Il fatto che viviamo in un mondo di merda dove stato e capitale ci impongono, sostanzialmente indisturbati, ogni sorta di mostruosità è ormai assodato. Pure è una certezza che solamente un’infima minoranza della popolazione cerca di opporsi, in maniera più o meno cosciente, alla soppressione di ogni spazio di autonomia e libertà che renda la vita degna di essere vissuta. Parte di questa piccola minoranza, noi anarchici, consapevoli dell’urgenza di distruggere quanto ci opprime: perché non siamo più determinati ed incisivi?
Uno dei freni più grandi e seri alla nostra azione è sicuramente la paura di mettere realmente in gioco la nostra vita. Questo è un aspetto centrale della lotta rivoluzionaria, molto spesso non affrontato a sufficienza, perché ci costringe a fare i conti con noi stessi e con le nostre debolezze.
Esaltiamo le cosiddette “piccole azioni”, facilmente riproducibili, che sicuramente non spaventano la “gente” e anche se siamo consapevoli dell’urgenza e della necessità dell’attacco distruttivo al sistema autoritario-tecnologico siamo restii a metterci in gioco fino in fondo, a considerarci in guerra ed agire di conseguenza. Sicuramente è più facile trovarsi insieme a centinaia/migliaia di persone a difendere un territorio minacciato da qualche eco-mostruosità, che soli ad aspettarne il progettista sotto casa. Non sto parlando di coraggio, ognuno di noi ha paura e attua le sue strategie per controllarla e gestirla; anche chi partecipa a una cosiddetta “lotta sociale” rischia il carcere o di essere ferito (sono centinaia gli esempi in questo senso), ritengo non sia questo il discrimine, ma qualcosa di più complicato e cioè la decisione di intraprendere pratiche di lotta che non prevedono alcuna possibilità di mediazione con il potere, che esprimono il completo rifiuto dell’esistente. Partecipiamo ad assemblee in cui ci illudiamo di contribuire a prendere qualche decisione, anche se di solito ci adeguiamo a quanto suggerito dai compagni dotati di maggiore carisma; inevitabilmente il compromesso è sempre al ribasso d’altronde bisogna crescere tutti insieme (ogni volta) e non spaventare nessuno. Ci illudiamo di contribuire ad un progetto collettivo anche se troppo spesso non è il nostro; il fatto di trovarci “in mezzo alla gente” ci da l’illusione di lavorare concretamente per l’insurrezione prossima ventura. Possiamo dividere le nostre responsabilità con altri e sperare di non restare soli se le cose si mettono male. Non ci rendiamo conto di quanta parte della nostra libertà individuale perdiamo, anzi siamo rassicurati dai limiti imposti dall’assemblea, possiamo nascondere la nostra indecisione dietro il rischio che la nostra impazienza nuoccia al progetto comune. Però solamente quando decidiamo di mettere in gioco totalmente la nostra vita e, individualmente o con i nostri affini, colpiamo il potere dove più possiamo nuocergli, solo allora, ne abbiamo il reale controllo e possiamo affermare, con gioia e serenità, di stare facendo la nostra rivoluzione. Attuare una prospettiva di attacco diretto ci libera dalle pastoie di lotte difensive, ci consente prospettive infinite di azione e libertà. Non sto facendo la semplice esaltazione estetica dell’atto individuale, sono consapevole che l’insurrezione è un fatto collettivo, che scoppierà quando gli oppressi in armi si solleveranno, ma il punto e il metodo con cui contribuire a provocarla, la nostra vita è breve e l’opera di demolizione troppo grande e necessaria perché sia possibile aspettare che tutti siano pronti. Anzi sono convinto che solo soffiando sul fuoco e con l’esempio dell’azione possiamo avvicinare tale momento.
Un altro freno che vedo alle possibilità di attacco degli anarchici è il modo in cui molti compagni si approcciano al sociale, alle cosiddette “lotte sociali”. A mio avviso spesso si parte da una considerazione sbagliata, ci si sente altro rispetto alla gente, questo porta a vedere il sociale come qualcosa su cui lavorare, a cui avvicinarsi con cautela per non spaventarlo e piano piano portarlo su posizioni più avanzate finché, una volta pronto, ci si troverà insieme sulle barricate dell’insurrezione.
Io, sono convinto che gli anarchici siano parte del sociale e debbano rapportarsi alla pari con gli “altri”, combattendo tutti quegli atteggiamenti “paternalistici” che inevitabilmente sfociano nella politica. Gli anarchici devono colpire ed attaccare con tutte le loro forze, altri con tensioni simili prenderanno esempio dal nostro agire, troveremo nuovi complici e quando, finalmente, anche tutti gli altri sfruttati decideranno di sollevarsi scoppierà l’insurrezione. Dobbiamo essere noi a dettare scadenze e momenti di lotta, più saremo incisivi ed in grado di colpire nei punti giusti, maggiori possibilità avremo che si diffondano pratiche di attacco diretto. Questo non vuol dire che non si debba partecipare alle lotte che nascono spontaneamente, ma lo dobbiamo fare con i nostri metodi: il sabotaggio e l’azione diretta. Se in una certa località le persone scendono in piazza per opporsi ad una nocività non è necessario che cerchiamo di conoscerle una ad una, che prepariamo la polenta con loro e un passetto per volta cerchiamo di fargli alzare di qualche centimetro la barricata che hanno costruito. Questo non avvicinerà la prospettiva insurrezionale, anzi fiaccherà le nostre forze, dobbiamo colpire l’azienda che la costruisce, chi la progetta, chi la finanzia: dobbiamo rendere evidente che chiunque può prendere in mano la propria vita e distruggere ciò che lo distrugge. Dobbiamo scontrarci con la polizia, non solo quando tenta di sgomberare il presidio di turno, ma provocarla ed attaccarla, far vedere che è possibile, che si può/si deve colpire per primi chi ci opprime. Qualcuno potrebbe affermare che il mio modo di vedere le cose ed intendere l’agire possa covare i germi dell’autoritarismo o dell’avanguardismo.
Al contrario ritengo che contenga in se stesso l’antidoto a questi due mali che affliggono l’azione rivoluzionaria. Non si camuffano i propri desideri, si dice chiaramente chi si è e cosa si vuole e, soprattutto, in un rapporto paritario con gli altri, si dimostra che armando le proprie passioni chiunque può opporsi concretamente a questo stato di cose. La politica a mio avviso si annida proprio nel limitarsi per stare al passo con tutti gli altri, nel mettere da parte determinati discorsi per non “spaventare” persone che non si ritengono pronte a capirli. Deve essere chiaro che gli anarchici cercano complici con cui insorgere e non un opinione pubblica moderatamente favorevole a vaghi discorsi sulla libertà e l’autogestione. Un’altra critica che spesso viene rivolta a chi pratica l’attacco contro Stato e capitale, in maniera più o meno intelligente, più o meno velata, è quella di avvitarsi in un vortice di azione/repressione con gli apparati del potere senza fare passi avanti sulla via dell’insurrezione. Certamente è difficile negare che più rappresenteremo un pericolo per il potere più questo si accanirà per reprimerci, ma ciò, purtroppo, è naturale e tale concatenazione di causa-effetto si interromperà solamente quando il moltiplicarsi e il diffondersi degli attacchi provocherà la rottura insurrezionale. Pensare che la rivoluzione sarà solo il frutto della presa di coscienza degli sfruttati, dopo decenni di “addestramento” nella palestra delle lotte intermedie, guidati da una minoranza di illuminati che li tengono per mano, facendo un passo appena avanti a loro, e procrastinando continuamente il momento dello scontro armato è pura illusione. Tale tattica è perdente due volte perché rinunciando all’azione diretta rinunciamo a vivere pienamente la nostra vita, a fare qui ed ora la nostra rivoluzione. In secondo luogo è perdente perché lascia intendere che lo Stato darà il tempo agli oppressi di rendersi conto della propria condizione, di conoscersi, di organizzarsi e poi, magari, di insorgere, prima di schiacciarli. Un piccolo esempio potrebbe essere la Libera Repubblica della Maddalena: spazzata via prima che chiunque potesse illudersi di rappresentare un reale pericolo per l’autorità statale. Inoltre, lo Stato, forse ancora più potente della forza militare dispone di un’arma efficientissima: il recupero. Un esempio, quando il problema della casa si fa pressante, lotte ed occupazioni si moltiplicano e gli sgomberi non risolvono il problema il potere può giocarsi la carta della legalizzazione. Una volta con un tetto sulla testa lo sfruttato con cui abbiamo lottato fianco a fianco cosa farà? Forse chiederà di più, continuerà a ribellarsi, ma più facilmente si accontenterà e noi saremo costretti a tuffarci a capofitto nella prossima lotta sperando che questa volta ci vada meglio… Solamente quando il nostro agire non prevede possibilità di mediazioni, quando la nostra lotta è volta a distruggere quanto ci opprime lo Stato non può fregarci con il recupero: o ha la forza di schiacciarci o deve soccombere. Se avremo la capacità di provare a diffondere la pratica dell’attacco e dell’azione diretta, se sapremo gettare benzina sul fuoco delle tensioni sociali, inasprendole e cercando di impedirne la ricomposizione, forse riusciremo realmente ad incendiare la prateria. Prima di concludere vorrei soffermarmi su un altro elemento che a volte sembra essere un freno alla nostra azione: l’analisi degli effetti e delle trasformazioni del dominio. Troppo spesso sembra che questa non serva a darci maggiori capacità di incidere sulla realtà, ma ad alimentare paure e senso di impotenza di fronte alla vastità della sfida ed alla mostruosità delle nocività da affrontare. Più analizziamo gli aspetti totalitari e deleteri della tecnologia, più denunciamo i progetti autoritari del potere e meno affiliamo le nostre armi. Terrorizziamo chi vorrebbe agire con più o meno approfondite ricerche sugli ultimi ritrovati del controllo. Non sto sostenendo che non servano analisi ed approfondimenti, ma che non debbano diventare fini a se stessi, esercizi di capacità intellettuali disgiunti dall’azione diretta. Cosa serve pubblicare interminabili elenchi di aziende responsabili della distruzione della natura se nessuno le attacca? Già da sole la vastità e l’imponenza degli apparati statali e economici, spesso ci fanno dubitare della possibilità di colpirli efficacemente. Disastri ambientali come la marea di petrolio nel Golfo del Messico o Fukushima sembrano dire che non è possibile fare niente per fermare la guerra della società industriale contro l’uomo e la natura. Nonostante tutto non siamo inermi, minimi strumenti di analisi, l’azione diretta e la decisione di pochi possono dimostrare che non siamo tutti rassegnati ad accettare passivamente ed allo stesso tempo indicare agli altri sfruttati che è ancora possibile opporsi. Ad esempio l’azione dei compagni del Nucleo Olga della FAI/FRI ci dice come sia possibile solidarizzare con chi subisce la catastrofe nucleare, anche dall’altra parte del mondo, e colpire concretamente l’industria dell’atomo.
Spero che le mie riflessioni possano servire ad avviare un dibattito fra i compagni volto a mettere in luce e scrollarsi di dosso tutto ciò che ci limita nell’azione anarchica. Coraggio e forza per i compagni che praticano l’azione anonima, coraggio e forza per coloro che danno un nome alla propria rabbia, coraggio e forza per coloro che con le loro azioni danno vita alla FAI/FRI: c’è un intero mondo da demolire.
Nicola Gai
(prigioniero anarchico accusato del ferimento del manager dell’atomo Roberto Adinolfi)
[apparso sull’ultimo numero di “Terra Selvaggia” a luglio 2013]
P.S.
per scrivergli:
Nicola Gai
Casa Circondariale Via Arginone 327
44122 Ferrara
Italy : ‘The urgency of the attack’ by anarchist prisoner comrade Nicola Gai
It is now an established fact that we live in a world of shit where the
State and capital, basically undisturbed, impose all sorts of
monstrosities on us. It is also certain that only a tiny minority of the
population is trying to oppose the suppression of spaces of autonomy and
freedom that make life worth living, in a more or less conscious way. As a
part of this tiny minority, we anarchists are aware of the urgent need to
destroy what oppresses us: why are we not more determined and acute?
Without doubt one of the greatest and most serious obstacles to action is
the fear of really putting our lives at stake. This is a crucial point of
the revolutionary struggle, which is often not sufficiently addressed
because it forces us to come to terms with ourselves and our weaknesses.
We praise so-called easily reproducible ‘small actions’, which certainly
don’t frighten the ‘people’; and even if we are aware of the urgency and
necessity of destructive attack on the authoritarian-technological system
we are reluctant to get involved to the end, to consider ourselves at war
and act consequently.
Certainly it is much easier to find oneself along with hundreds/thousands
of people defending a territory threatened by some eco-monstrosity than to
find oneself on one’s own waiting for the planner [of the monstrosity]
outside his house. I’m not talking about bravery. Everyone is afraid and
implements his/her strategies in order to control and manage this. Even
those who take part in so-called ‘social struggle’ risk ending up in
prison or being wounded (there are hundred examples of this). I don’t
think this is the distinction; it is something more complex, i.e. the
determination to engage in struggle practices that don’t foresee any
possibility of negotiation with power, and express total refusal of the
existent.
We take part in meetings where we deceive ourselves by thinking we are
contributing to making decisions, even if we usually adapt ourselves to
what comrades with more charisma have suggested. Inevitably compromise is
always downwards if we say we all have to grow up together (every time)
without scaring anyone. We deceive ourselves into thinking we are
contributing to some collective project, while it is often not our own.
The fact that we find ourselves ‘among the people’ gives us the illusion
we really are working for imminent insurrection. We can share our
responsibilities with others and hope we won’t be alone when things take a
bad turn. We don’t realize how much of our individual freedom we are
losing, on the contrary we feel reassured by the limits imposed by
meetings where we can hide our indecision behind the risk that our
impatience could undermine the common project.
But it is only when we decide to put our lives totally at stake, when
individually or with our comrades in affinity, we strike power right where
we can do more harm, only then do we have total control of our lives and
are able to say with joy and serenity that we are making our revolution.
By realizing a perspective of direct attack we are freeing ourselves from
the obstruction of defensive struggles and opening infinite possibilities
of action and freedom. I’m not making a mere aesthetic exaltation of
individual action, I’m aware that insurrection is a collective event which
will break out when the oppressed rise up in arms, but I’m making a point
about the method to contribute to provoke it [insurrection]. Life is short
and the work of demolition is too great and necessary to wait for
everybody to be ready. On the contrary I’m convinced that only by fanning
the flames with the example of action can we make that moment come closer.
I think another obstacle to anarchists’ possibilities of attack is the way
many comrades approach so-called ‘social struggles’. In my opinion we
often start from a wrong consideration: we feel different from the people
and this leads us to seeing the social sphere as something inn which we
have to work and approach with caution in order not to create fear, slowly
bringing it to more advanced positions so that, once it is ready, we can
all be together on the barricades of insurrection.
I’m convinced that anarchists are part of the social sphere and have to
relate with the ‘others’ without all those ‘paternalistic’ attitudes which
inevitably lead to politics. Anarchists must strike and attack with all
their power, and others who have similar tensions will follow the example
of our actions. We’ll find new accomplices and finally, when all the other
exploited decide to rise up, insurrection will break out. It is us who
have to dictate deadlines and times for struggle. The more we are sharp
and able to strike in the right places the more we create possibilities
for practices of direct attack to spread. This doesn’t mean that we don’t
have to take part in struggles that arise spontaneously, but we have to do
it with our methods: sabotage and direct action.
If in a certain place people take to the streets to oppose something
harmful it is not necessary for us to get to know these people one by one,
that we cook polenta [typical northern Italy dish] with them and try to
make the barricade they have erected advance a few centimetres. This won’t
bring the insurrectional perspective any closer, on the contrary it will
weaken our strength. We have to strike the company responsible for the
construction of the toxicity, those who plan it, those who finance it: we
have to make it clear that anyone can take their lives in their hands and
destroy what destroys them. We have to clash with the police, not only
when they try to disperse the demo in question; we have to provoke and
attack them, let people see that it is possible, that they can/must strike
first those who oppress them. Some might say that my way of seeing things
and understanding action can harbour the germs of authoritarianism and
vanguardism.
On the contrary I believe that my way contains the antidote to the two
evils that plague revolutionary action. One doesn’t disguise one’s
desires, one says clearly who one is and what one wants, and above all in
an equal relationship with others one demonstrates that anyone can
concretely oppose the status quo by arming their passions.
In my opinion politics lies exactly in the way one limits oneself in order
to keep pace with all the others, in the way one puts some discourses
aside in order not to ‘frighten’ people who are not ready to understand
them. It must be clear that anarchists look for accomplices with whom to
rise up and not public opinion in favour of vague speeches on freedom and
self-management.
Another critique often addressed in a more or less intelligent or veiled
way to those who practice attack on the State and capital is the risk of
getting stuck in a vortex of action/repression with the apparatuses of
power, without advancing on the road of insurrection. Of course it cannot
be denied that the more we represent a danger for power the more the
latter will harass and repress us. But unfortunately this is natural, and
this concatenation of cause and effect will stop only when the spreading
of attacks provokes an insurrectional rupture. To think that revolution
will only be the fruit of the awareness of the exploited, after decades of
‘training’ in the gymnasiums of intermediate struggles, led by a minority
of enlightened ones who hold their hands [of the exploited] and take a
step a little ahead of them by continuously putting off the moment of
armed conflict is pure illusion.
This tactic is a looser twice over: first because by renouncing direct
action we renounce living our lives fully and making our revolution here
and now; and secondly because it suggests that the State will give the
oppressed time to become aware of their condition, to know each other,
organize themselves and maybe rise up, before crushing them. A simple
example could be that of the Free Republic of the Maddalena: swept away
before anyone could deceive themselves and think they represented a real
danger for the State authority.
Moreover the State has a very efficient weapon, perhaps more powerful than
military force: recuperation. For example, when the housing problem
becomes urgent and struggles and squatting multiply, when evictions don’t
sort the problem out, power can play the card of legalization. Once they
have a roof over their heads, what will the exploited with whom we have
struggled side by side do? Perhaps they will demand more and continue to
rebel, but it is more likely that they will be happy, while we will be
compelled to dive headlong into the next struggle hoping we’ll be luckier
this time… Only when our action doesn’t contemplate possibilities for
negotiation, when our struggle aims at the destruction of what oppresses
us, will the State not be able to trick us with recuperation: either it
has the strength to crush us or it must succumb. If we have the ability to
try and spread the practice of attack and direct action, if we are able to
throw petrol on the fire of social tensions, by exacerbating them and
trying to prevent them from recomposing themselves, perhaps we will really
be able to set the prairie on fire.
Before I conclude I would like to dwell on another aspect that seems to be
an obstacle to our action: the analysis of the effects and transformations
of dominion. Far too often it seems that this analysis is useless and
doesn’t give us the ability to affect reality; on the contrary it feeds
fear and sense of impotence in the face of the magnitude of the challenge
and the monstrosity of the harmfulness to be opposed. The more we analyze
the authoritarian and deleterious aspects of technology and denounce the
authoritarian projects of power, the less we sharpen our weapons. With
more or less developed research on the latest breakthrough of control we
terrorize those who would like to act. I’m not saying that we don’t need
analyses but that they don’t have to become an end in themselves,
exercises of intellectual skill detached from direct action. What’s the
use of publishing endless lists of companies responsible for the
destruction of nature if nobody attacks them? Already the magnitude and
awfulness of the State and economic apparatuses themselves often make us
doubt our chances to strike them effectively. Eco-disasters such as the
sea of petrol in the Gulf of Mexico or Fukushima seem to suggest that it
is not possible to stop the war that industrial society is waging on man
and nature.
In spite of everything we are not helpless. Bare instruments of analysis,
direct action and the determination of the few can demonstrate that we are
not all resigned to accept passively and at the same time they show to the
other exploited that it is still possible to fight back. For example, the
action of the comrades of the Olga Nucleus of the FAI/FRI tells us that it
is possible to express solidarity with those who suffer nuclear
catastrophe, even on the other side of the word, and strike the nuclear
power industry effectively.
I hope my consideration will serve to start off a debate among comrades,
with the aim of highlighting and eliminating anything that limits our
anarchist action. Courage and strength to the comrades who practice
anonymous action, courage and strength to those who give a name to their
anger, courage and strength to those who give birth to the FAI/FRI with
their actions: there is an entire world to be demolished.
Nicola Gai
Nicola is an anarchist prisoner accused of the wounding of nuclear power
manager Roberto Adinolfi.
To write to him:
Nicola Gai
C.C. Via Arginone 327
44122 Ferrara
Italy
[Translation : Actforfreedomnow.]
L’urgence de l’attaque
Par Nicola Gai
Le fait que nous vivons dans un monde de merde où l’État et le capital nous imposent, le plus souvent sans encombre, toutes sortes de monstruosités est désormais établi. Pourtant, il est certain que seule une infime minorité de la population cherche à s’opposer, de manière plus ou moins consciente, à la suppression de chaque espace d’autonomie et de liberté qui rend la vie digne d’être vécue. Partie de cette petite minorité, nous anarchistes, conscients de l’urgence de détruire ce qui nous opprime : pourquoi ne sommes-nous pas plus déterminés et incisifs ?
Un des freins les plus grands et les plus sérieux à notre action est sûrement la peur de mettre réellement notre vie en jeu. Ceci est un aspect central de la lutte révolutionnaire, trop souvent insuffisamment abordé, parce que qu’il nous contraint à nous retrouver face à nous-mêmes et à nos faiblesses. Nous exaltons les soi-disant « petites actions », facilement reproductibles, qui n’effraient sûrement pas les « gens » et même si nous sommes conscients de l’urgence et de la nécessité de l’attaque destructrice du système autoritaire-technologique, nous sommes peu enclins à nous mettre en jeu jusqu’au bout, à nous considérer en guerre et à agir en conséquence.
Il est certainement plus facile de se retrouver ensemble à des centaines ou milliers de personnes pour défendre un territoire menacé par une certaine éco-monstruosité, que seuls à en attendre le concepteur devant sa porte. Je ne parle pas de courage, chacun de nous ressent de la peur et met en œuvre ses stratégies pour la contrôler et la gérer ; même celui qui participe à une dite « lutte sociale » risque la prison ou d’être blessé (il y en a des centaines d’exemples), je pense que ce n’est pas là qu’est la distinction, mais dans quelque chose de plus compliqué, à savoir la décision d’entreprendre des pratiques de lutte qui ne prévoient aucune possibilité de médiation avec le pouvoir, qui expriment le refus total de l’existant.
Nous participons à des assemblées dans lesquelles nous avons l’illusion de contribuer à prendre des décisions, même si en général nous adhérons à ce qui est suggéré par les compagnons les plus charismatiques ; inévitablement le compromis se fait toujours vers le bas, d’ailleurs il faut toujours avancer tous ensemble (à chaque fois) et n’effrayer personne. Nous avons l’illusion de contribuer à un projet commun même si trop souvent il n’est pas le nôtre ; le fait de nous retrouver « au milieu des gens » nous donne l’illusion d’œuvrer concrètement à l’insurrection prochaine.
Nous pouvons partager nos responsabilités avec d’autres et espérer ne pas rester seuls si les choses tournent mal. Nous ne nous rendons pas compte de ce que représente la liberté individuelle que nous perdons, nous sommes même rassurés des limites imposées par l’assemblée, nous pouvons camoufler notre indécision derrière le risque que notre impatience ne nuise au projet commun.
Mais c’est seulement lorsque nous décidons de mettre totalement notre vie en jeu et que, individuellement ou avec nos semblables, nous frappons le pouvoir là où nous pouvons lui nuire, c’est seulement alors que nous avons le réel contrôle et que nous pouvons affirmer, avec joie et sérénité, que nous sommes en train de faire notre révolution. Mettre en œuvre une perspective d’attaque directe nous libère des entraves des luttes défensives, nous permet des perspectives infinies d’action et de liberté.
Je ne suis pas en train de faire la simple exaltation esthétique de l’acte individuel, je suis conscient que l’insurrection est un fait collectif qui éclatera quand les opprimés en armes se soulèveront, mais le sujet est la méthode avec laquelle contribuer à la provoquer, notre vie est courte et l’œuvre de démolition trop grande et nécessaire pour qu’il soit possible d’attendre que tous soient prêts. Je suis même convaincu que c’est seulement en soufflant sur le feu et avec l’exemple de l’action que nous pourrons approcher un tel moment.
Un autre frein que je vois à la possibilité d’attaque des anarchistes est le mode sur lequel de nombreux compagnons s’approchent du social, des dites « luttes sociales ». A mon avis, on part souvent d’une considération erronée, en se sentant différent des gens, et cela conduit à voir le social comme quelque chose sur lequel travailler, duquel s’approcher avec précaution pour ne pas l’effrayer et l’amener tout doucement à des positions plus avancées jusqu’à ce que, une fois prêt, nous nous retrouvions ensemble sur les barricades de l’insurrection.
Moi, je suis convaincu que les anarchistes font partie du social et doivent se comporter d’égal à égal avec les « autres », en combattant toutes ces attitudes « paternalistes » qui débouchent inévitablement sur la politique. Les anarchistes doivent frapper et attaquer avec toutes leurs forces, et d’autres qui ressentent les mêmes tensions prendront exemple sur notre action, nous trouverons de nouveaux complices et quand finalement tous les autres exploités décideront aussi de se soulever, éclatera l’insurrection.
Nous devons nous-même dicter nos échéances et moments de lutte, plus nous serons incisifs et en mesure de frapper les points justes, plus nous aurons de possibilités que se diffusent les pratiques d’attaque directe. Cela ne veut pas dire que l’on ne doit pas participer aux luttes qui naissent spontanément, mais nous devons le faire avec nos méthodes : le sabotage et l’action directe.
Si dans une certaine ville les personnes descendent dans la rue pour s’opposer à une nuisance, il n’est pas nécessaire de connaître chacune de ces personnes, que nous préparions la polenta ensemble et que pas à pas nous cherchions à faire élever de quelques centimètres la barricade qu’ils ont construit. Cela ne rapprochera pas la perspective insurrectionnelle, au contraire cela nous affaiblira, nous devons frapper l’entreprise qui construit, qui projette, qui finance la nuisance : nous devons mettre en évidence que chacun peut prendre en main sa propre vie et détruire ce qui le détruit. Nous devons nous affronter avec la police, non seulement quand elle tente de disperser une manifestation, mais la provoquer et l’attaquer, montrer que c’est possible, que l’on peut/doit frapper en premier ceux qui nous oppriment. On pourrait affirmer que ma façon de voir les choses et de comprendre l’action peut couver les germes de l’autoritarisme et de l’avant-gardisme.
Au contraire, je pense qu’elle contient en elle-même l’antidote à ces deux maux qui affligent l’action révolutionnaire. Les désirs propres ne se déguisent pas, on dit clairement qui l’on est et ce que l’on veut, et surtout dans un rapport paritaire avec les autres, on démontre qu’en armant ses propres passions chacun peut s’opposer concrètement à cet état des choses. À mon avis, la politique se niche justement dans le fait de se limiter pour rester en rythme avec tous les autres, dans le fait de mettre de côté certains discours pour ne pas « effrayer » les gens que l’on ne pense pas prêts à les comprendre.
Il doit être clair que les anarchistes cherchent des complices avec qui s’insurger et non pas une opinion modérément favorable aux vagues discours sur la liberté et l’autogestion. Une autre critique qui est souvent adressée à ceux qui pratiquent l’attaque contre l’État et le capital de manière plus ou moins intelligente, plus ou moins voilée, est celle de se jeter dans un tourbillon d’action-répression avec les appareils du pouvoir sans faire de pas en avant sur la voie de l’insurrection.
Bien sûr, il est difficile de nier que plus nous représenterons un danger pour le pouvoir, plus celui-ci s’acharnera à nous réprimer, mais cela, malheureusement, est naturel et un tel enchaînement de cause à effet s’interrompra seulement quand la multiplication et la diffusion des attaques provoquera la rupture insurrectionnelle. Penser que la révolution sera seulement le fruit de la prise de conscience des exploités, après des décennies d’« entraînement » dans le gymnase des luttes intermédiaires, guidés par une minorité éclairée qui lui tiendra la main, faisant à peine un pas vers eux, procrastinant continuellement le moment de l’affrontement armé, est une pure illusion.
Cette tactique est doublement perdante car en renonçant à l’action directe nous renonçons à vivre pleinement notre vie, à faire ici et maintenant notre révolution. Elle est également perdante car elle laisse entendre que l’État donnera le temps aux opprimés de se rendre compte de leurs propres conditions, de se reconnaître, de s’organiser et ensuite, peut-être, de s’insurger, avant de les écraser.
Un petit exemple pourrait être la Libre République de la Maddalena : balayée avant que quiconque puisse avoir l’illusion de représenter un réel danger pour l’autorité étatique. De plus, l’État, peut-être encore plus puissant que la force militaire, dispose d’une arme ultra-efficace : la récupération. Un exemple, quand le problème du logement se fait pressant, les luttes et les occupations se multiplient et les expulsions ne résolvent pas le problème, car le pouvoir peut jouer la carte de la légalisation. Une fois avec un toit sur la tête que fera l’exploité avec qui nous avons lutté côte à côte ? Peut-être qu’il en demandera plus, qu’il continuera à se rebeller, mais il sera plus facilement satisfait et nous serons contraints de nous plonger à corps perdu dans la prochaine lutte en espérant que cette fois ça aille mieux…
C’est uniquement quand notre action ne prévoit pas de possibilité de médiation, quand notre lutte est tournée vers la destruction de ce qui nous opprime que l’État ne peut pas nous arnaquer avec la récupération : ou il a la force de nous écraser ou il doit succomber.
Si nous avons la capacité d’essayer de diffuser la pratique de l’attaque et de l’action directe, si nous savons jeter de l’huile sur le feu des tensions sociales, en les exacerbant et en cherchant à en empêcher la recomposition, peut-être réussirons-nous réellement à incendier la prairie. Avant de conclure je voudrais m’arrêter sur un autre élément qui semble parfois être un frein à notre action : l’analyse des effets et des transformations de la domination. Trop souvent il semble que celle-ci ne serve pas à nous donner plus de capacité à avoir une incidence sur la réalité, mais à alimenter les peurs et le sentiment d’impuissance face à l’étendue du défi et à la monstruosité des nuisances à affronter.Plus nous analysons les aspects totalitaires et délétères de la technologie, plus nous dénonçons les projets autoritaires du pouvoir et moins nous affûtons nos armes. Nous terrorisons qui voudrait agir avec des connaissances plus ou moins approfondies sur les dernières trouvailles du contrôle.
Je ne soutiens pas que les analyses et les approfondissements ne servent à rien, mais qu’ils ne doivent pas devenir des fins en soi, des exercices de capacités intellectuelles détachés de l’action directe. A quoi cela sert-il de publier d’interminables listes d’entreprises responsables de la destruction de la nature si personne ne les attaque ? Rien que l’étendue et l’importance des appareils étatiques et économiques nous font déjà souvent douter de la possibilité de les frapper efficacement. Des désastres environnementaux comme la marée noire du Golfe du Mexique ou Fukushima semblent dire qu’il n’est pas possible de faire quoi que ce soit pour arrêter la guerre de la société industrielle contre l’homme et la nature.
Cependant nous ne sommes pas sans défenses, un minimum d’instruments d’analyse, l’action directe et la détermination de peu peuvent démontrer que nous ne sommes pas tous résignés à accepter passivement et en même temps indiquer aux autres exploités qu’il est encore possible de s’opposer. Par exemple l’action des compagnons du Noyau Olga de la FAI/FRI nous montre comment il est possible de se solidariser avec ceux qui subissent la catastrophe nucléaire, même à l’autre bout du monde, et de frapper concrètement l’industrie de l’atome.
J’espère que mes réflexions pourront servir à ouvrir un débat entre les compagnons, voué à mettre en lumière et à secouer tout ce qui nous limite dans l’action anarchiste. Courage et force pour les compagnons qui pratiquent l’action anonyme, courage et force à ceux qui donnent un nom à leur rage, courage et force à ceux qui avec leurs actions donnent vie à la FAI/FRI : il y a un monde entier à démolir.
Nicola Gai.
(prisonnier anarchiste accusé de la jambisation du patron d’une firme atomique, Roberto Adinolfi)
P.-S.
pour lui écrire :
Nicola Gai
Casa Circondariale di Ferrara, Via Arginone 327, ΙΤ-44122 Ferrara, Italie
Die Dringlichkeit der Attacke
(Nicola Gai)
Es ist mittlerweile eine etablierte Tatsache, dass wir in einer scheiß Welt leben. In der der Staat und das Kapital uns allen, quasi ungestört, alle möglichen Monstrositäten aufzwingen. Es ist auch gewiss, dass nur eine kleine Minderheit der Bevölkerung versucht sich dieser Unterdrückung der Räume der Autonomie und Freiheit, die das Leben lebenswert machen, auf mehr oder weniger bewusster Weise, entgegenzutreten. Als Teil dieser kleinen Minorität, sind wir AnarchistInnen uns der dringlichen Not bewusst, dass wir zerstören müssen, was uns kaputt macht: Wieso sind wir darin nicht bestimmter und bissiger?
Es ist mittlerweile eine etablierte Tatsache, dass wir in einer scheiß Welt leben. In der der Staat und das Kapital uns allen, quasi ungestört, alle möglichen Monstrositäten aufzwingen. Es ist auch gewiss, dass nur eine kleine Minderheit der Bevölkerung versucht sich dieser Unterdrückung der Räume der Autonomie und Freiheit, die das Leben lebenswert machen, auf mehr oder weniger bewusster Weise, entgegenzutreten. Als Teil dieser kleinen Minorität, sind wir AnarchistInnen uns der dringlichen Not bewusst, dass wir zerstören müssen, was uns kaputt macht: Wieso sind wir darin nicht bestimmter und bissiger?
Ohne Zweifel ist die Angst, unser Leben wirklich aufs Spiel zu setzten, eines der größten und ernstesten Hindernisse zur Aktion. Dies ist ein entscheidender Punkt des revolutionären Kampfes, welcher oft nicht genügend adressiert wird, da er uns dazu zwingt uns selbst und unseren Schwächen zu begegnen.
Wir predigen sogenannte leicht reproduzierbare „kleine Aktionen“, welche „die Leute“ bestimmt nicht verängstigen. Selbst wenn wir uns der Dringlichkeit und der Notwendigkeit von destruktiven Attacken auf das autoritäre technologische System bewusst sind, sind wir widerwillig die Sache bis zum Ende durch zu ziehen. Uns selbst im Krieg zu begreifen und konsequent dazu zu handeln.
Offensichtlich ist es viel leichter sich zusammen mit Hunderten/Tausenden anderen Leuten zu finden und ein Territorium zu verteidigen, das durch irgendeine Öko-Monstrosität bedroht wird, als alleine auf die PlanerIn (der Monstrosität), vor dem Haus zu warten. Ich spreche nicht über Tapferkeit. Jeder ist angsterfüllt und hat ihre Strategie um dies zu kontrollieren und damit umzugehen. Sogar jene, die an sogenannten ’sozialen Kämpfen’ teil nehmen, riskieren es im Knast zu landen oder verletzt zu werden. (Dafür gibt es hunderte Beispiele). Ich denke nicht, dass das die Unterscheidung ist. Es ist etwas komplexer. Z.b. Die Bestimmtheit Praktiken des Kampfs aufzunehmen, die keine Möglichkeit des Dialogs mit der Macht vorsehen und die totale Zurückweisung des Bestehenden ausdrücken.
Wir nehmen an Treffen teil, wo wir uns selbst täuschen, indem wir glauben, dass wir zu den Entscheidungen beitragen, sogar wenn es üblich ist, dass wir uns dem anpassen, was KameradInnen mit mehr Charisma vorschlagen. Unvermeidbar wirkt Kompromiss immer abschwächend wenn wir sagen, dass wir (jedes Mal) gemeinsam wachsen sollen, ohne jemanden zu verschrecken. Wir betrügen uns selbst, zu denken, dass wir zu einer Art kollektiven Projekt beitragen, während es oft nicht unser eigenes ist.
Die Tatsache, dass wir uns „unter den Leuten“ finden, gibt uns die Illusion, dass wir wirklich für die bevorstehende Insurrektion arbeiten. Wir können unsere Verantwortlichkeit mit anderen teilen und hoffen, dass wir nicht alleine sind, wenn die Sache eine böse Wende nimmt. Wir realisieren nicht, wie viel individuelle Freiheit wir verlieren, im Gegenzug fühlen wir uns versichert durch die aufgezwungenen Grenzen der Treffen wo wir unsere Unentschiedenheit hinter dem Risiko verstecken können, dass unsere Ungeduld das gemeinsame Projekt unterminieren könnte.
Es ist jedoch erst wenn wir uns entscheiden unsere Leben total aufs Spiel zu setzen. Wenn wir individuell oder mit Kameraden in Affinität, die Macht angreifen, dort wo wir mehr Schaden verursachen können. Nur dann haben wir totale Kontrolle über unsere Leben und sind fähig mit Freude und Klarheit zu sagen, dass wir unsere Revolution machen.
Durch die Realisierung einer Perspektive der direkten Attacke befreien wir uns von den Beschränkungen defensiver Kämpfe und öffnen unendliche Möglichkeiten der Aktion und der Freiheit. Ich mache nicht eine nur ästhetische Lobpreisung für die individuelle Aktion. Ich bin mir bewusst, dass die Insurrektion ein kollektives Ereignis ist, das ausbrechen wird, wenn die Unterdrückten in Waffen aufbegehren. Aber ich mache einen Punkt bezüglich der Methode um sie (die Insurrektion) zu provozieren. Das Leben ist kurz und die Arbeit der Zerstörung ist zu groß und zu notwendig um zu warten, bis alle bereit sind. Im Gegenteil, ich bin überzeugt, dass nur durch das schüren der Flamme, durch Exemplare der Aktion, wir diesem Moment näher kommen.
Ich denke ein weiteres Hindernis, für AnarchistInnen anzugreifen ist die Weise, wie sich viele KameradInnen den sogenannten sozialen Kämpfe annähern. Meiner Meinung nach starten wir oft mit falschen Überlegungen: Wir fühlen uns anders als die Leute und das bringt uns dazu die soziale Sphäre als etwas zu betrachten woran wir arbeiten und wo wir uns mit Vorsicht, um keine Angst zu erzeugen, annähern müssen. Um sie langsam zu fortgeschrittenen Positionen zu bringen, sodass, einmal bereit, wir alle zusammen auf den Barrikaden der Insurrektion sein können.
Ich bin überzeugt, dass AnarchistInnen Teil der sozialen Sphäre sind und sich mit den „anderen“ ohne die „paternalistischen“ Attitüden, die unweigerlich zu Politik führen, verbinden müssen. AnarchistInnen müssen zuschlagen und angreifen, mit all ihrer Kraft und andere die ähnliche Spannungen haben, werden den Beispielen unserer Aktionen folgen. Wir werden neue KomplizInnen finden und schließlich, wenn all die anderen Ausgebeuteten sich entscheiden aufzubegehren, wird die Insurrektion ausbrechen. Es liegt an uns die Zeit und den Zeitpunkt für den Kampf zu diktieren. Je deutlicher wir sind, je mehr wir bereit sind an den richtigen Plätzen zuzuschlagen, desto mehr erschaffen wir Möglichkeiten für die Praxis des direkten Angriffs. Das bedeutet nicht, dass wir nicht an Kämpfen teilnehmen, die spontan entstehen, aber wir müssen es mit unseren Methoden machen: Sabotage und direkte Aktion.
Wenn an einem bestimmten Ort Leute sich die Straßen nehmen um einer bestimmten Schädlichkeit gegenüberzutreten, ist es für uns nicht notwendig alle Leute einzeln kennen zu lernen, auch nicht mit ihnen Polenta zu kochen und zu versuchen, die Barrikaden, die sie gebaut haben um ein paar Zentimeter größer zu machen. Das wird die aufständische Perspektive nicht näher bringen, im Gegenteil, es wird unsere Stärke schwächen. Wir müssen die Firma verantwortlich für die Konstruktion der Schädlichkeit angreifen. Jene, die sie planen. Jene, die sie finanzieren: wir müssen es klar machen, dass jede sein Leben in die eigene Hand nehmen kann und zerstören kann, was sie zerstört. Wir müssen uns mit der Polizei konfrontieren, nicht nur wenn sie versuchen eine Demo aufzulösen, wir müssen sie provozieren und sie angreifen, damit die Leute sehen, dass es möglich ist, dass sie als erster zuschlagen können/müssen. Manche werden sagen, dass sich in meinem Weg die Dinge zu betrachten und Aktion zu verstehen, die Keime von Autoritarismus und Avantgardismus verbergen können.
Ich denke im Gegenteil, dass mein Weg das Gegengift zu zwei Übeln, die revolutionäre Aktionen plagen, beinhaltet. Man verschleiert seine Verlangen nicht, man sagt klar wer man ist und was man will, und darüber hinaus demonstriert man in einer gleichen Beziehung mit anderen, dass sich alle konkret entgegenstellen können, wenn sie ihre Leidenschaften bewaffnen.
Meiner Meinung nach beginnt Politik genau in der Weise, wie man sich selbst begrenzt, um mit anderen Schritt zu halten, in der Weise, dass man, um Leute nicht zu „verschrecken“, einen Diskurs weglässt, den sie noch nicht zu verstehen bereit scheinen. Es muss klar sein, dass AnarchistInnen nach KomplizInnen suchen, mit denen sie aufbegehren können und nicht nach einer öffentlichen Meinung die vage Ansprachen über Freiheit und Selbstverwaltung favorisiert.
Eine weitere Kritik, die oft an jene, mal mehr, mal weniger intelligent oder verschleiert, adressiert ist, die den Staat und das Kapital angreifen, ist das Risiko in einem Strudel aus Aktion/Repression stecken zu bleiben mit den Apparaten der Macht. Ohne auf dem Weg der Insurrektion voranzuschreiten. Natürlich kann es nicht verneint werden, dass je mehr wir eine Gefahr für die Macht darstellen, sie uns angreifen und unterdrücken wird. Aber unglücklicherweise ist dies natürlich, und diese Verkettung von Ursache und Wirkung wird nur aufhören, wenn die Verbreitung von Attacken einen insurrektionellen Bruch provoziert. Zu glauben, dass die Revolution eine Frucht des Bewusstseins der Ausgebeuteten ist, nach Jahrzehnten „Training“ in den Gymnasien der intermediären Kämpfe, angeführt von einer erleuchteten Minorität die ihre Hand (die der Ausgebeuteten) hält und einen kleinen Schritt vorwärts macht, um den Moment der bewaffneten Konfrontation kontinuierlich aufzuschieben, ist reine Illusion.
Diese Taktik ist eine zweifache Verliererin: Erstens, weil durch das Verzichten auf die direkte Aktion wir darauf verzichten, unsere Leben voll und ganz zu leben und unsere Revolution im hier und jetzt zu machen. Und zweitens, da sie suggeriert, der Staat würde den Ausgebeuteten Zeit geben, sich ihrer Bedingungen bewusst zu werden, sich kennen zu lernen, sich selbst zu organisieren, und vielleicht sogar aufzubegehren, bevor er sie zermalmt. Als ein simples Beispiel kann die freie Republik Maddalena gesehen werden: weggeschwemmt bevor sich irgendwer selbst betrügen konnte und glauben, dass sie eine wirkliche Gefahr für die Staatsautorität darstellten.
Weiters hat der Staat eine sehr effiziente Waffe, vielleicht mächtiger als das Militär: Rekuperation. Zum Beispiel, wenn die Wohnungsnot dringlich wird und Kämpfe und Squatten sich multiplizieren, wenn Räumungen das Problem nicht lösen, kann die Macht die Karte der Legalisierung spielen. Wenn sie einmal ein Dach über dem Kopf haben, was werden die Ausgebeuteten, mit denen wir zusammen gekämpft haben, tun? Vielleicht werden sie mehr verlangen und weiter rebellieren, aber es ist wahrscheinlicher, dass sie zufrieden sein werden, während wir gezwungen sind uns kopfüber in den nächsten Kampf zu stürzen, in der Hoffnung dieses Mal glücklicher zu sein… Nur wenn unsere Aktionen keine Möglichkeiten der Verhandlung in Betracht ziehen, wenn unser Kampf auf die Zerstörung dessen abzielt, was uns unterdrückt, wird der Staat nicht fähig sein uns mit der Rekuperation auszutricksen: entweder hat er die Stärke uns zu zerdrücken oder er muss klein beigeben. Wenn wir die Fähigkeit haben und versuchen die Praxis der Attacke und der direkten Aktion zu verbreiten, wenn wir die Möglichkeit haben Benzin auf das Feuer der sozialen Spannung zu gießen, durch anheizen und verhindern, dass sie sich wieder neu ordnen, vielleicht werden wir dann in der Lage sein die Prärie in Brand zu stecken.
Bevor ich zum Ende komme, möchte ich einen weiteren Aspekt, der ein Hindernis für die Aktion scheint untersuchen: die Analyse der Effekte und der Transformation der Herrschaft. Viel zu oft scheint es, als dass die Analyse nutzlos ist und uns nicht die Möglichkeit gibt die Realität zu beeinflussen; im Gegenteil, sie nährt Angst und das Gefühl der Impotenz im Angesicht der Ausmaße der Herausforderung der Monstrosität der Schädlichkeit, der wir entgegenstehen. Je mehr wir die autoritären und schädlichen Aspekte der Technologie analysieren und die autoritären Projekte der Macht denunzieren, desto weniger schärfen wir unsere Waffen.
Mit mehr oder weniger entwickelten Forschungsergebnissen über den letzten Durchbruch der Kontrolle, terrorisieren wir jene, die gerne agieren wollen. Ich sage nicht, dass wir keine Analysen brauchen aber das sie kein Selbstzweck für sich werden dürfen, Übungen intellektueller Fähigkeiten, getrennt von der direkten Aktion. Was ist der Sinn dahinter, endlose Listen von Firmen, verantwortlich für die Zerstörung der Natur zu publizieren, wenn sie niemand angreift? Bereits das Ausmaß und die Schrecklichkeit des Staats und der Ökonomie lässt uns zweifeln, ob wir eine Chance haben sie effektiv zu treffen. Ökodesaster wie das Ölmeer am Golf von Mexiko oder Fukushima scheinen zu suggerieren, dass es nicht möglich ist, den Krieg zu stoppen, den die Industrielle Gesellschaft dem Menschen und der Natur erklärt hat.
Trotz allem sind wir nicht hilflos. Bloße Instrumente der Analyse, direkte Aktion und die Bestimmtheit von Wenigen kann demonstrieren, dass wir nicht alle resigniert sind, die Passivität zu akzeptieren und zur selben Zeit zeigen sie den Ausgebeuteten, dass es immer möglich ist zurückzuschlagen. Als Beispiel zeigt uns die Aktion der Olga Zelle der FAI/FRI, dass es möglich ist Solidarität auszudrücken, mit jenen die unter der nuklearen Katastrophe leiden, sogar auf der anderen Seite der Welt und die nukleare Energieindustrie effektiv treffen.
Ich hoffe, dass meine Überlegungen als Start für eine Debatte unter KameradInnen dient, mit dem Ziel alles hervorzuheben und zu entfernen das unsere anarchistische Aktion begrenzt. Mut und Stärke an die KameradInnen, die anonyme Aktionen ausführen, Mut und Stärke an jene, die ihrer Wut einen Namen geben, Mut und Stärke an jene, die mit ihren Aktionen die FAI/FRI geboren haben: Es gibt eine ganze Welt zu nieder zu reißen.
Nicola Gai
P.S.
Adressen:
Alfredo Cospito
Nicola Gai,
Casa Circondariale di Ferrara,
Via Arginone 327,
ΙΤ-44122 Ferrara,
Italia
http://www.non-fides.fr/?Die-Dringlichkeit-der-Attacke