l’apologie du viol, du bain de sang ou du lynchage. Chaque révolution a connu ses excès, inutile de le taire. Mais cela ne signifie ni renoncer à une révolution de peur que ceux-ci ne se produisent, comme l’ont toujours prétendu les soi-disant belles âmes, ni y participer gaiement. Lorsque le peuple déchaînera aussi ses mauvaises passions, trop longtemps réprimées, les révolutionnaires seront difficilement à ses côtés. On imagine en effet qu’ils auront bien d’autres choses à faire qu’à se barricader chez eux ou à se perdre au milieu du marasme hurlant. Même au milieu de la tempête, le marin qui sait où il veut aller garde toujours un œil sur la boussole et une main sur le gouvernail. Il garde au cœur l’espoir de pouvoir exploiter autant que possible la force de l’eau pour arriver à destination, et d’avoir préparé son embarcation pour qu’elle résiste au choc des lames de fond. Sans aucune certitude de s’en sortir, naturellement, mais sans y renoncer non plus par avance.

Les réflexions de Bakounine et Cœurderoy –que certains définiraient comme métahistoriques et qui, comme nous l’avons vu, n’ont pas recueilli beaucoup de consensus parmi les révolutionnaires– ont trouvé un appui insolite dans les conclusions auxquelles sont parvenus quelques observateurs du comportement humain. Quand Bakounine parle de la révolution comme d’une fête dont les participants sont en proie à l’ivresse (« les uns pris de terreur folle, les autres de folles extases »), et où il semble « que le monde entier ait été mis sens dessus dessous ; l’incroyable était devenu familier, l’impossible possible, et le possible et le familier insensés », cela doit être pris au pied de la lettre.

Dans son essai qui analyse la signification que la fête a eu dans les différents types de sociétés humaines, Roger Caillois parle par exemple de « la contagion d’une exaltation… qui incite à s’abandonner sans contrôle aux impulsions les plus irréfléchies. » La décrivant comme une « explosion intermittente », l’homme d’étude français explique comment la fête « apparaît à l’individu comme un autre monde, où il se sent soutenu et transformé par des forces qui le dépassent ». Son but est celui de « recommencer la création du monde ». « Le cosmos est sorti du chaos » –écrit Caillois– selon lequel l’être humain regarde avec nostalgie un monde qui ne connaissait pas la dure nécessité du travail, et où les désirs étaient réalisés sans qu’ils se trouvent mutilés par quelque prohibition sociale. L’Âge d’Or répond à cette conception d’un monde sans guerre et sans commerce, sans esclavage et sans propriété privée. « Mais ce monde de lumière, de joie paisible, de vie facile et heureuse est en même temps un monde de ténèbres et d’horreurs… l’ère des créations exubérantes et désordonnées, des enfantements monstrueux et excessifs. »

L’actualité de la barbarie, si on veut la nommer ainsi, se trouve dans le fait qu’elle ne nous invite ni à massacrer, torturer ou égorger, mais pas non plus à imaginer une société égalitaire et heureuse. Dans l’explosion de ses frénésies, la barbarie nous propose d’assumer courageusement la part dangereuse, y compris inadmissible et antisociale, de nous-mêmes. Depuis notre naissance, nous avons été plongés dans un système social éthico-chirurgical visant à pratiquer sur nous le nombre maximum d’amputations au nom du maximum d’ordre. En affrontant la barbarie, nous ne faisons que répondre à la question fondamentale de notre plénitude.

« Il ne faut plus compter sur les grâces, sur les faveurs particulières. On ne peut plus payer de rançons au chef du Purgatoire, ni huiler la paume du gardien de l’Enfer ; il n’y a plus de Paradis où on peut réserver des places par avance. »
René Daumal

Le monde dans lequel nous vivons est une prison, dont les quartiers se nomment Travail, Argent, Marchandise, et dont l’heure de promenade est constituée par les vacances d’été. Nous sommes nés et avons toujours vécu dans cet univers carcéral. Il est donc tout ce que nous connaissons. Il est en même temps notre cauchemar et notre sécurité. Et pourtant. Comme chaque prisonnier le sait, notre cœur a compté mille et mille fois les pas qui nous séparent du mur d’enceinte, pour ensuite compter les mètres de briques qu’il faut escalader. Comme chaque prisonnier le sait, notre regard a scruté mille et mille fois cette subtile ligne d’horizon qui divise le fil de fer barbelé du ciel, pour ensuite imaginer les formes et les couleurs qu’on peut apercevoir au loin. Mais ce qu’il y a au-delà de ce mur d’enceinte, on ne le sait pas. Peut-être est-ce un paysage merveilleux. Peut-être est-ce une jungle dangereuse. Peut-être les deux. Toute conjecture à ce propos n’est que mensonge. Il y a certainement la liberté, quelle qu’elle soit. Une fois conquise, c’est à nous de savoir la préserver et d’en jouir. C’est à nous aussi de préférer y renoncer, mais pas avant de l’avoir expérimentée.

Aujourd’hui est plus que jamais le temps du mépris. Penser pouvoir s’évader de la vie quotidienne est folie. Et puis, un évadé solitaire finirait de toute façon par mener une triste vie. Vouloir justement détruire la prison pour libérer tout le monde est une barbarie. De quel droit nous immiscerions-nous dans la vie des autres ? Et pourtant. Pourtant, il y a ce point où dérapent le désespoir et l’angoisse de n’avoir que des perspectives incomplètes et provisoires. Où tous deux se renversent dans la détermination d’être soi-même comme individu, sans atermoiements, d’identifier les moyens et les fins, et de fonder la souveraineté de la révolte sur le néant. Quand nous atteindrons ce point, si ce n’est déjà le cas, saurons-nous quoi faire ? Ou bien ferons-nous demi-tour pour retourner à ce que nous ne connaissons que trop bien ?

Dominique Misein.


Titre original : Al centro del vulcano , in Diavolo in Corpo n°2, Turin, mai 2000
Traduit de l’italien dans Le diable au corps, recueil d’articles de la revue Diavolo in corpo (1999-2000) , Mutines Séditions, novembre 2010. Disponible en brochure à imprimer/photocopier/diffuser chez Ravage Editions.