Alle Origini del Potere (it/fr)

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Aviv Etrebilal

«Non amo i popoli, amo solo i miei amici»
Hannah Arendt

 

Un mito è un racconto che si ritiene esplicativo e soprattutto fondatore di una pratica sociale comune. Può essere portato originariamente da una tradizione orale, che propone una spiegazione per certi aspetti fondamentali del mondo e della società che ha forgiato o che veicola detti miti, può anche essere costruito di sana pianta da gruppi che hanno la ferma intenzione di servirsene per i propri fini.

Il mito è fondatore per definizione. Fonda religioni, nazioni, popoli, identità. Partiamo qui dall’evidenza che il mito, come la religione, è uno strumento d’oppressione e di auto-oppressione, di servitù a false utopie, utile solo a minoranze – o anche a maggioranze nell’ambito di un democraticismo utopico – per consolidare il loro dominio sulla base di un’adesione ben accetta. Il fatto di governare è inseparabile dal mito e dalla creazione di un immaginario, e l’analisi materialista della storia di un Marx per esempio, che nella storia umana vuol vedere solo rapporti economici laddove ci sono sogni, credenze, miti e ideologie, appare superficiale se si considera, più che le quotazioni del grano, la storia delle idee e dei rapporti fra individui e gruppi di individui.
Si possono fare numerosi esempi. I sistemi totalitari moderni più brutali e assolutisti, come quelli diffusi nella prima metà dello scorso secolo (nazismo, fascismi, etc.), erano tutti basati su un immaginario ed una base di comuni credenze differenti: l’esistenza di divisioni razziali in seno all’umanità accompagnata da una gerarchia fra di esse, la necessità di un superuomo per guidare il gregge dei deboli, la volontà di ritornare a una forma mitica priva di ogni esistenza reale (la romanità, la Grande Germania, etc.) o ancora la negazione delle differenze fra individui che conduce ad una forzata unità sotto forma di una massa immaginata come tendente alla totalità e altri miti fondatori.
La nazione stessa, per la quale il sangue non ha mai cessato di essere versato in nome di interessi che non sono quelli degli individui, non è altro che il prodotto di un immaginario utilitarista e un assemblaggio di miti sparsi. I creatori di nazionalismi sono talvolta disposti ad ammetterlo loro stessi, fino a farne la propria forza. In effetti, è innegabile che non c’è nazionalismo che non si fondi su miti e visioni erronee della storia. La Nazione è un concetto vicino a quello di Popolo, che a sua volta è un concetto mobilitante basato su interpretazioni semplicistiche della storia. La nazione come il popolo si ritiene che ricoprano la pseudo-realtà di una comunità umana identificata entro dei confini geografici (talvolta fluttuanti nel corso della storia), ma il cui presunto tratto comune è la coscienza di un’appartenenza allo stesso gruppo. Ma in fondo, quale appartenenza comune esiste fra piccardi, celti e germani dei secoli passati, integrati più o meno forzatamente nella gogna dell’assai concettuale nazione francese e del suo Stato? Nessuna, se non un’umanità non meno differente da quella dell’aborigena Australia. È quindi a partire dal mito che si possono forgiare nei sogni concetti come Nazione o Popolo. Di fatto apparteniamo a una nazione come apparteniamo a una religione, si è francesi o tedeschi come si è cattolici o musulmani, ovvero grazie all’addomesticamento civilizzatore. Nulla nei nostri geni ci collega a un popolo, a una terra o ad una nazione. Come scriveva Rocker nel 1937 nel suo Nazionalismo e cultura, non esiste Stato che non consista in un gruppo di popolazioni diverse che in origine erano di differenti discendenze e differenti lingue, forgiate insieme in nazione unica soltanto da interessi dinastici, economici e politici.
Il bisogno del mito è costante nella storia dell’umanità, è intrinseco in tutte le dinamiche di potere e di gestione delle popolazioni, in altre parole, nella politica. Non ci sarebbe nessun bisogno di politica se l’uomo non provasse il bisogno universale e tellurico di raggrupparsi, ma come governare degli uomini senza stabilirne i criteri di raggruppamento? Di fatto, in questo mondo gli individui non si scelgono gli uni con gli altri, non si associano ma vengono associati. Ciò significa che essi non hanno alcun potere sui criteri ritenuti in grado di radunarli fra di loro e raggrupparli attorno ad una nazione, un paese, un popolo o tra le frontiere prestabilite di uno Stato. E se in quanto individuo posso sentirmi più vicino ad un individuo “Quechua” del Perù che a un mio fratello biologico, non sono comunque io a scegliere quello che sono agli occhi del potere: la mia carta di identità attesta che sono francese, che i miei occhi sono di tale colore e che a mia madre si sono rotte le acque in quell’angolo del globo, ed è questo che mi definisce, non la mia creatività, non le mie idee, non il mio modo di vivere e di amare. Quando si espelle una persona che ha attraversato una frontiera senza le autorizzazioni necessarie, se gli accordi diplomatici fra Stati lo permettono, viene rimandata nel suo paese. I poliziotti, giudici e altri prefetti che eseguono tale ordine nei diversi anelli della catena del comando non si pongono la domanda di sapere se l’individuo in questione (che non è di fatto un individuo, ma una particella di una unità più vasta, come un paese) identifichi quel paese come il suo. Non è in discussione se egli vi abbia già vissuto indipendentemente dalla nascita o da un timbro in un ufficio, se il suo cuore abiti accanto ad un essere caro che è qui o altrove non rientra nemmeno nell’equazione, poiché la sua identità geografica è forgiata da un timbro e non dal luogo in cui il suo cuore ha scelto di gettare l’ancora.
Il raggruppamento in un mondo in cui la vita in comune è basata sul principio di autorità è esattamente questo: l’assenza di scelta, il predominio della ragione di Stato sulle ragioni del cuore. La libertà è quindi bandita dalle forme di associazione che ci vengono imposte ancor prima di essere in grado di fare le nostre scelte. E se non possiedo il carburante della vita soggetta alla dominazione, il denaro, non potrò mai rinunciare del tutto a questo sistema di dominio, esso stesso basato in buona parte sul denaro.

«Se un’unione si è cristallizzata in una società, ha cessato di essere un’unione, perché l’unione è un riunirsi incessante; l’unione diventata un essere-già-riuniti, stabilizzatasi […] è il cadavere dell’unione, cioè è – una società, una comunità»
Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà, 1845

Perché quindi siamo raggruppati, parcheggiati all’interno di categorie immaginarie come la nazione, lo stato, il popolo o l’etnia? Perché, per governare, occorre sapere chi si governa, occorre delimitare i contorni di un “dominion” da governare, e bisogna ben trovare dei criteri geografici per delimitare e creare una mitologia in grado di assicurare la coesione di questi criteri geografici per forza di cose irrazionali. Qui, il mito gioca il suo ruolo mobilitante che crea adesione, giacché è più facile aderire a una forma di dominio quando essa si traveste col velo del mito che quando il ferro rutilante della sua spada si mostra così com’è. La forza metafisica del mito si esprime nel fatto che provoca ben più della semplice accettazione, provoca l’adesione e anche l’entusiasmo fino al sacrificio; le guerre fra nazioni, etnie e religioni attraverso il mondo e la storia lo testimoniano.
Abbiamo dunque visto che, per dominare, bisogna poter raggruppare e che per raggruppare occorre un mito. Le dittature più fredde che non si sono minimamente agghindate col velo mitico non sono mai durate. Ad ogni forma di Stato occorre una forma di religiosità per durare, una giustificazione ontologica spiritualizzata, giacché la pura violenza può essere efficace solo per un periodo, fino a quando l’intollerabilità di questa vita esplode in faccia al potere; il mito serve appunto a rendere sopportabile la vita sotto il dominio. Avere una religione, una comunità, una ideologia e altri artifici per renderci comuni piuttosto che unici, permette di dare un senso accomodante e confortevole alla propria vita, permette di ripulirla da ogni singolarità, come una maniera vile di scongiurare l’assurdità del mondo e della vita, che preferiamo impaurita e messa in sicurezza piuttosto che libera e azzardata. Da tutti i lati dello spettro del dominio, dalla sinistra alla destra del potere, i dominatori hanno interesse a sviluppare questi meccanismi di appartenenza immaginaria, talvolta persino fino a farli diventare pericolosi per il potere in carica. Si tratta di ridurre gli effetti distruttivi e smobilitanti della guerra permanente che impone necessariamente la forma statale.
George Sorel, grande teorico del sindacalismo rivoluzionario, principale introduttore del marxismo in Francia e noto proto-fascista, teorizzava l’importanza del mito in politica e il suo ruolo mobilitante, senza il quale nessuna conquista di potere stabile è possibile. Sceglierà di sviluppare il mito dello sciopero generale, consapevole (per sua stessa ammissione) che questo non avverrà mai, giacché poco importa in fondo che accada o meno, non è questo lo scopo, il fine autentico di questa strategia non è in realtà lo sciopero generale, ma la mobilitazione di una massa acritica di credenti pronti a sacrificarsi per raggiungere gli obiettivi da lui scelti.
Non è che la forma più basilare della manipolazione delle folle, in altre parole, la politica. In altre parole ancora, ciò si chiama prendere le persone per coglioni, cosa efficace se ci si attiene alla storia. Il ruolo mobilitante del mito in Sorel – in particolare quello dello sciopero generale – e la funzione anti-integratrice e rigeneratrice della violenza aveva come solo scopo quello della presa del potere al posto del potere in carica.
Il fascismo francese, così come fu definito da Sternhell e che ispirerà presto il differente fascismo italiano, il quale sì arriverà al potere, fu una delle prime teorie moderne ad ammettere freddamente che la creazione del mito non è di fatto che una mossa tattica in cui si può certo finire per credere, ma il cui solo scopo è mobilitare le truppe per la conquista ed il mantenimento del potere. Si imprigiona, si uccide, si mutila, si mente, si domina, ma ciò è accettabile, perché è per una ragione superiore, quella stessa ragione che trasforma questa vita da cani in una vita accettabile; o, almeno, più accettabile dell’assurdità della creatività totale e dell’abbandono di ogni modello predefinito. È così che, per mezzo di un «contratto sociale», si finisce per affidare il controllo della propria vita ad uno Stato, il proprio corpo ad un padrone, la propria salute ad un medico, la propria responsabilità individuale a un giudice che ci giudicherà meglio di noi stessi.
Non esiste Contratto Sociale senza mito fondatore, e non vi è un solo sistema politico che non sia durato senza una mitologia sacrificale che assicura la sua sussistenza e l’adesione delle masse al suo calendario mortale. Senza unità, nessuna coesione sociale e, senza mito, nessuna coesione fra persone che a priori non hanno alcun interesse in comune. In effetti, quale poteva essere l’interesse comune fra il semplice soldato che è stato carne da cannone nelle trincee del grande massacro del 14-18 e il grosso industriale, se non quello – basato sulla polvere del mito – della nazione in pericolo? Come spiegare la Sacra Unione se non attraverso la forza metafisica e la miracolosa capacità mobilitante del mito? La Sacra Unione era il nome dato al movimento di riconciliazione politica che ha unito i francesi di ogni tendenza politica e religiosa e di tutte le classi durante lo scatenamento della Prima Guerra Mondiale. Il termine venne utilizzato per la prima volta alla Camera dei deputati il 4 agosto 1914, dal presidente Poincaré nel suo messaggio alle Assemblee. L’unione fu collaudata nei fatti immediatamente perché l’insieme delle organizzazioni sindacali e politiche di sinistra, essenzialmente la CGT e la SFIO, si allinearono al governo. Questa unanimità nazionale durò fino alla fine del conflitto, fatta eccezione per qualche dissidenza di sinistra o anarchica o per qualche troppo raro ma bellissimo ammutinamento di soldati delle due parti. Un movimento analogo si produsse nell’insieme delle parti belligeranti come in Inghilterra, in Russia o in Germania, quando il Partito socialista di Germania, il SPD, votò l’ingresso in guerra nell’agosto 1914, lanciando il movimento che prese il nome di Burgfrieden. La Sacra Unione confermerà le tesi fasciste di Sorel sul ruolo mobilitante del mito, in tal caso quello della nazione minacciata; e sulla funzione rigenerante della violenza, nello specifico la guerra e i suoi effetti rigeneranti sull’economia e sull’unione di diverse frange contro altre.

«Dobbiamo essere terribili per dispensare il popolo dall’esserlo»
Danton, discorso del 10 marzo 1793

Prendiamo la nota ideologia del contratto sociale, detta contrattualismo. Il contrattualismo è una corrente moderna della filosofia politica che pensa l’origine della società e dello Stato come un contratto originario fra gli uomini, attraverso il quale questi accettano una limitazione della propria libertà in cambio di leggi che garantiscano la perpetuazione di una data società. Il contratto sociale presuppone uno stato di natura con cui rompere, stato preesistente a qualsiasi società organizzata. Questo stato di natura non corrisponde affatto ad una realtà antecedente l’instaurazione delle leggi, ma allo stato teorico e ipotetico dell’umanità sottratta ad ogni legge presente nella mente di qualche teorico all’origine dei moderni modi di governare. Abbandonare questo stato di natura benché così ipotetico, se non bislacco, è la ragione invocata per giustificare il trasferimento del controllo di ogni individuo sulla propria vita a quello di una entità vasta e strutturata da un potere e da leggi, cioè allo Stato.
La teoria del contratto sociale, rompendo con il naturalismo politico dei filosofi classici (platonici e aristotelici), ha provocato l’emergere della nozione di uguaglianza politica, formale e materiale, mito fondatore di numerose forme di Stato attraverso gli ultimi secoli, dall’Urss alle attuali democrazie parlamentari e capitaliste, senza mai garantire in realtà una qualsivoglia uguaglianza, nemmeno una uguaglianza nella miseria.
Ponendosi in prima fila fra i pensatori della «scienza» giuridica e della filosofia di Stato, Grotius fu il primo nella storia della filosofia politica, nel XVII secolo, a teorizzare il contratto sociale moderno. Il contrattualismo sarà ripreso e discusso da Kant, Fichte ed Hegel, i quali tenteranno di riconciliare la «libertà originaria e radicale dell’uomo» (Hegel) con lo Stato e il riconoscimento sociale. Ma i pensatori che possono essere oggi identificati come i principali teorici del contrattualismo, all’origine del nostro modo di vita attuale, sono certamente Hobbes e Rousseau (ma anche Locke, in maniera meno importante).
Perché questa società? Perché la società? Perché vivere con uomini e donne con cui non si vuole necessariamente vivere, e perché sottomettersi a regole alle quali non si è scelto di sottomettersi? Tanti interrogativi che iniziano a malapena a tormentare un XVII secolo in piena crisi di significato. Ma di fronte a questi interrogativi ai quali di fatto è impossibile rispondere se si estromette consapevolmente la possibilità di un altro mondo costruito sulla libera associazione degli individui secondo i propri criteri e senza alcuna autorità al di sopra delle loro teste, di fronte a questi interrogativi che avrebbero potuto far sorgere risposte incendiarie, che avrebbero potuto lasciar posto ad una esplosione di creatività iconoclasta e all’abbandono di tutti i modelli del vecchio mondo, questi filosofi hanno costruito schemi rigidi, strutture ideologiche nelle quali era impossibile immaginare altra cosa senza essere immediatamente tacciati di anti-modernismo e di andare contro il senso di marcia dell’inevitabile Progresso. Attraverso queste strutture di potere, costoro hanno veicolato ciò che pensavano di dover porre al centro della società. Rousseau, che per schematizzare si distaccherà creando dopo di lui una specie di ala sinistra del contrattualismo, porrà al centro di questo contratto sociale l’uguaglianza, mentre Hobbes, precursore della destra moderna, privilegerà la sicurezza. Per i propri fini, i due preconizzeranno comunque di barattare una parte di libertà contro un po’ di uguaglianza per l’uno o di sicurezza per l’altro.
Entrambi partono quindi dal principio che la libertà è divisibile, che può frammentarsi in piccoli pezzi e che si può, come con un mercante di tappeti sull’agorà, barattare un piccolo pezzo di libertà contro un piccolo pezzo di qualcos’altro. La libertà è così vista come qualcosa di quantificabile, misurabile, sezionabile, parziale.
Questa visione della libertà è oggi al potere, negli emicicli come nella testa di ciascuno, che sia parlamentare, extraparlamentare o anche rivoluzionario, l’essere umano moderno frammenta la libertà in piccoli pezzi e la coniuga al plurale piuttosto che al singolare. Libertà di espressione, libertà di installazione, libertà di circolazione, libertà di lavorare, libertà di non lavorare e le diverse declinazioni giuridiche: diritti dell’uomo, diritto alla vita, diritti dell’infanzia, diritto alla casa, diritto al lavoro, diritto del lavoro, diritti degli animali, diritti delle donne, etc. E così si dà agli oppositori, siano essi più o meno rivoluzionari, un osso da rosicchiare, dei chiodi fissi da difendere in grado di garantire al potere che rimarranno nei confini prestabiliti dal potere e dalla legalità, nei confini di una lotta delimitata dalla borghesia e pattuita con lo Stato.
Quale potere vorrebbe veder nascere movimenti insurrezionali di massa che non rivendicano niente, che non gli domandano niente, nemmeno una briciola di libertà, che non vogliono nemmeno riconoscere la sua esistenza e cessano di dialogare con esso se non attraverso la distruzione?
Penso che la lotta contro ogni autorità cominci con l’affermazione dell’individuo come essere indivisibile e non sezionabile, come un’unità e non come una particella di unità che si può allineare nelle categorie del potere. Essa necessita di un pensiero e di una pratica iconoclasta in quanto deve avere come fine la distruzione di tutti i miti mobilitanti che permettono ai poteri di dividere l’umanità, di effettuare raggruppamenti autoritari secondo criteri – come gli Stati, le Nazioni, le etnie, le religioni, le ideologie – che non sono quelli dell’individuo. Questa lotta non deve accettare che si possa dividere la libertà in categorie separate e mercificate, la libertà non si coniuga, non si negozia, non si compra né si baratta, essa è totale e indivisibile oppure non è, come l’individuo. Citiamo ancora Stirner: «La libertà non può essere che tutta la libertà; un pezzo di libertà non è la libertà».
La lotta contro l’autorità è il rifiuto totale di ogni forma di gestione dell’essere umano, e quindi di ogni forma di politica. Bisognerà sbarazzarsi di tutti i miti fondatori per distruggere le fondamenta sociali e ritrovare una libertà che possa coniugarsi solo al singolare.

Aviv Etrebilal

[scritto nel gennaio 2011, pubblicato ora da Ravage Editions]

 

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Aux origines du pouvoir

Mythe, nationalisme et politique : analyse de quelques outils de domination

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[NdNF : Un texte à relire en ces temps troubles d’unité nationale, d’exaltation du Contrat Social et des valeurs démocratiques, toutes basées sur des mythes et des soumissions de l’individu à des impératifs autoritaires de masse.]

 

« Je n’aime pas les peuples, je n’aime que mes amis. »
Hannah Arendt.

Un mythe est un récit qui se veut explicatif et surtout fondateur d’une pratique sociale commune. Il peut être porté à l’origine par une tradition orale, qui propose une explication pour certains aspects fondamentaux du monde et de la société qui a forgé ou qui véhicule ces mythes, il peut aussi être fabriqué de toutes pièces par des groupes qui ont la ferme intention de s’en servir à leurs fins. Le mythe est fondateur par définition. Il fonde les religions, les nations, les peuples, les identités. Nous partons ici de l’évidence que le mythe, comme la religion, est un instrument d’oppression et d’auto-oppression, de servitude à de fausses utopies ne servant qu’à des minorités -ou bien des majorités dans le cadre du démocratisme utopique- à asseoir leur domination sur un socle d’adhésion bienvenue. Le fait de gouverner est inséparable du mythe et de la création d’un imaginaire, et l’analyse matérialiste de l’histoire d’un Marx par exemple, qui ne veut voir dans l’histoire humaine que des rapports économiques là où se trouvent des rêves, des croyances, des mythes et des idéologies paraît bien légère si l’on considère plus l’histoire des idées et des relations entre les individus et les groupes d’individus que les cours du blé.

On peut citer de nombreux exemples. Les systèmes totalitaires modernes les plus brutaux et absolus, tels ceux qui ont parsemé la première moitié du siècle dernier (nazisme, fascismes etc.), étaient tous basés sur un imaginaire et un socle de croyances communes différentes : l’existence de divisions raciales au sein de l’humanité accompagnée d’une hiérarchie entre elles, la nécessité d’un surhomme pour guider le troupeau des faibles, la volonté d’un retour à une forme mythique n’ayant aucune trace d’existence réelle (la romanité, la Magna Germania etc.) ou encore la négation des différences entre les individus menant à l’unité forcée sous la forme d’une masse imaginée comme tendant vers la totalité et autres mythes fondateurs.

La nation elle-même, pour laquelle le sang n’a jamais cessé d’être versé au nom d’intérêts qui ne sont pas ceux des individus, n’est rien d’autre que le produit d’un imaginaire utilitaire et un assemblage de mythes épars. Les créateurs de nationalismes sont parfois prêts à l’admettre d’eux-mêmes, jusqu’à en faire leur force. En effet, il est indéniable qu’aucun nationalisme ne se fonde sur autre chose que sur des mythes et des visions erronées de l’histoire. La Nation est un concept proche de celui de Peuple, qui est lui-même un concept mobilisateur basé sur des interprétations simplistes de l’histoire. La nation comme le peuple sont censés recouvrir la pseudo-réalité d’une communauté humaine identifiée dans des limites géographiques (parfois fluctuantes au cours de l’histoire), mais dont le trait commun supposé est la conscience d’une appartenance à un même groupe. Mais au fond, quelle appartenance commune entre picards, celtes et germains des siècles passés, intégrés de force ou non dans le carcan de la très conceptuelle nation française et de son Etat ? Aucune, sinon une humanité non moins différente de celle de l’aborigène d’Australie. C’est donc à partir du mythe que l’on peut forger dans les rêves des concepts comme Nation ou Peuple. De fait nous appartenons à une nation comme nous appartenons à une religion, on est français ou allemand comme on est catholique ou musulman, c’est-à-dire par le biais de la domestication civilisatrice. Rien dans nos gènes ne nous rattache à un peuple, une terre ou une nation. Comme le décrivait Rocker en 1937 dans son Nationalisme et culture, il n’y a pas d’État qui ne consiste pas en un groupe de populations différentes qui étaient à l’origine de différentes descendances et de différentes langues, forgées ensemble en nation unique seulement par des intérêts dynastiques, économiques et politiques.

Ce besoin du mythe est constant dans l’histoire de l’humanité, il est intrinsèque à toutes les dynamiques de pouvoir et de gestion des populations, autrement dit, à la politique. Il n’y aurait nul besoin de politique si l’homme ne ressentait pas le besoin universel et tellurique de se regrouper, mais comment gouverner des hommes sans décider soi-même des critères de regroupement de ceux-ci ? De fait, les individus dans ce monde ne se choisissent pas les uns les autres, ils ne s’associent pas, mais sont associés. C’est-à-dire qu’ils n’ont aucun pouvoir sur les critères qui sont censés les rassembler entre eux et les regrouper autour d’une nation, d’un pays, d’un peuple ou entre les frontières préétablies d’un État. Et si en tant qu’individu je peux me sentir plus proche d’un individu « Quechua » du Pérou que de mon frère biologique, ce n’est de toute façon pas moi qui choisis ce que je suis aux yeux du pouvoir : ma carte d’identité affiche que je suis français, que mes yeux sont de telle couleur et que ma mère a perdu les eaux à tel endroit du globe, et c’est cela qui me définit, pas ma créativité, pas mes idées, pas ma façon de vivre et d’aimer. Lorsque l’on expulse une personne qui a traversé une frontière sans les autorisations nécessaires, si les accords diplomatiques entre États le permettent, il est renvoyé dans son pays. Les policiers, juges et autres préfets qui effectuent cette tâche aux divers maillons de la chaîne de commandement ne se posent pas la question de savoir si l’individu en question (qui n’est en fait pas un individu, mais une parcelle d’une unité plus large, comme un pays) identifie ce pays comme le sien. S’il y a même déjà vécu autre chose qu’une naissance ou un coup de tampon dans un bureau n’est pas la question, si son cœur habite aux côtés d’un être cher qui est ici ou encore ailleurs ne rentre pas dans l’équation non plus, puisque son identité géographique est forgée par un coup de tampon et non pas par l’endroit où son cœur a choisi de jeter l’ancre.

Le regroupement dans un monde où la vie en commun est basée sur le principe d’autorité c’est justement cela : l’absence de choix, la prédominance de la raison d’Etat sur les raisons du cœur. La liberté est donc bannie des formes d’associations qui nous sont imposées avant même que nous ne soyons capables de faire nos propres choix. Et si je ne possède pas le carburant de la vie sous domination, l’argent, je ne pourrai jamais me départir entièrement de ce système de domination, lui-même en partie basé sur l’argent.

« Lorsqu’une association s’est cristallisée en société, elle a cessé d’être une association, vu que l’association est un acte continuel de réassociation. Elle est devenue une association à l’état d’arrêt, elle s’est figée. […] Elle n’est plus que le cadavre de l’association ; en un mot, elle est devenue société communauté. »
Max Stirner, L’Unique et sa propriété, 1845.

Pourquoi donc sommes nous regroupés, parqués à l’intérieur de catégories imaginaires comme la nation, l’Etat, le peuple ou l’ethnie ? Parce qu’il faut, pour gouverner, savoir qui l’on gouverne, il faut délimiter les contours d’un dominion à gouverner, et il faut bien trouver des critères géographiques pour délimiter, et créer une mythologie pour assurer la cohésion de ces critères géographiques forcément irrationnels. Là, le mythe joue son rôle mobilisateur en créant de l’adhésion, car il est plus facile d’adhérer à une forme de domination lorsqu’elle se travestit du voile mythique que lorsque le fer rutilant de son épée apparaît tel qu’il est. La force métaphysique du mythe tient dans le fait qu’elle provoque bien plus que la simple acceptation, elle provoque l’adhésion et même l’enthousiasme jusqu’au sacrifice, les guerres entre nations, ethnies et religions à travers le monde et l’histoire en témoignent.

Nous avons donc vu que pour dominer, il faut pouvoir regrouper, et que pour regrouper il faut du mythe. Les dictatures les plus froides qui ne se sont pas mêmes parées du moindre voile mythique n’ont jamais duré. Il faut à toute forme d’État une forme de religiosité pour perdurer, une justification ontologique spiritualisée, car la violence pure ne peut être efficace qu’un temps, jusqu’à ce que l’insupportable de cette vie éclate à la face du pouvoir, le mythe sert justement à rendre la vie sous domination supportable. Avoir une religion, une communauté, une idéologie et autres artefacts pour nous rendre communs plutôt qu’uniques permet de donner un sens facile et confortable à sa vie, il permet de la laver de toute singularité, comme une façon lâche de conjurer l’absurdité du monde et de la vie, que nous préférons balisée et sécurisée à libre et risquée. De tous les côtés du spectre de la domination, de la gauche à la droite du pouvoir, les dominants trouvent donc leur intérêt au développement de ces mécanismes d’appartenance imaginaires, parfois même jusqu’à ce qu’ils deviennent dangereux pour le pouvoir en place. Il s’agit de réduire les effets destructeurs et démobilisateurs de la guerre permanente qu’impose nécessairement la forme étatique.

George Sorel, grand théoricien du syndicalisme révolutionnaire, principal introducteur du marxisme en France et proto-fasciste notoire, théorisera l’importance du mythe en politique et son rôle mobilisateur, sans lequel aucune prise de pouvoir durable n’est possible. Lui fera le choix de développer le mythe de la grève générale, bien conscient (de son propre aveu) que celle-ci n’adviendra pas, car peu importe au fond que celle-ci advienne ou non, elle n’est pas le but, la fin réelle de cette stratégie n’est en réalité pas la grève générale, mais la mobilisation d’une masse acritique de croyants prêts à se sacrifier pour atteindre ses objectifs à lui.
Cela n’est rien d’autre que la forme la plus basique de manipulation des foules, autrement dit, la politique. Dit encore autrement, cela s’appelle prendre les gens pour des cons, chose efficace si l’on en croit l’histoire. Le rôle mobilisateur du mythe chez Sorel — en particulier celui de la grève générale — et la fonction anti-intégratrice et régénératrice de la violence n’avaient en fait pour but que la prise de pouvoir à la place du pouvoir en place.

Le fascisme français, tel qu’il fut nommé par Sternhell et qui inspirera bientôt le diffèrent fascisme italien, qui accédera lui, au pouvoir, fut l’une des premières théories modernes à admettre froidement que la création du mythe n’est en fait qu’un enjeu tactique dans lequel on peut certes finir par croire soi-même, mais dont le seul but est de mobiliser des troupes pour la prise de pouvoir, et le maintien de celui-ci. On incarcère, on tue, on mutile, on ment, on domine, mais cela est acceptable, car c’est pour une raison qui nous dépasse, cette raison même qui fait de cette vie de chien une vie acceptable ; du moins, plus acceptable que l’absurdité de la créativité totale et de l’abandon de tout modèle prédéfini. C’est ainsi que, par le biais d’un « contrat social », on finit par confier le contrôle de sa vie à un Etat, son corps à un patron, sa santé à un médecin, sa responsabilité individuelle à un juge qui nous jugera mieux que nous-mêmes.

Il n’y a pas de Contrat Social sans mythe fondateur, et il n’y a pas un seul système politique qui n’ait perduré sans une mythologie sacrificielle pour assurer sa subsistance et l’adhésion des masses à son calendrier mortel. Sans unité, pas de cohésion sociale et sans mythe, pas de cohésion entre des personnes qui a priori n’ont aucun intérêt en commun. En effet, quel fut l’intérêt commun entre le troufion faisant office de chair à canon dans les tranchées de la grande boucherie de 14-18 et le grand industriel sinon celui, basé sur de la poussière de mythe, de la nation française en danger ? Comment expliquer L’Union Sacrée sinon par la force métaphysique et la capacité mobilisatrice miraculeuse du mythe ? L’Union Sacrée fut le nom donné au mouvement de rapprochement politique qui a soudé les Français de toutes tendances politiques ou religieuses et de toutes classes lors du déclenchement de la Première Guerre mondiale. Le terme fut utilisé pour la première fois à la Chambre des députés le 4 août 1914, par le président Poincaré, dans son message aux Assemblées. L’union fut éprouvée dans les faits immédiatement car l’ensemble des organisations syndicales et politiques de gauches, essentiellement la CGT et la SFIO, se rallièrent au gouvernement. Cette unanimité nationale persista jusqu’à la fin du conflit, mis à part quelques dissidences de gauche ou anarchistes ainsi que de trop rares mais très belles mutineries de soldats des deux côtés. Un mouvement analogue se produisit chez l’ensemble des belligérants comme en Angleterre, en Russie ou en Allemagne, lorsque le Parti socialiste d’Allemagne, le SPD, votera l’entrée en guerre en août 1914, lançant le mouvement qui prit le nom de Burgfrieden. L’Union Sacrée confirmera les thèses fascistes de Sorel sur le rôle mobilisateur du mythe, en l’occurrence celui de la nation menacée ; et sur la fonction régénératrice de la violence, en l’occurrence la guerre et ses effets régénérateurs sur l’économie et l’union de diverses franges contre d’autres.

« Soyons terribles pour dispenser le peuple de l’être »
Danton, discours du 10 mars 1793.

Intéressons nous donc à cette fameuse idéologie du contrat social, appelée contractualisme. Le contractualisme est un courant moderne de philosophie politique qui pense l’origine de la société et de l’État comme un contrat originaire entre les hommes, par lequel ceux-ci acceptent une limitation de leur liberté en échange de lois garantissant la perpétuation d’une société donnée. Le contrat social présuppose un état de nature avec lequel il rompt, état préexistant à toute société organisée. Cet état de nature ne correspond nullement à une réalité qui aurait précédé l’instauration des lois, mais à l’état théorique et hypothétique de l’humanité soustraite à toute loi dans la tête des quelques théoriciens à l’origine des modes de gouvernement modernes. Quitter cet état de nature pourtant si hypothétique, voire même farfelu, est la raison invoquée pour justifier le transfert du contrôle de chaque individu sur sa propre vie à celui d’une entité large et structurée par un pouvoir et des lois, autrement dit, un Etat.
La théorie du contrat social, en rompant avec le naturalisme politique des philosophes classiques (platoniciens et aristotéliciens), a provoqué l’émergence de la notion d’égalité politique, formelle et matérielle, mythe fondateur de nombreuses formes d’Etat à travers ces derniers siècles, de l’URSS aux démocraties parlementaires et capitalistes d’aujourd’hui, sans ne jamais garantir en réalité une quelconque égalité, même une égalité dans la misère.
Se situant au tout premier rang des penseurs de la « science » juridique et de la philosophie de l’État, le penseur Grotius fut le premier dans l’histoire de la philosophie politique, au XVIIe siècle, à théoriser le contrat social moderne. Le contractualisme sera repris et discuté par Kant, Fichte et Hegel, lesquels tenteront de réconcilier la « liberté originaire et radicale de l’homme » (Hegel) avec l’Etat et la reconnaissance sociale. Mais les penseurs que l’on peut identifier aujourd’hui comme les principaux théoriciens du contractualisme, à l’origine de notre mode de vie actuel, sont très certainement Hobbes et Rousseau (mais aussi Locke de façon moins importante).

Pourquoi cette société ? Pourquoi la société ? Pourquoi vivre avec des hommes et des femmes avec qui l’on ne veut pas nécessairement vivre, et pourquoi se soumettre à des règles auxquelles on n’a pas choisi de se soumettre ? Tant de questions qui commencent à peine à tourmenter un XVIIe siècle en pleine crise de sens. Mais face à ces questions auxquelles il est factuellement impossible de répondre si l’on évacue consciemment la possibilité d’un autre monde bâti sur la libre-association des individus selon leurs propres critères et sans aucune autorité au-dessus de leurs têtes ; face à ces questions qui auraient pu faire surgir des réponses incendiaires, qui auraient pu laisser place à une explosion de créativité iconoclaste et à l’abandon de tous les modèles du vieux monde, ces philosophes ont construit des cadres rigides, des structures idéologiques dans lesquelles il fut impossible d’imaginer autre chose sans être immédiatement taxé d’antimodernisme et d’aller contre le sens de la marche de l’inévitable Progrès. Par ces structures de pensée, ceux-là mêmes ont véhiculé ce qu’ils pensaient devoir placer au centre de la société. Rousseau, qui pour schématiser, se détachera en créant après lui une sorte d’aile gauche du contractualisme, placera au centre de ce contrat social l’égalité, tandis que Hobbes, lui précurseur de la droite moderne, privilégiera la sécurité. Pour arriver à leurs fins, les deux préconiseront quoi qu’il en soit de troquer une partie de la liberté contre un peu d’égalité pour l’un ou de sécurité pour l’autre.

Les deux partent donc du principe que la liberté est divisible, qu’elle peut se fragmenter en petits morceaux et que l’on peut donc, comme avec un marchand de tapis sur l’agora, troquer un petit morceau de liberté contre un petit morceau d’autre chose. La liberté est donc vue comme quelque chose de quantifiable, mesurable, sécable, partiel.

Cette vision de la liberté est aujourd’hui au pouvoir, dans les hémicycles comme dans les têtes de chacun, qu’il soit parlementariste, extra-parlementariste ou même révolutionnaire, l’humain moderne fragmente la liberté en petits bouts et la conjugue au pluriel plutôt qu’au singulier. Liberté d’expression, liberté d’installation, liberté de circulation, liberté de travailler, liberté de ne pas travailler et les diverses déclinaisons judiciaristes : droits de l’homme, droit à la vie, droits des enfants, droit au logement, droit au travail, droit du travail, droits des animaux, droits des femmes etc. Et ainsi, on donne aux opposants, qu’ils soient ou non révolutionnaires, un os à ronger, des marottes à défendre qui garantissent au pouvoir que ceux-ci restent bien dans les contours prédéfinis par le pouvoir et par la légalité, dans les contours d’une lutte délimitée par la bourgeoisie et convenue avec l’Etat.

Quel pouvoir aimerait voir naître des mouvements insurrectionnels massifs qui ne revendiquent rien, qui ne lui demandent rien, pas même une miette de liberté, qui ne veulent même plus reconnaître son existence et cessant de dialoguer avec lui autrement que par la destruction ?

Selon moi, la lutte contre toute autorité commence par l’affirmation de l’individu comme un être indivisible et insécable, comme une unité et non comme une parcelle d’unité que l’on peut ranger dans des catégories du pouvoir. Elle nécessite une pensée et une pratique iconoclaste en ce qu’elle doit avoir pour but de détruire tous les mythes mobilisateurs qui permettent aux pouvoirs de diviser l’humanité, d’effectuer des regroupements autoritaires selon des critères qui ne sont pas ceux de l’individu comme les Etats, les Nations, les ethnies, les religions, les idéologies. Cette lutte ne doit pas accepter que l’on puisse diviser la liberté en catégories séparées et marchandisées, la liberté ne se conjugue pas, ne se négocie pas, ne s’achète pas ni ne se troque, elle est totale et indivisible ou elle n’est pas, comme l’individu. Citons encore Stirner : « La liberté ne peut être que toute la liberté ; un morceau de liberté n’est pas la liberté ».

La lutte contre l’autorité, c’est le refus total de toute forme de gestion de l’humain, et donc de toute forme de politique. Il faudra se débarrasser de tous les mythes fondateurs pour détruire les fondations sociales et retrouver une liberté qui ne pourra se conjuguer qu’au singulier.

Janvier 2011,
Aviv Etrebilal.


[Brochure éditée par Ravage Editions, mars 2013, Paris.]

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