di Massimo Passamani
“Dobbiamo trascurare i nostri modelli, e studiare le nostre possibilità” – Edgar Allan Poe –
Da parecchio tempo a questa parte, vado maturando tutta una serie di riflessioni riguardanti tematiche e metodologie che sono ormai bagaglio acquisito e indiscusso di una mentalità comune.
Cercherò, impresa ardua, di metterle per iscritto dotandole di un minimo di chiarezza. Probabilmente, il mio presuntuoso distacco mi attirerà scomuniche da destra e da sinistra; ma una cosa mi riempie di soddisfazione, vale a dire la consapevolezza che chi vorrà respingere e contestare la mia visione delle cose, non potrà fare oggetto di polemica certo anarchismo, ma riferirsi ad un individuo concreto, giacché io non appartengo a nessuna area o gruppo del movimento anarchico. Prendere in considerazione la pretesa efficacia di certi metodi significa liberare il campo da tutte quelle mistificazioni che non permettono un approccio non dogmatico alle tematiche. Riproducibilità dell’atto di sabotaggio. L’elemento discriminante che determina la valenza di azioni d’attacco alle strutture del potere non sembra essere l’entità dei danni procurati, ma la loro riproducibilità; vale a dire la possibilità di generalizzarsi. Chi agisce deve quindi dotarsi di strumenti facilmente reperibili, giacché ognuno deve essere in grado di riprodurre la pratica del sabotaggio. Simbolicità/rilevanza dell’atto sono relative alla sua capacità di diffusione; azione/esempio quindi: NO! viene risposto. E qui entra in campo la prima mistificazione. Coloro i quali propugnano il sabotaggio come metodologia rivoluzionaria si dicono spesso contrari a tendenze di stampo educazionista in quanto dettate da un atteggiamento moralista. Io non voglio insegnare niente a nessuno!. Educare significa -etimologicamente- condur-re fuori. Pensare di diffondere una nuova mentalità (nuovi valori, nuovi comportamenti) che mini alla base ogni forma di autorità oppure voler generalizzare uno scontro che distrugga il potere in tutte le sue forme, sono due teorie/metodologie che si fondano comunque sulla moltiplicazione di un modo (il proprio) di porsi di fronte alla realtà: moltiplicare valori o moltiplicare azioni non cambia. Se ha senso parlare di educazionismo, sia uno etico sia uno pratico, sempre di educazionismo si tratta; condurre fuori la propria vera natura soffocata da una millenaria schiavitù od esternare la propria rabbia interiorizzata dal potere, sempre educare si tratta. La differenza che separa questi due modi di intendere l’anarchismo consiste -dunque- solo nel modus educandi. Se si dicesse che l’atto di sabotaggio ha senso solo per colui che lo compie, in quanto è l’espressione della sua insofferenza, della sua volontà di insorgere, della sua lotta di appropriazione ed autodeterminazione individuale, ci si riferirebbe ad azioni singole e non a metodologie della Rivoluzione Sociale. Non posso che condividere il pensiero di Vaneigem quando diceva che il sabotaggio è più appassionante degli hobby che si fanno a casa, del giardinaggio e del totocalcio. Ma qui la questione è diversa. L’attacco diretto deve diventare una pratica diffusa, quindi la sua efficacia si misura in termini di riproducibilità e moltiplicazione: ed è su questo punto che ho parecchi dubbi. Io penso che per quanto riguarda il sabotaggio la cosa importante sia, più che l’effetto in sé, la spinta che lo determina: il rifiuto individuale e consapevole (perché questo soprattutto conta) dell’apparato statale e di ogni forma di dominio imbocca la strada dell’attacco diretto. Niente di più semplice. Ma, una prima considerazione -immediata e banale- è che diverse possono essere le ragioni che spingono un individuo ad atti di ribellione distruttivi, non ultima la reazione all’insoddisfazione di non aver avuto l’opportunità di esercitare egli stesso una particella di ‘potere’ (G. Bertoli). Leggere dietro ogni attentato a stazioni di polizia, fabbriche, chiese … dei cui autori nulla si conosce una precisa volontà antiautoritaria mi sembra una forzatura. L’azione non parla affatto da sé. Questo non significa dividere e giudicare attentati comuni e attentati politici, ma nemmeno portare, altrettanto , ogni azione distruttiva contro strutture di dominio sulla strada dell’insurrezionalismo. Che degli individui, per fare un esempio diverso ma collegato, compiano dei furti per i loro interessi mi può fare piacere visto che penso che l’unica proprietà reale all’interno dello stato sia quella che uno si prende illegalmente -tutte le altre sono concessioni feudali-; ma non penso che la Rivoluzione sia vicina perché sono aumentati i rapinatori. Io, venendo alla questione che mi interessa, penso che la pratica dell’attacco diretto per essere efficace dovrebbe -paradossalmente- diffondersi a tal punto da diventare inutile. Se tutti quelli che praticano (o potenzialmente potrebbero praticare) il sabotaggio fossero determinati e consapevoli dell’utilità di abbattere ogni forma di autorità, la pratica stessa diverrebbe superflua. E così pure se le azioni distruttive fossero chiaramente capite dagli sfruttati. Gli operai, per fare un esempio, invece di attaccare la fabbrica potrebbero rifiutarsi di lavorare, gli studenti rifiutare la cultura di stato invece di distruggere gli istituti scolastici … Se quando si parla di generalizzazione dello scontro non si intende un’agitazione chiassosa, tumultuosa, irriflessiva, trascinante una folla di seguaci pronti a fuggire al primo ostacolo (E. Armand), ma un rifiuto consapevolmente violento di ogni potere, io penso che esso sarebbe altrettanto vincente quanto un movimento di resistenza passiva su larga scala che nasca dalla volontà individuale di non permettere a nessuno e a niente di gestire la vita del singolo in maniera diversa rispetto a ciò che questi quotidianamente sceglie. Un’unione strumentale di tanti non-collaboratori consapevoli sarebbe dirompente ed ingestibile per ogni governo. Infatti si può, senza innalzare barricate, astenersi da ogni attività, da ogni lavoro, da ogni funzione che implichi il mantenimento o il consolidamento di un dato regime (E. Armand). Violenza e non-violenza come strumenti a disposizione di chi consciamente sceglie il piacere della rivolta. La Violenza come trasporto psicologico collettivo può anche portare ad insurrezioni di massa, ma rimarrà sempre un eccesso di febbre. Partendo dal presupposto che ogni forma di autorità si basa sul riconoscimento da parte di individui concreti che volontariamente si sottomettono, io ritengo che essa cesserà di esistere quando -come scriveva più di quattrocento anni fa E. de La Boétie- verrà meno la servitù volontaria dei governati. Gli strumenti ognuno li sceglierà: inutile enfatizzarne alcuni e condannarne altri. Decidete di non essere più schiavi e vi libererete. Quanto diceva La Boétie riferendosi al tiranno (ma forse ad ogni forma di potere dato che asseriva che avere tanti padroni significa essere sfortunati più volte) si può affermare anche per quanto riguarda lo Stato. Il tiranno-Stato non ha per distruggervi niente di più che il potere che voi gli conferite. Come potrebbe avere abbastanza occhi per spiarvi se non glieli deste voi stessi? Come potrebbe avere tante braccia per colpirvi se non le prendesse da voi? (…) Che potrebbe farvi se non foste il manutengolo del ladro che vi deruba, il complice dell’assassino che vi uccide e il traditore di voi stesso?. E ancora: Non vi chiede di mettere le mani addosso al tiranno (abbattere lo Stato) per farlo cadere, ma semplicemente che non lo sosteniate più; allora lo vedrete, come un enorme colosso il cui piedistallo è stato tolto, cadere per il suo stesso peso e rompersi. Il punto rimane che io tutta questa gente con i coglioni gonfi che dovrebbe praticare il sabotaggio non riesco proprio a vederla. Molti che potenzialmente costituiscono l’esercito degli sfruttati sono uguali ai loro padroni, solo più sfortunati. Per quanto se ne dica la loro furia a pro della morale (e della Legge) protegge l’istituto della polizia più di quanto potrebbe fare il governo (come poteva mancare, Max Stirner) e il loro amore per la mai sazia di sacrifici Cosa Pubblica sarà pronto a cristallizzarsi in nuovi tribunali su cui sventolerà l’effigie di giudici più disinteressati ed imparziali. Sui motivi che spingono gli uomini a sottomettersi al dominio, già aveva riflettuto il monarcomaco La Boétie. Religione/circen-ses/ideologia come instrumenta regni. Non solo. Parlava anche di una gerarchia di padronato che si stabilisce tra Stato e popolo e vuole arricchirsi da tutte e due le parti. Nonostante fosse convinto che il potere sia una dimensione opprimente per tutti, anche per chi non l’esercita, si rendeva conto che il tiranno-Stato per conservarsi deve concedere ad una categoria di persone (classe dirigente, mandarini …) dei privilegi meno illusori rispetto al benessere-menzogna, cibo per il popolo. Per alcuni siano interessi economici, per altri abitudine e assuefazione alla schiavitù, rimane il fatto che lo stato è il prodotto della volontaria mancanza di autodeterminazione degli individui. Landauer, commentando il Discorso sulla servitù volontaria, per rappresentare il potere dello stato usava l’immagine del fuoco. Per spegnerne le fiamme non serve l’acqua, ma è sufficiente sottrargli il nutrimento. Ritornando alla questione del sabotaggio, esso mi interessa come dimensione di rivolta personale (la vita è prevaricazio-ne, dice l’amico Pier Leone) ma mi fa sorridere come metodologia sacralizzata della Rivoluzione Sociale. Continuando a pensare a quello che le persone dovrebbero essere, si rischia di camminare sul mondo delle idee/modello e di creare mostri inumani. Fin quando il progetto dell’uomo totale rimane il fantasma che abita dove manca la realizzazione individuale immediata (R. Vaneigem), si agirà considerandosi il rappresentante, l’inviato, l’apostolo di una Causa (la realizzazione della Rivoluzione Sociale, di una nuova Umanità) o di una classe (E. Armand) e si avranno in bocca le parole ingombranti e purulenti del giustiziere. Che lo Stato sia violento è tautologico, ma è altrettanto evidente che la violenza vive di rapine e muore quando le sue vittime non si lasciano più derubare (B.R.Tucker). Io penso che l’urto supremo con il dominio non avverrà tra gli eserciti delle classi che si lanceranno gli uni contro gli altri, ma tra coloro che non voglio concedere all’unità umana la sua completa autonomia e chi rifiuta ogni predominanza (governativa, amministrativa, sociale) sull’individuale. Come dire: ci si guardi dalle congiure degli ambiziosi che cacciano o uccidono il tiranno, ma conservano e diffondano la tirannide (G.Landauer). Per concludere questo mio scoordinatissimo scritto che ha lo scopo (oltre a quello -primario- di divertire l’autore) non di cercare un’altra e migliore dottrina, ma abbandonare tutte le dottrine e tutti i maestri, voglio abbozzare alcune ulteriori riflessioni. -Esclusa la pretesa anti-educazionista della metodologia insurrezionale; -Desantificato il concetto di riproducibilità dell’atto di sabotaggio; -Considerato che un individuo si verrà a trovare in una situazione an-archica solo in seguito alla sua volontà di sottrarsi al dominio dell’autorità in tutte le sue forme e non in virtù di una fantomatica tendenza naturale alla libertà (anche se è indubbio che spesso l’insubordinazione è un fatto corporale); -Dato per fermo che un uomo è padrone di se stesso nella misura in cui è artefice della sua liberazione, giacché se la libertà gli viene concessa dall’esterno non sarà mai un individuo libero, ma uno schiavo affrancato, un liberto; -Ipotizzata una non-collaborazione diffusa che schiacci lo Stato; La distruzione è da auspicarsi -oltre che come ricerca del piacere irrazionale del fuoco- come pratica cosciente di liberazione individuale: mi spiego. Essere padroni di se stessi significa appropriarsi delle proprie coordinate esistenziali, vale a dire lo spazio ed il tempo. La strada del non-fare come pratica liberatoria può portare a disporre pienamente del proprio tempo, ma la consumazione di quest’ultimo avverrà comunque all’interno di uno spazio suddiviso e razionalizzato dal potere. Dunque, appropriarsi di se stessi completamente significa distruggere l’universo materiale dell’attuale società; l’urbanistica è già potere, in quanto quasi tutte le costruzioni segnano il dominio del collettivo sull’individuale. Ogni angolo di strada sembra ricordare al singolo che egli è uno strumento di quanto lo circonda, un tassello di un grande mosaico la cui omogeneità formale è l’unica meta verso la quale egli debba tendere. La teoria dell’insurrezionalismo (in senso bakuniniano) ottocentesca, secondo la quale una volta abbattuto il dominio statale si sarebbe provveduto ad una gestione nuova e non gerarchica della società, oggi è impensabile. Da autogestire non rimarrebbero che grigiore e oppressione. Solo nella distruzione del contenitore-Stato il singolo diviene leader di se stesso, ostile a tutti i leaders, e conferisce alle sue passioni autentiche -all’amore, agli incontri, al gioco, all’odio, alla creazione, al sogno- la loro dimensione di realizzazione pluridimensionale e il loro posto (dico io, anche materiale) nella storia da farsi (R. Vaneigem). Solo attraverso la proprietà individuale concreta e non quella monopolistica e feudale, la persona può creare il proprio ambiente e cercare l’altro in quanto orizzonte infinito di possibilità, e non come soprammobile o appendice di uno spazio imposto ed opprimente. Per questo progetto non servono modelli, ma vitamine.
(estratto da “Ammutinamento del Pensiero n.1, Giornale di Critica Anarchica, dicembre 1991)