Un po’ per aiutare chi volesse partecipare alla discussione che si terrà fra qualche giorno all’Asilo occupato, un po’ per dissuadere chi volesse venire invece a parlar d’altro, vi ricopiamo qui sotto alcuni passi che trattano di insurrezione, lotte intermedie e “nuclei autonomi di base”. Sono tutti tratti da testi di Alfredo M. Bonanno, che giovedì sarà insieme a noi a discuter proprio di questi temi, e sono contenuti tutti in volumi editi dalle Edizioni Anarchismo. Buona lettura e a giovedì.
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«Il nostro compito di anarchici, la nostra preoccupazione principale, il nostro desiderio più grande è quello di vedere realizzata la rivoluzione sociale: terribile sconvolgimento di uomini e di istituzioni, capace finalmente di porre fine allo sfruttamento e di instaurare il regno della giustizia.
Per noi anarchici la rivoluzione è la nostra guida, il nostro punto di riferimento costante, qualsiasi cosa facciamo, di qualsiasi problema ci occupiamo. Non sarà possibile l’anarchia, che vogliamo tutti, senza il doloroso passaggio rivoluzionario. Se non vogliamo trasformare l’anarchia in un inutile sogno dobbiamo lottare per distruggere con la rivoluzione lo Stato e gli sfruttatori.
Ma la rivoluzione non è un mito ideale da utilizzarsi come semplice riferimento. Proprio perché è un fatto concreto essa deve essere costruita giorno per giorno, anche con tentativi più modesti che non hanno tutte le caratteristiche liberatorie della rivoluzione sociale vera e propria. Questi tentativi più modesti sono le insurrezioni. In esse il movimento di sollevazione delle minoranze più sfruttate e delle minoranze più sensibilizzate politicamente apre la strada alla possibile sollevazione di sempre più ampi strati di sfruttati, in un flusso di ribellione che può anche sboccare nella rivoluzione, ma può anche concludersi nell’instaurazione di un nuovo potere o in una riconferma sanguinosa del vecchio. In questo caso, pur essendosi presentata l’insurrezione come sollevazione liberatoria, essa si è amaramente conclusa con un ripristino del dominio statale e padronale. Nessuna contraddizione in ciò. Si tratta del naturale svolgersi delle cose. L’insurrezione è l’elemento indispensabile della rivoluzione, senza di essa, senza una serie lunga e dolorosa di insurrezioni non ci sarà rivoluzione e il potere regnerà indisturbato nel pieno delle sue forze. Lo scoraggiamento non fa per noi. Ancora una volta, ottusamente, ci prepariamo e lottiamo per l’insurrezione che verrà, piccolo pezzo del futuro grande mosaico della rivoluzione.
Certo, il capitalismo ha profonde contraddizioni che lo spingono verso processi di aggiustamento e di evoluzione, proprio allo scopo di evitare le crisi periodiche da cui è afflitto; ma non possiamo cullarci nell’attesa di queste crisi. Quando esse si verificheranno saranno le benvenute se risponderanno ai requisiti di elementi acceleratori del processo insurrezionale. Da parte nostra, nel frattempo, ci prepariamo e prepariamo le masse sfruttate all’insurrezione.
In questo senso riteniamo che i tempi sono sempre maturi per la prossima insurrezione. Meglio un’insurrezione fallita che cento tentennamenti che fanno fallire cento occasioni da cui sarebbe potuta scaturire la rivoluzione definitiva. Siamo quindi contrari a coloro che dicono che le recenti batoste del movimento rivoluzionario ci dovrebbero fare riflettere e ci dovrebbero far concludere per una maggiore prudenza. Riteniamo che il tempo delle insurrezioni sia venuto, proprio perché è sempre tempo di battersi mentre l’attesa torna solo utile al capitale.
Preparare l’insurrezione significa preparare le condizioni soggettive (personali e materiali) che consentono ad una minoranza anarchica specifica di creare le circostanze indispensabili allo sviluppo del processo insurrezionale. Se l’insurrezione è fenomeno di massa per cui, in caso contrario, rischia di abortire subito, il suo inizio è sempre il risultato dell’azione di una minoranza decisa, di un pugno di coraggiosi che attacca i punti più significativi dell’obiettivo parziale da raggiungere.
Dobbiamo essere molto chiari. I compiti della lotta anarchica contro il potere possono variare molto, ma tutti – a nostro avviso – devono dirigersi coerentemente a preparare l’insurrezione.» […]
«Quando parliamo di insurrezione teniamo ovviamente conto di una “logica” che regge il comportamento insurrezionale, cioè parliamo di un metodo di intervento nella realtà delle lotte. Con ciò è chiaro che non ci riferiamo a questo o quel modello del passato.
Insurrezione non sono le barricate nelle strade e il popolo in armi. 0, almeno, non sono solo quello.
Quando il popolo insorge spontaneamente perché ha raggiunto il limite di intollerabilità della sua situazione di sfruttamento, si verificano fatti visibili: scontri nelle strade, attacchi contro la polizia, distruzione di simboli del capitale (banche, gioiellerie, negozi, ecc.). Ma queste spontanee manifestazioni di violenza popolare colgono di regola impreparati gli anarchici, i quali restano sorpresi del fatto che l’apatia di ieri si trasformi improvvisamente nella rabbia di oggi.
Non intendiamo parlare di questa situazione di sorpresa o della eventuale partecipazione degli anarchici ad un fatto del genere.
Per questo facciamo una differenza precisa tra sommossa e insurrezione.
Prendiamo la sommossa di Brixton, a Londra, di qualche anno fa: gli anarchici c’erano, ma non erano, né potevano, essere protagonisti della sommossa, né, tanto meno, svilupparla in una insurrezione nel senso prospettato in questo libro. Gli avvenimenti li avevano colti di sorpresa. I negri erano insorti per motivi apparentemente semplici ma che covavano da tempo sotto le ceneri. La partecipazione degli anarchici diventava quindi semplice adeguamento, essi erano “ospiti” di una situazione potenzialmente insurrezionale che non trovava sbocco verso sviluppi più concreti. In altre parole gli anarchici si trovavano ad agire senza essere in grado di seguire una logica insurrezionale.
Gettare occasionalmente un mattone contro la polizia non è certo il modo migliore per un rivoluzionario cosciente di partecipare ad un’insurrezione. In pratica quel mattone significa la sua accettazione di una situazione di fatto che non ha contribuito a determinare e che richiede, anzi impone, che vengano lanciati mattoni contro la polizia.
La logica insurrezionale capovolge l’intervento. I compagni che l’applicano non si limitano ad individuare le situazioni di tensione sociale e non si limitano a spingere genericamente la gente a ribellarsi, vanno oltre, propongono un’organizzazione della rivolta.
Ecco, su questo argomento bisogna intendersi bene.
L’organizzazione proposta deve essere di tipo aggregativo (gruppo di sostegno e di denuncia, lega contro la repressione, associazione per il diritto alla casa, gruppo antinucleare, lega astensionista contro le elezioni, ecc.), non può essere un gruppo specifico anarchico. Per qual motivo, difatti, la gente dovrebbe aderire ad un gruppo anarchico per organizzare e partecipare ad una lotta?
La partecipazione degli sfruttati a questo tipo di strutture può anche essere notevole e ciò dipende dal lavoro che i compagni anarchici, presenti all’interno delle strutture, riusciranno a fare: volantini, giornali, manifesti, opuscoli, dibattiti, conferenze, comizi, ecc.
Le azioni che l’organizzazione così costituita deciderà di intraprendere saranno, via via, più significative in relazione sia all’andamento della lotta, sia al peso organizzativo raggiunto dalla struttura, sia al numero dei partecipanti, sia al’ genere di reazione repressiva che si metterà in moto.
La scelta delle varie azioni: manifestazione, corteo autorizzato, corteo non autorizzato, sit-in, occupazione di un edificio pubblico, blocco di una strada o di un quartiere, occupazione di una fabbrica, difesa del territorio occupato, attacco contro gli interventi repressivi, ecc., questa scelta, dipende dalle decisioni che verranno prese in assemblea – all’interno della organizzazione stessa – ma con la presenza attiva degli anarchici. Così lo svolgimento della lotta vedrà sempre al suo interno l’azione di una minoranza specifica attiva.
Certo non si è sicuri di nulla. Non si tratta di un controllo politico, ma di una semplice stimolazione pratica. I compagni anarchici saranno presenti nella lotta allo stesso titolo degli altri e non avranno un peso particolare nelle decisioni da prendere. Però potranno far valere gli aspetti pratici dei loro suggerimenti che devono comunque essere adeguati alla realtà dello scontro.
Per aversi un lavoro che rientri nella logica insurrezionale occorre che la spinta alla rivolta sia precisa, non astrattamente generica, e che sia anche possibile, cioè realizzabile dalla gente.
Occorre quindi che la lotta sia sentita e che le proposte dei compagni, all’interno della struttura organizzata, siano adeguate alla disponibilità di lotta della gente ed in grado di dare, di volta in volta, indicazioni sempre più avanzate.
Un’indicazione non adeguata per difetto in quanto troppo timorosa o arretrata, viene scartata dalla gente considerata ostacolo allo sviluppo della lotta e tradimento dei propri sentimenti di ribellione o delle proprie necessità. Un’indicazione troppo avanzata, velleitaria e staccata dalla realtà dello scontro, viene considerata impossibile, pericolosa e controproducente, per cui la gente si ritrae paurosa di venire coinvolta in chissà quali raggiri.
In questo modo i compagni anarchici che operano all’interno della struttura hanno modo di potere misurare la propria azione stessa, essendo obbligati a seguire le indicazioni che provengono dalla gente e scegliendo solo azioni che risultino possibili e comprensibili.
La spinta verso l’insurrezione avviene quindi dentro i limiti della ribellione che si sta diffondendo e non è un’astratta costruzione di un gruppo minoritario.
Quando parliamo di metodo e di logica insurrezionali intendiamo esattamente ciò. Intendiamo il rifiuto di una logica sindacalista, di difesa di diritti ottenuti, di ricerca di una crescita quantitativa per poi fare qualcosa, poi, in un secondo tempo.
Le strutture organizzative che proponiamo non nascono nella logica resistenziale, tipica del sindacalismo di ogni tipo. Non sono gruppi corporativi per la difesa di interessi di categoria.
Si tratta di strutture minime di aggregazione per convogliare gli sfruttati verso un determinato obiettivo di lotta. Elementi di coesione attraverso i quali mettersi d’accordo su cosa fare per organizzare meglio la lotta, per stimolare l’istinto di ribellione della gente e trasformarlo in insurrezione quanto più possibile cosciente.
Per tutti questi motivi il gruppo di compagni anarchici interno alla struttura organizzata non può trasformarsi in un gruppo minoritario guida o in una minoranza di potere. Esso, infatti, è obbligato a seguire le condizioni dello scontro, non può appoggiarsi sulla crescita quantitativa all’infinito del gruppo stesso, non ha la possibilità di proporre azioni semplicemente difensiviste, è costretto a spingere verso una serie di azioni sempre più avanzate che, se da un lato possono condurre all’insurrezione e quindi a livelli di scontro sempre più alti e a risultati non facilmente prevedibili, dall’altro conducono pure all’inevitabile distruzione della struttura organizzativa di base e pertanto al dissolvimento della funzione svolta dal gruppo di compagni che tornano così alla loro attività precedente.
Queste proposizioni non sono facili a capirsi e possono dare spazio ad equivoci. Per questo motivo riteniamo di grande importanza il massimo approfondimento teorico possibile.»
da Teoria e pratica dell’insurrezione, 1984
«La partecipazione delle masse è quindi l’elemento fondante del progetto insurrezionale e, partendo quest’ultimo dalla condizione di affinità dei singoli gruppi anarchici che vi partecipano, è anche elemento fondante di questa affinità stessa, la quale resterebbe povera camaraderie d’ élite se circoscritta alla reciproca ricerca di una più approfondita conoscenza personale fra compagni.
Sarebbe però un controsenso pensare di fare diventare anarchica la gente suggerendo di entrare nei nostri gruppi allo scopo di affrontare la lotta in modo anarchico.
Sarebbe non solo un controsenso, ma una orribile forzatura ideologica e sconvolgerebbe tutto il significato dei gruppi d’affinità e della eventuale organizzazione informale nata per affrontare l’attacco repressivo che in un certo momento, in un dato territorio, una parte più o meno consistente degli esclusi subisce da parte del potere.
Dovendosi però creare delle strutture organizzative capaci di raggruppare gli esclusi in modo da cominciare gli attacchi contro la repressione, ecco la necessità di dare vita ai nuclei autonomi di base, che ovviamente possono prendere qualsiasi altro nome che indichi il concetto di autorganizzazione.
Eccoci quindi al punto centrale del progetto insurrezionale: la costituzione dei nuclei autonomi di base (per comodità accettiamo qui questo termine).
La loro caratteristica essenziale, visibile e comprensibile immediatamente, è che vi fanno parte anarchici e non anarchici.
Ma sono altri i punti di più difficile comprensione, e che nelle pochissime occasioni di sperimentazione pratica si sono rivelati fonte di non pochi equivoci. Primo fra tutti il loro essere strutture di tipo quantitativo. Se essi sono strutture di questo tipo, e di fatto lo sono, si deve chiarire che hanno una caratteristica particolare. Sono veri e propri punti di riferimento, non luoghi fissi dove la gente si conta e quindi dove occorre mettere in atto tutte quelle procedure che rendono possibile la persistenza aggregativa nel tempo (tesseramento, versamento di una quota partecipativa, fornitura di servizi, ecc.). Poiché i nuclei autonomi di base hanno soltanto lo scopo della lotta essi funzionano come un vero e proprio polmone nella sua funzione respiratoria; si ingrossano nel momento in cui la lotta si intensifica e si riducono quando la lotta si affievolisce per tornare a ingrossarsi al momento del prossimo scontro. Nei punti morti, fra un impegno e l’altro – e qui per impegno s’intende qualsiasi momento di lotta, anche la distribuzione di un semplice volantino, la partecipazione ad un comizio, ma anche l’occupazione di uno stabile o il sabotaggio di uno strumento del potere – il nucleo rimane come riferimento zonale, come segno di una presenza organizzativa informale.
Pensare possibile una crescita quantitativa stabile dei nuclei autonomi di base significa trasformarli in organismi parasindacali, cioè qualcosa di simile ai Cobas, che difendono i diritti dei lavoratori dei diversi settori produttivi, proponendosi un ampio raggio di interventi difensivi e rivendicativi a favore dei propri rappresentati, con la conseguenza che più alto è il numero delle deleghe, più forte è la voce dell’organismo che propone la rivendicazione. Il nucleo autonomo di base non ha nulla di tutto questo. Non propone una lotta rivendicativa col metodo delle richieste e della delega, non propone una protesta su obiettivi generici che possono andare dalla difesa del posto di lavoro, all’aumento del salario, alla tutela della salute nelle fabbriche, ecc. Il nucleo di base nasce e muore col suo unico obiettivo individuato al momento di dare inizio alla lotta; obiettivo che in se stesso può anche avere natura rivendicativa, ma non viene cercato col metodo rappresentativo della delega; bensì col metodo diretto della lotta immediata, dell’attacco permanente e senza preavviso, del rifiuto di qualsiasi forza politica che pretende rappresentare qualcuno o qualcosa.
Gli aderenti ai nuclei di base non possono quindi legittimamente aspettarsi un sostegno plurimo, coprente una fascia ampia dei loro bisogni, devono capire che non si tratta di un sostegno parasindacale, ma di uno strumento di lotta contro un obiettivo preciso e che resta valido, come strumento, solo se mantiene inalterata la decisione iniziale di fare ricorso soltanto ai metodi di lotta insurrezionali di cui si è detto. La partecipazione ai nuclei è quindi assolutamente spontanea non potendo essere sollecitata, o consigliata, da benefici qual si voglia che non siano quelli specifici ed esclusivi di una maggiore forza e organizzazione nel raggiungimento dell’obiettivo di attacco che, tutti insieme, ci si era prefisso. È quindi più che logico aspettarsi che questi organismi non raggiungeranno mai una composizione quantitativa elevata e tanto meno stabile. Quando ci si prepara alla lotta sono sempre pochi coloro che vedono l’obiettivo da raggiungere, lo condividono e, in più, sono disposti a mettersi a rischio. Quando la lotta inizia, e si hanno i primi risultati, anche i tentennanti e i deboli sono invogliati a partecipare, ed ecco che il nucleo s’ingrossa; per vedere poi la sparizione di questi partecipanti dell’ultima ora, fatto di per sé del tutto fisiologico che non deve impressionare negativamente, o avallare un giudizio negativo su questo strumento specifico di organizzazione di massa.
Altro punto di incerta comprensione è la limitata vita del nucleo autonomo di base, limitata al raggiungimento (o all’accordo comune su di una impossibilità di raggiungimento) dell’obiettivo prefissato. Molti si chiedono: se i nuclei funzionano “anche” come punti di raggruppamento, perché non lasciarli in vita per un altro possibile utilizzo futuro, diverso da quello in atto? La risposta è ancora una volta legata al concetto di “informalità”. Ogni struttura che persiste nel tempo al di là dello scopo che l’ha vista nascere, se per sua condizione essenziale di esistenza aveva quello scopo e non una generica difesa ad ampio raggio di coloro che vi partecipano, involve prima o poi verso una struttura stabile che capovolge lo scopo iniziale in quello nuovo, e apparentemente legittimo, di una crescita quantitativa, di un irrobustimento per meglio raggiungere una molteplicità di scopi, tutti ugualmente interessanti e che non mancheranno di presentarsi all’orizzonte nebuloso degli esclusi. Parallelamente al radicarsi della struttura informale in una sua nuova forma stabile, si troveranno gli individui adatti che gestiranno questa struttura; sempre quelli, i più capaci, con maggiore tempo a disposizione, insomma; prima o poi il cerchio si chiuderà attorno ad una struttura; sedicente rivoluzionaria e anche anarchica; la quale avrà però scoperto così il suo vero e unico scopo: la propria sopravvivenza. Anche la forma più rarefatta di potere, quale è appunto quella che stiamo vedendo formarsi nella “stabilità” di una struttura organizzativa, sia pure anarchica e rivoluzionaria, attira moltissimo, naturalmente tutti compagni in buona fede, tutti desiderosi di fare il bene del popolo, e di questo passo, ecc. ecc.»
da Introduzione a Anarchismo insurrezionalista, 1999
Due dibattiti a Torino
Con un poco di anticipo, vi invitiamo a due dibattiti che si terrano a Torino il 7 e l’8 di maggio prossimi. Il primo su un argomento che evidentemente interessa soprattutto agli anarchici, o meglio a quegli anarchici che si domandano come intervenire nelle lotte insieme agli sfruttati e come farlo in un’ottica insurrezionale – neanche a tutti gli anarchici, insomma. Il secondo invece su di un tema meno specifico che sicuramente può stimolare la riflessione anche in un ambito più vasto: sempreché si sia disposti a metter da parte per un attimo remore che spesso hanno più del tattico che dell’etico e pure tutta una serie di parole d’ordine tanto truculente quanto vuote.
Scaricate qui (formato Pdf, formato Jpeg) quel che vi può servire per stampare e diffondere le locandine dei due incontri.
http://www.autistici.org/macerie/wp-content/uploads/dibattiti-7-e-8-maggio-formato-pdf.zip