Gianfranco Bertoli
Un colpo al cerchio, uno alla botte
Tratto da Attraversando l’arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986. Originariamente pubblicato su A Rivista anarchica del marzo 1978, n. 63, con il titolo: Dal carcere di Cuneo.
Il cerchio si chiude
Attraversando l’arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986. Originariamente pubblicato su A Rivista anarchica dell’aprile 1979, n. 73
Sono stato l’avvocato di Gianfranco Bertoli
da una corrispondenza privata il breve racconto dell’incontro con Gianfranco Bertoli (2003)
Prefazione dell’autore
Attraversando l’arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986
Il prezzo da pagare
Attraversando l’arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986
Siamo tutti detenuti politici?
Attraversando l’arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986
Voi, signori della stampa
Attraversando l’arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986.
Un colpo al cerchio, uno alla botte
Riuscire a sottrarsi all’influenza dei condizionamenti sociali è sempre stato difficile ed ancor più lo è oggi, quando l’arte e le tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica e delle coscienze individuali, hanno raggiunto vertici di perfezionamento quasi ottimali.
Personalmente mi è, spesso, accaduto, al momento di riprendere in esame avvenimenti sui quali mi ero fatto una certa opinione ed ero arrivato ad esprimere un giudizio, di dovermi rendere conto che ero caduto nella trappola psicologica del potere confondendo l’apparenza mistificata e fittizia con la realtà con il risultato di arrivare a conclusioni e convinzioni sbagliate e devianti. Così quando nel luglio dello scorso anno, mi sono trovato afferrato dall’ingranaggio di quell’autentico “arcipelago gulag” versione italiana, che è costituito dalle nuove “supercarceri” del super secondino, della repubblica (“democratica” “antifascista”, “partorita dalla resistenza” ecc. ecc.), generale della “benemerita” e residuato di guerra delle “camice nere”, Carlo Alberto Dalla Chiesa, la mia prima reazione di fronte a quello che mi era capitato ed alla allucinante atmosfera in cui mi trovai immerso fu quella di considerare ed etichettare tutto come “controriforma”.
Mi convinsi addirittura, impressione questa d’altra parte abbondantemente suggerita dall’ipertrofico e grottesco apparato militare mobilitato per le traduzioni (per trasportarci in dieci dal carcere di Porto Azzurro a quello di Cuneo si impiegarono non meno di un centinaio di carabinieri, con cani, corpetti antiproiettile, elicottero dell’esercito, furgoni corazzati, ecc. ecc.), che si stesse realizzando un vero e proprio “mini golpe” controriformista.
Oggi, a distanza di qualche mese, considero la mia prima impressione come del tutto superficiale e sbagliata. Vedere infatti, in quell’operazione l’attuazione di una “controriforma” significa attribuire alla precedentemente emanata legge di riforma penitenziaria un significato e un valore che non ha. Rappresenta un modo di cadere nell’equivoco di prendere per buone le immagini deformate dalla realtà politico-sociale che ci vengono proiettate attraverso i “mass-media” del sistema per indurci ad un coinvolgimento, se non altro emotivo, nella logica mistificante del gioco politico e dei suoi equilibrismi di potere.
Significa credere possibile l’esistenza, all’interno di una oppressione sociale (che, se può apparire diversificata ed è in effetti multiforme perché attualmente cogestita ed in via di trasformazione, è unica e totalitaria), di una dicotomia ed una contrapposizione tra un potere “buono” e uno “cattivo”.
Malgrado le apparenze, “riforma” e “arcipelago Dalla Chiesa” non si contraddicono e non sono che due facce di un medesimo progetto di ristrutturazione dell’istituzione carceraria. Progetto che è, a sua volta, integrato in una più vasta operazione intesa rafforzare razionalizzandolo un sistema di gestire lo sfruttamento economico ed il dominio politico che stava rivelando contraddizioni ed obsolescenze in ragione ed a causa del processo di trasformazione tecnoburocratica della società tardo-capitalista. Anche se ciò può non apparire evidente a prima vista, sia la “riforma penitenziaria” sia l’attuale “giro di vite” perseguono lo stesso fine che è quello di un rafforzamento del potere dello Stato, attraverso il tentativo di assicurarsi il grado di consenso più elevato ed esteso che sia possibile all’azione di potenziamento e perfezionamento dell’apparato e dei metodi di repressione.
La riforma carceraria del 1975 non ha origine, come si è fatto credere, dalla volontà di venire incontro alle aspirazioni della popolazione detenuta, né da propositi di umanizzazione del sistema penale, ma dalla esigenza dello Stato di disciplinare e riorganizzare un settore delle sue istituzioni che stava crollando a causa della sua inadeguatezza ad affrontare le situazioni nuove che doveva fronteggiare. Per questo si è provveduto ad emanare un provvedimento legislativo idoneo, per le sue ambiguità, la profusione di affermazioni demagogiche, certe concessioni, a venire accolte senza proteste, ed anzi con soddisfazione, dai detenuti stessi.
Ci si trovava, per lo Stato, in una situazione paradossale, quella di una istituzione che per definizione ha lo scopo di punire i trasgressori di leggi e regolamenti, che ha il compito di controllare e disciplinare gli incontrollabili, gli indisciplinati, i ribelli all’ordine sociale e che non ha essa stessa un “regolamento” preciso ed univoco su cui reggersi. Si è detto che si trattava di riformare il vecchio regolamento fascista del 1931 ma si è dimenticato di dire che questo “regolamento”, di fatto non esisteva più.
Se nel cercare di capire i veri scopi della “Riforma” soffermeremo la nostra attenzione su quei punti che furono vantati come maggiormente qualificanti in senso progressista ed umanitario, e cioè l’introduzione di istituti quali la “semi-libertà”, l’affidamento al servizio sociale, la possibilità di brevi permessi da trascorrere fuori, la decurtazione di quaranta giorni all’anno, la remissione del debito relativo alle spese processuali, non sarà difficile rendersi conto di come tutti questi “benefici” (per l’ottenimento dei quali è prescritta la “conditio sine qua non” della dimostrata volontà di ravvedimento e la “collaborazione” all’opera di rieducazione), siano stati concepiti per poter servire da strumenti di sottomissione e per poter ricattare e spingere l’uno contro l’altro i detenuti.
Vennero per esempio autorizzati gli orologi e venne concesso l’uso del telefono. Si incominciarono ad elargire licenze con una certa liberalità. Chi non la otteneva subito si sentiva raccomandare di avere pazienza e gli veniva promessa come sicura per il futuro. Questo periodo vide crearsi antipatie e gelosie tra detenuti e vide molti diventare servili e striscianti, in qualche caso perfino delatori. Venne poi, com’era prevedibile e forse programmato, il momento in cui si cominciò a far marcia indietro. Il potere aveva realizzato la prima parte dell’operazione, era riuscito a mostrare magnanimità e buone intenzioni e si era assicurato complicità e consensi.
A questo punto si limitò al massimo la concessione delle licenze e si limitò l’uso del telefono, il tutto venne motivato col mancato rientro di alcuni detenuti, con l’uso del telefono che qualcuno avrebbe fatto per organizzare crimini, più in generale con l’aumento della criminalità e la difficile situazione dell’ordine pubblico.
Il risultato psicologico ottenuto fu duplice, perché fu tale da suscitare in molti che si erano illusi una rabbia innaturale cioè non più per la loro condizione di prigionieri ma per la delusione di non aver visto premiato il loro “buon comportamento” ed inoltre questo rancore si prestava a venir deviato indirizzandolo verso coloro che venivano additati come responsabili: i detenuti “cattivi” che col loro comportamento avrebbero danneggiato anche i “buoni”.
Era giunto il momento per far scattare l’operazione “carceri sicure”. Questa operazione, studiata e programmata da tempo, venne realizzata con l’attivazione (e a tempo di record e con disponibilità di mezzi pressoché illimitata) di un certo numero di penitenziari realizzati per la custodia ed il “trattamento” di quei detenuti che (per il fatto di avere idee politiche, o per essere stati ritenuti poco disposti alla sottomissione, o per varie altre ragioni) sono stati qualificati come dei “cattivi soggetti” e per i quali oltre a ritenere conveniente un trattamento particolarmente rigido, si ritiene sia raccomandabile che vengano allontanati dai “buoni” che potrebbero venirne influenzati.
L’istituzione all’interno dell’universo carcerario di un ulteriore stadio di ghettizzazione per i detenuti speciali, assolve nei confronti degli altri detenuti una doppia funzione: quella cioè di deterrente psicologico consistente nella paura di poter finire in carcere speciale e di, paradossalmente, generatore di consenso, in quanto il fatto di non esservi stato assegnato gli fa considerare la sua posizione come privilegiata. Triste privilegio, questo, che consiste nel non essere sottoposti ad una pena peggiore! E, per di più precario, perché basta un nonnulla per perderlo, venir classificato “cattivo” e venir trasferito in un “supercarcere”.
Quanto a quali siano le condizioni di vita all’interno di questi posti credo superfluo dilungarmi ora in una descrizione dettagliata. Ciò prima di tutto perché se n’è già parlato un po’ su tutti i giornali e come queste “supercarceri” siano organizzate più o meno lo si sa, non potrei quindi che ripetere cose già dette da altri, poi perché una descrizione anche perfetta non sarebbe di grande utilità. È infatti difficile, anzi impossibile, poter far capire a chi non si sia trovato a subire di persona il peso della condizione di detenuto in un carcere “speciale”, quanto soffocante sia questa condizione. Vi sono mille piccole cose che messe là in fila e raccontate possono apparire di poca importanza e che vissute hanno un effetto distruttivo sulla personalità che è incredibile.
Come poter spiegare cosa vuol dire per quelli che vanno ad un colloquio con una moglie, una madre, dei figli, che magari per poter arrivare fino a qui hanno dovuto affrontare un viaggio di centinaia di chilometri, doverli vedere per una mezz’ora attraverso un vetro e poterci parlare solo attraverso un citofono! Come poter far capire cosa voglia dire per un detenuto essere continuamente osservato, controllato anche al cesso, non poter neppure spostare il letto perché è fissato sul pavimento, dover per mangiare, far uso di ridicole posate di plastica da “picnic”, dover ogni giorno per andare all’aria passare attraverso una doppia fila di guardie e per il resto del tempo (21 ore al giorno) restare chiuso da solo in uno spazio di pochi metri, senza che sia consentito neppure di tentare di personalizzare la cella incollando sul muro una cartolina, non avere la possibilità di un lavoro?
Non è un caso che il feldmaresciallo Dalla Chiesa quando accettò il suo incarico che, a quanto si diceva all’inizio, doveva limitarsi alla “sorveglianza esterna”, abbia preteso di aver voce in capitolo e potere decisionale anche sull’ordinamento interno delle sue carceri. D’altra parte, fermi restando ai principi guida generali ispiratori del trattamento riservato agli ospiti delle “supercarceri”, sono riscontrabili talune varianti nelle modalità di applicazione.
Difficile è per me, allo stato attuale della situazione e della mia esperienza (ho finora conosciuto solo questo posto e degli altri so solo quello che mi è stato raccontato) poter azzardare un’ipotesi esplicativa di ciò. Potrebbe trattarsi di differenze di trattamento programmato “in alto loco” al fine di esperimentare anche nelle sfumature quali tecniche repressive siano da privilegiare come le più efficaci.
Così come potrebbe spiegarsi col fatto che, posti di fronte ad una situazione per loro nuova, molti dirigenti di istituto siano talvolta incerti sulla esatta interpretazione delle disposizioni ricevute. Un’altra ipotesi potrebbe essere quella che piano piano, si intendano strutturare queste prigioni con livelli di durezza e di privazioni diversi e graduati così da introdurre anche in questo piccolo mondo i principi del “merito”, del “premio” e del “castigo”. Naturalmente queste non sono che alcune ipotesi, mille altre se ne potrebbero fare. Chi vivrà vedrà.
Egualmente solo ipotesi posso avanzare sul fatto che qui (in altre supercarceri non so), non solo da qualche tempo non vi sono più stati “pestaggi” ma il comportamento degli agenti è divenuto molto meno arrogante dei primi tempi. Ora se ci si pone nell’ordine di idee di considerare possibile che certe violenze, più che di precisi ordini superiori fossero il frutto di eccesso di zelo di certe guardie e del desiderio di queste di cogliere l’occasione per sfogare il loro sadismo, allora è possibile attribuire l’accettazione di questa pratica come originata da interventi della direzione o di magistrati anche in considerazione di alcune denunce presentate da detenuti e della circostanza che in occasione dello sciopero della fame venne, tra i motivi di lagnanza e le richieste scritte presentate, inserita la questione dei “pestaggi”.
Qualora, invece, anche le violenze facessero parte di un preciso piano ed obbedissero a disposizioni superiori (ufficio dodicesimo, gen. Dalla Chiesa) sarebbero possibili varie interpretazioni e conseguenti previsioni per i futuri sviluppi. Nel caso, comunque, che un elevato grado di violenza iniziale fosse stato predisposto a fini intimidatori e dimostrativi, per prevenire ribellioni e proteste, potremmo prevedere che, anche nelle altre “supercarceri”, gli atti di violenza gratuita tenderanno a rarefarsi e dedurne che per l’annientamento della personalità del detenuto si intende confidare sugli effetti a lungo termine di un regime di detenzione in cui alla monotonia e stupidità di certe prescrizioni, alla ripetitività dei gesti si aggiungono gli effetti deleteri di un isolamento quasi continuo e del senso di insicurezza permanente per i frequenti spostamenti di cella e di sezione (decisi spesso dai carabinieri anche all’interno del carcere) dai trasferimenti sempre improvvisi ed a ore impensabili.
(Fonte: Gianfranco Bertoli, Un colpo al cerchio, un colpo alla botte.
Tratto da Attraversando l’arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986.
Originariamente pubblicato su A Rivista anarchica del marzo 1978, n. 63, con il titolo: Dal carcere di Cuneo.)
Il cerchio si chiude
Eppure, nonostante l’ampia trattazione, nonostante si sia, un po’ da tutte le parti, ampiamente “sviscerato” l’argomento, non riesco a liberarmi dalla sgradevole sensazione che vi sia qualcosa che è sfuggito a tutti. Qualcosa di nuovo, spaventosamente “nuovo” e diverso che ho stavolta l’impressione di riuscire ad afferrare, di riuscire a capire, ma che poi mi lascia a mani e mente vuote. Un “passaggio di qualità” nel microcosmo carcerario che mi è difficile catalogare con i parametri di giudizio ai quali sono, come un po’ tutti, volente o nolente, abituato e condizionato e che non può non essere visto come un sintomo di una ampia trasformazione nel modo di gestire la dominazione sociale e di perpetuare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo ed i principi d’autorità e gerarchia dai quali, nel contempo, trae origine e si regge.
Ogni tipo di discorso sviluppato finora sulle “carceri speciali” (fatta eccezione, forse, per la peraltro interessante ipotesi prospettatami un giorno da Horst Fantazzini, secondo cui con la realizzazione di un “circuito” penitenziario differenziato si sarebbe voluto predisporre le condizioni e le strutture per l’eventuale incarcerazione e “neutralizzazione” degli oppositori nel quadro della messa in atto di una versione “democratica” del famigerato “piano Solo” del fu De Lorenzo) può venire, secondo me, considerato come riconducibile in partenza a due principali poli di aggregazione di tesi e di analisi.
Ora, se in ambedue le antitetiche posizioni di partenza nel considerare il fenomeno “carceri speciali”, vi è una parte di verità e per sostenere ognuna di esse è possibile addurre argomentazioni e “dati di fatto”, non credo che sia metodologicamente corretto (per quanto si possa “soggettivamente” essere portati a farlo) assumere acriticamente una delle due ed escludere “a priori” di considerare quanto di oggettivamente vero può esservi nell’altra.
Vi è da un lato chi (pur con ampio ventaglio di giudizi ed opinioni, che vanno dall’encomio più incondizionato o, addirittura, dalla richiesta di un maggior “rigore” e “severità”, ad una posizione di critica “umanitaria” per il metodo adottato in questa occasione, e tendente a proporre una conciliazione tra le esigenze della “sicurezza” e quelle di un “trattamento” che non violi certi principi costituzionali, certe “garanzie” ecc. ecc.) accetta senza esitazione e fa sua la tesi secondo la quale la creazione di carceri diverse dalle altre e definite “di massima sicurezza” è stata originata e trova la sua ragione d’essere dalla condizione insostenibile in cui era venuto a trovarsi il sistema carcerario tradizionale dalla necessità improrogabile di porre un freno al dilagare delle evasioni, alle continue rivolte, ad episodi frequenti di violenza.
Ora, anche se ci sarebbe molto da dire sul modo in cui, attraverso la stampa e in genere i grandi mezzi di informazione, molti episodi siano stati strumentalmente gonfiati e sopravvalutati in importanza e “gravità”, è innegabile che il potere si era trovato a dover gestire con una certa difficoltà un settore ove si manifestavano carenze anche vistose e ove soprattutto i metodi tradizionali di integrazione nell’istituzione di chi vi veniva ammesso si stavamo dimostrando del tutto obsoleti di fronte al diffondersi di un mutato atteggiamento mentale, sopravvenuto non tanto come un mutamento d’umore di massa sotto l’influsso di un’emozione collettiva (fenomeni di questo tipo c’erano sempre stati e possono, al massimo, dar luogo ad un’esplosione reattiva violenta di breve durata), quanto come il risultato di una somma di modificazioni individuali tra i singoli detenuti.
In sostanza, in passato l’atteggiamento e l’attitudine mentale predominanti tra i carcerati erano intrisi di fatalismo e di rassegnazione quasi come di fronte ad una forza naturale o a quella di una divinità. Non che mancassero di verificarsi eccessi di rabbia, momenti di protesta individuale o anche collettiva, atti magari di autolesionismo, rancori, ecc. ecc. Il singolo individuo poteva ritenersi e dirsi vittima di un'”ingiustizia”, di una “persecuzione”, di un “errore giudiziario”, ma sempre in relazione ad una o più particolari circostanze.
Quello che rimaneva inattaccato e mai messo coscientemente in dubbio era il “diritto” dello Stato a giudicare. L’operato e la personalità di un singolo magistrato, di un collegio giudicante, di uno o più funzionari, potevano venir criticati e anche disprezzati. Ma quando questo avveniva era proprio in quanto considerati indegni del ruolo “sacrale” della funzione esercitata.
Ogni invettiva contro la “giustizia” ed i suoi operatori aveva, per chi la pronunziava, il sapore e il tono di una “bestemmia”. E il bestemmiatore, si sa, è un “credente” deluso, la bestemmia stessa non è che l’immagine al negativo della preghiera. Chi subiva una condanna poteva certo ritenerla esagerata od ingiusta, ma non si sarebbe mai sognato di mettere in dubbio il principio generale ed il diritto delle autorità a giudicare e condannare.
Piano piano, in maniera quasi impercettibile, si è andato però facendo strada un altro atteggiamento, un modo diverso di considerare se stesso e la propria condizione, la tendenza (spesso solo a livello inconscio) a vedere nell’apparato dello Stato e nelle stesse leggi non più un qualcosa di superiore e quasi “divino” verso cui si nutre del “rispetto”, bensì un nemico, potente quanto si vuole, un qualcosa nei confronti di cui il semplice fatto di trovarcisi in contraddizione non conduce ad interiorizzare alcun “senso di colpa”. È in questo processo di trasformazione della mentalità media della “popolazione carceraria” che può individuarsi, secondo me, la causa principale del “malessere” diffuso e delle difficoltà di gestire l’istituzione penitenziaria incontrate dai prepositivi.
Quanto ad una analisi ed una individuazione dei fattori che hanno favorito questo fenomeno, si tratterrebbe di inoltrarsi su di un terreno e in un campo con implicazioni psicologiche e sociologiche troppo complesse perché io possa qui arrischiarmici, con la pochezza di preparazione e di mezzi che mi riconosco. Mi limito a constatare un dato di fatto di cui ho potuto rendermi personalmente conto attraverso passate ed attuali esperienze carcerarie.
Certo anche da parte dei detentori del potere si è avuta una parziale percezione di tutto questo e si è creduto (forse sarebbe meglio dire “voluto”) di individuarne la causa principale nella presenza e nell’opera di proselitismo attuata da questi. Questa spiegazione è a mio avviso di comodo e senz’altro superficiale e sotto certi punti di vista addirittura puerile.
Senza negare infatti (come potrei?) che la vicinanza ed il dialogo con elementi di particolari concezioni ideologiche possa influire, anche notevolmente, nel modo di pensare e anche di agire di altri individui, rimane il fatto che ogni tipo di “predicazione” può svilupparsi e dare frutti solo su di un terreno predisposto a raccoglierla.
Basta, credo, a riprova di questo, considerare quanto accadde nel ventennio fascista: vennero allora immessi nelle carceri italiane numerosissimi oppositori. Si trovarono ad esservi rinchiusi, per periodi più o meno lunghi, rappresentanti tra i più qualificati, preparati ed “autorevoli” di tutte le componenti dell’antifascismo: anarchici, comunisti, repubblicani, socialisti, ecc. ecc.. Ebbene, forse che per questa ragione i penitenziari italiani divennero focolai di antifascismo? Vi furono forse episodi di detenuti cosiddetti “comuni” che abbracciarono la causa dell’antifascismo e una volta usciti si impegnarono in essa? A me non risulta e se accadde non può essersi trattato che di casi isolati e non certo di un fenomeno generalizzato e “preoccupante” per il potere di allora.
Ritornando all’oggi e, per così dire, “in tema”, avevo cominciato a considerare la tesi che vuole il ricorso alle “supercarceri” come un mezzo per riportare alla “normalità” un settore che appariva scosso, turbato e ingovernabile. Se così fosse, se solo di questo si trattasse, se, insomma, l’intenzione fosse quella di tenere in piedi il sistema penitenziario tradizionale, tipico prodotto di un particolare “modello” di società e di una particolare forma di rapporto di produzione e delle modalità di gestione del potere che ne derivano, potremmo dedurne che l’esperienza cui si è ricorsi è quanto di più goffo, irrazionale e sbagliato si poteva realizzare. La creazione, infatti, di un settore di un universo carcerario, differenziato e sottoposto a norme e regole particolari e “speciali”, non può non portare progressivamente ad un sempre maggiore autonomizzazione del “nuovo” rispetto al “vecchio” sistema originario. Come ogni nuova istituzione, il supercarcere tenderà automaticamente a perpetuarsi ed a crescere prevaricando i suoi limiti fino ad assorbire nella sua logica le strutture preesistenti.
Lo stesso principio ispiratore, poi, della creazione delle carceri speciali, essendo quello di privilegiare in assoluto il concetto di “massima sicurezza”, finisce, attraverso il corollario di norme e di proibizioni che ne discendono, con l’ingenerare una serie di frustrazioni che non possono (proprio perché l’eccesso di “misure preventive” non lascia spazio alcuno) trovare una compensazione o un qualsivoglia tipo di “sublimazione”, non può che condurre, quasi fatalmente, ad un risultato: quello di un’interiorizzazione ed un’assunzione del ruolo suggerito ed imposto.
Il detenuto definito e trattato come “superpericoloso” non potrà che diventare ed accettarsi come tale. Il supercarcere e le sue norme soffocanti finiranno per produrre proprio il tipo di individuo per il contenimento del quale sono stati programmati. Il cerchio si chiude e l’istituzione produce autonomamente la sua giustificazione e legittimazione. Va da sé che tutto conduce l’istituzione stessa a darsi norme sempre più ferree e rigidamente osservate e fatte osservare, fino a non potersi concretizzare e realizzare che come finalizzata ad un progetto di annientamento e di eliminazione fisica e, a lungo termine, finire con l’autodistruggersi. Ad evitare di venir frainteso, preciso che con questa mia “profezia” non intendo esprimere un’ottimistica convinzione che, in un futuro più o meno lontano, la società gerarchica non si darà più mezzi e strumenti di repressione, bensì quello che questi mezzi e questi strumenti saranno “diversi” e più spietatamente “funzionali”.
Avevo accennato, più sopra, a due posizioni fondamentalmente antitetiche nel giudicare il fenomeno “carceri speciali”. Oltre a quella di chi accetta di considerare la questione partendo dal dare per accettabile la versione governativa relativamente ai motivi di questo tipo di scelta in campo di “politica carceraria”, vi è chi ha rigettato in blocco questo tipo di “spiegazioni” e vede in tutto il progetto “carceri speciali” l’avvio di un programma di annientamento e di eliminazione fisica di quei prigionieri di cui lo Stato si vuole sbarazzare perché troppo “ingombranti” e pericolosi.
Essendomi già troppo dilungato nella prima parte di questa lettera, cercherò di essere il più conciso possibile. Anche se “oggettivamente” il potere ha scelto di imboccare una strada a “senso unico” che può condurlo fino a prospettarsi l’ipotesi di una “soluzione finale” del problema, non sono propenso a credere ad una precisa volontà di arrivarci. Ciò non tanto perché io attribuisca agli attuali detentori del potere una sensibilità a “valori umani” o a norme etiche (“debolezze”, queste, contro le quali in ogni tempo le classi dominanti sono risultate “vaccinate” ed immuni), quanto perché credo che, nell’attuale momento, nessun uomo di potere potrebbe ritenere conveniente rischiare di perdere quel consenso di massa e quella “credibilità” democratica che gli consentono, appunto, la sua posizione.
Vero si è che nei momenti di “emergenza” e particolarmente nelle fasi, per forza di cose mai del tutto indolori, di transizione da una forma di dominazione sociali ad un’altra, si manifesta sempre (contemporaneamente ad una volontà di cambiamento e all’apparizione di aspirazioni ed istanze libertarie tra gli oppressi), una tentazione da parte del potere al ricorso a soluzioni di tipo “militare”, ma questa è sempre una “estrema ratio” che finisce per dimostrarsi inutile e spesso pericolosa.
In ultima analisi, la condizione per l’affermarsi e per il mantenersi di un potere si fonda sulla sua capacità di garantirsi un certo grado di consenso, se questo grado di consenso (comunque ottenuto o carpito) si abbassa oltre un certo livello di potere crolla. Né bastano a tenerlo in piedi i più efficienti e perfetti apparati militari o di polizia. Basterebbe a provarlo l’esempio iraniano.
(Fonte: Gianfranco Bertoli, Il cerchio si chiude; in Attraversando l’arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986.
Originariamente pubblicato su A Rivista anarchica dell’aprile 1979, n. 73.)
da una corrispondenza privata il breve racconto dell’incontro con Gianfranco Bertoli***
Data: Wed, 1 Oct 2003 08:36:12 – 0400
A: “Joe”
Oggetto: Per Joe, su G. Bertolicaro Joe,
anche se solo per una breve visita a Porto Azzurro sono stato l’avvocato di Bertoli.
Sono passati molti anni e non so se ricordo tutto esattamente, posso essere sicuro solo delle sensazioni che mi rimangono….
Esercitavo ancora la professione a Roma ed i compagni mi ritagliavano ancora addosso un ruolo cui non ho mai creduto: quello di “avvocato compagno” (che a me appariva assai simile a quello di un ipotetico palombaro ciclista), di cui mi sono liberato solo molto più tardi…
Una telefonata di Paolo di A-Rivista mi “assoldò” (in realtà per un simbolico fondo spese) chiedendomi di visitare Bertoli che aveva espresso la necessità di un consiglio legale da parte di un avvocato “di movimento”. Se non ricordo male al colloquio mi disse che gli era baluginata la timida idea di querelare un giornalista (o un giudice) per qualcuna delle solite dichiarazioni di cui era stato fatto oggetto.
La mia cultura calabrese (“la querela è solo una ricevuta in carta bollata” si dice dalle mie parti) e le mie tendenze ideologiche (con molte contraddizioni potevo ancora accettare di “difendere legalmente” i compagni vittime della repressione nella totale sfiducia del ruolo e per motivi quasi esclusivamente umanitari e solidaristici ma non mi sarei mai prestato a collaborare con un compagno in un percorso giudiziario, per così dire “rivendicativo”, all’interno delle logiche istituzionali) mi spinsero a rispondergli subito che per tale tipo di scelta avrebbe dovuto rivolgersi a qualcun altro.
Ebbi la immediata sensazione che l’ipotesi della querela fosse solo un flebile pretesto per poter parlare con un “affine” sia pure sconosciuto. È così che l’idea di querelare fu accantonata immediatamente (non so se poi la riprese con un altro avvocato) ed il colloquio si protrasse sulla sua vicenda personale, sulla situazione generale, e soprattutto su temi epistemologici.
Mi raccontò che in quel periodo aveva un incarico presso la biblioteca del carcere che gli permetteva di approfondire i temi che più gli interessavano (ad allora era l’epistemologia in cima ai suoi interessi).
Ebbi l’impressione di un uomo colto, sereno e fatalista (“tanto lo so che da qui potrò uscire o con una evasione, altamente improbabile, o, con più probabilità, da morto: sono l’unico autore di strage in italia che sconta il “suo ergastolo”, già questo dovrebbe tacitare tutti quelli che mi calunniano… se fossi davvero quello che loro dicono o sarei stato già ammazzato o espatriato con altra identità …”).
Una persona che mi piacque e mi colpì molto, il cui “atto fatale” era rimasto per così dire imbozzolato nel passato (non saprei dire se era pentito o meno, sembrava solo una persona ormai totalmente diversa da quella che l’aveva compiuto).
Qualche giorno dopo il colloquio mi arrivò una sua bellissima lettera, che sicuramente conservo da qualche parte, e da allora seppi di lui solo quello che appariva a sua firma sulla stampa anarchica (posizioni che trovavo assai condivisibili sia nei temi “colti” sia su quelli d’attualità, come la delicata convivenza e la coraggiosa, dura ed equilibrata ad un tempo, critica nei confronti delle BR ed alla egemonia che esse tentavano di imporre nell’universo carcerario) e sulla stampa istituzionale.
La pregiudiziale e totale sfiducia che nutro nei confronti di quest’ultima veniva vieppiù alimentata, se possibile, dal trattamento ignobile che a lui veniva riservato (specie da quella della c.d. “sinistra”), così come anche il suo caso ha potuto vieppiù alimentare, se possibile il mio disprezzo per il sistema giudiziario e le sue “verità”.
Ho saputo poi che né la sua intelligenza né la sua cultura lo hanno riparato dal trauma del “mondo esterno”, una volta riacquistata una parvenza di libertà dopo decenni di segregazione subita con quel suo forte senso di fatalità.
Ad A-Rivista tutto il mio ammirato stupore per come abbia saputo nel necrologio evitare qualsiasi retorica tratteggiandone un ritratto vivido, scomodo e sincero.
Un abbraccio
Alfredo
Prefazione dell’autore
Infatti (quando non sia questione di gesti estemporanei, effetto di reazioni emotive ed irrazionali stimolate da eventi e circostanze contingenti, e si tratti, invece, del frutto di decisioni meditate), le scelte comportamentali da cui possono derivare, nel bene e nel male, effetti particolarmente rilevanti nascono dalla persuasione di essere nel giusto e dalla solida fiducia riposta nella validità di analisi che ci hanno condotto ad un certo convincimento. La riflessione interiore, tuttavia, è una sorta di deliberazione con se stessi, nel corso della quale può benissimo accaderci di fare inconsciamente ricorso a quelli stessi equilibrismi dialettici ed artifici sofistici con i quali, in una società dove regna il principio di dover prevalere, ci si è abituati a cercare di sopraffare l’avversario di una discussione.
Con una differenza: mentre nel corso del dibattito con altri si è ben coscienti di tali tattiche, quando si arriva a convincere se stessi può accadere di non accorgersi dei condizionamenti di motivazioni inconsce e dei meccanismi di scotomizzazione psicologica che possono averci influenzati, guidando il nostro ragionamento in direzione di conclusioni gratificanti, perché tali da permetterci di rimuovere il senso di frustrazione derivante dal dubbio, e dall’eventuale riconoscimento, che quelle certezze sulle quali avevano fondato il nostro agire fossero state fallaci e frutto di errori analitici grossolani.
Così, nonostante il dolore provato per i tragici esiti del mio fallito attentato contro le autorità civili e militari che presenziavano alla commemorazione di Calabresi, ho continuato per molto tempo a dire a me stesso che tutto quello che potevo rimproverarmi si riduceva all’essere stato “tecnicamente” maldestro e che quanto di negativo era derivato dalla mia azione concerneva solo gli aspetti accidentali di essa, senza intaccare la essenziale validità di principio.
Nonostante l’evidente constatazione che le motivazioni di quel mio gesto non sarebbero state capite e che, quindi, al dramma della morte di persone innocenti si sommava quello della completa inutilità di averlo compiuto, mi sono a lungo rifiutato di prendere in considerazione la possibilità stessa di mettere in dubbio il presupposto teorico che ogni atto di rivolta fosse sempre, per sua natura e indipendentemente dal risultato, portatore di un messaggio positivo e manifestazione fenomenica di una affermazione di libertà.
Nonostante mi rendessi conto di come la spregiudicata e cinica capacità di distorsione dell’immagine per rapporto al reale e di manipolazione della verità di cui dava prova il potere fosse in grado di stravolgere il significato di quello che avevo voluto fare e di come, pertanto, sarebbe stato il potere stesso a trarre vantaggio dal mio gesto, sono rimasto, per anni, abbarbicato disperatamente al concetto astratto di “rivolta assoluta”.
In pratica quello di cui non mi rendevo conto era che mi accadeva di proiettare su un piano ideale le razionalizzazioni mitizzate ed assolutizzate di un impulso ribellistico viscerale, traducendole, attraverso una codificazione ideologica di tipo sostanzialmente metafisico, nelle caratteristiche ontologiche di una entità ipostatica. Così come mi rifiutavo di tener conto della circostanza che se l’opera di mistificazione della verità, messa in atto da tante parti, si rivelava tanto facile, ciò implicava necessariamente che il mio stesso gesto non fosse scevro di connotazioni tali da permettere loro di farlo.
Mi accadeva, anzi, che, proprio dal genere di reazione che il mio atto aveva suscitato e dal fatto che il potere sentisse il bisogno di farlo apparire diversamente motivato, io ricavassi la sensazione e la conferma di avere avuto ragione.
Durante tutta la fase istruttoria e in sede processuale ebbe a verificarsi un fenomeno apparentemente assurdo: non ero io, l’imputato, a cercare di mentire per attenuare le mie responsabilità, erano gli inquirenti e coloro che avevano il compito di informare l’opinione pubblica ad affannarsi per intorbidare le acque, per far apparire verosimile le insinuazioni e le bugie più spudorate, per contrabbandare, attraverso traballanti sofismi, le ipotesi più deliranti di intricate trame e fantomatici complotti.
Questo bizzarro rovesciamento dei ruoli tradizionali mi rafforzava nei miei convincimenti e, nella misura in cui la meschinità di quelle manovre mi permetteva di sentirmi moralmente tanto migliore dei miei accusatori, mi aiutava a dimenticare il male che io stesso avevo arrecato ed a rimuovere dalla coscienza il dolore per le vittime che il mio gesto aveva provocato.
È stato solo molto più tardi e dopo che aveva cominciato a svilupparsi un dialogo epistolare con altri compagni, che ho cominciato a nutrire i primi dubbi. Mi trovai, infatti, a confrontarmi con persone che, a differenza di molti altri, non erano corsi ad allinearsi con le tesi interpretative sostenute dal potere statale, dalla grande stampa e dalla stessa sinistra extraparlamentare.
Queste persone erano dei libertari che avevano seguito attentamente, spesso assistendo personalmente alle udienze, lo svolgimento dei processi a mio carico ed erano arrivate a ricavarne una valutazione obiettiva, senza lasciarsi suggestionare dalle spiegazioni di comodo offerte belle e pronte attraverso i mass-media di regime.
Quei compagni erano arrivati a capirmi ed a capire perfettamente le motivazioni del mio attentato, mi manifestavano la loro solidarietà sul piano umano ed il loro affetto, eppure? condannavano il mio atto! E questo doveva farmi pensare.
Si trattava, peraltro, di dover rimettere in discussione con me stesso un principio, quello della validità incondizionata degli atti di rivolta e del diritto individuale di praticarli in ogni momento e con qualunque mezzo, del quale avevo fatto un punto fermo centrale dell’intero ordinamento concettuale della mia personale visione del mondo e ciò non poteva che rendere particolarmente difficile e sofferta una rimeditazione di questo postulato che minacciava di costringermi a negarne la indiscutibilità.
Si frapponevano ad una esplicita ammissione di errore tutta una serie di fattori, quali l’orgoglio, la rabbia che mi animava ed un condizionamento interiorizzato a scambiare per coerenza la sua brutta copia: la pervicacia di chi persiste a sentirsi legato alle opinioni ed alle scelte passate, anche quando ogni evidenza paia dimostrare che erano state sbagliate.
Fu così che solo nel 1979, in occasione di alcune considerazioni su di una polemica, allora in corso negli ambienti libertari, intorno alla figura di Emile Henry e sui significati del suo gesto di tanti anni fa, arrivati a rendere pubblici i dubbi che mi avevano tormentato ed il sostanziale mutamento del mio modo di considerare il drammatico episodio di cui ero stato protagonista.
In quella occasione, dopo aver succintamente detto da quali postulazioni fossi partito per arrivare a concludere che un gesto come quello che poi ho compiuto fosse necessario e giusto, dissi di essere giunto in seguito a ritenere sbagliate quelle mie analisi e le conseguenze operative che implicavano. Dissi anche che credevo di aver individuato il mio errore di partenza in quello di aver creduto che tutti coloro che si trovano oggettivamente sottoposti all’oppressione e all’ingiustizia sociale la percepissero in un modo non dissimile dal mio e che, pertanto, qualsiasi atto di rivolta sarebbe stato facilmente recepito e compreso, venendo ad assumere un significato esemplare e di incoraggiamento alla rivolta.
Aggiungendo testualmente: “La tragica contraddizione di questo atteggiamento è che, se così fosse, ogni atto di rivolta sarebbe sì immediatamente capito ma non vi sarebbe neppure il bisogno di attuarlo”.
Da allora non ero più voluto tornare sull’argomento, ritenendolo privo di attualità e di scarso interesse per la maggioranza dei compagni, in ragione dell’essersi trattato, per l’episodio di cui ero stato autore, di un fatto, ininfluente sul piano storico e politico ed oggettivamente importante solo per me stesso e per le povere vittime di un gesto velleitario.
Né possono obiettivamente influire a riattualizzare quella vicenda le demenziali farneticazioni di un politicante che ha, recentemente, voluto parlarne (adducendo presunte analogie e persino l’ipotesi di un raccordo di connessione con la catena di stragi, programmaticamente indiscriminate, il cui ultimo anello è costituito da quella contro i viaggiatori del rapido Napoli-Milano), oppure la dabbenaggine inquisitoriale di chi, sull’onda dell’insulse insinuazioni avanzate da tale personaggio, si è affrettato a disporre il sequestro della mia corrispondenza.
Se ne riparlo oggi è in quanto, anche perché stimolatovi emotivamente dall’insultante vaniloquio formichiano, mi sono ritrovato ad interrogarmi una ennesima volta sulla mia decisione di allora, traendone delle ulteriori considerazioni che mi sembrano, pur partendo da esso, estendibili ad un ambito più ampio di quello specifico dei casi storicamente dati (e tutto sommato piuttosto rari) degli atti di rivolta individuali con ricorso alla violenza.
Mi riferisco ad una aporia del ragionamento che ho rilevato ripensando al tipo di argomentazioni attraverso le quali ero giunto a concludere per la liceità etica, l’opportunità pratica e la necessità in termini di coerenza logica dell’impiego della violenza individuale (vista come unica forma di lotta possibile, in determinati periodi storici di “impasse” dei movimenti e delle speranze rivoluzionari, in quanto fase transitoria inevitabile per preparare l’esplosione di moti insurrezionali collettivi), che mi pare, però, non essere del tutto assente, anche se in forma meno facilmente evidenziabile da altre delle teorizzazioni e delle pratiche che sono state storicamente espresse nel quadro della progettualità rivoluzionaria di segno libertario.
Infatti, al di là delle motivazioni occasionali e dei particolari determinismi psicologici che possono avere favorito, in casi e circostanze specifiche, le scelte individuali di mettere in atto azioni violente intenzionalmente finalizzate a portare un attacco al sistema di potere, credo sia sempre stata presente, in tutti i protagonisti di tali episodi, una comune concezione della società autoritaria e che questa concezione sia stata e permanga tutt’ora assai diffusa all’interno della più vasta area di coloro che si propongono di portare avanti un progetto rivoluzionario di trasformazione della società.
Intendo parlare del postulato, assunto come intuitivamente evidente, che ogni forma di dominio nasca con la violenza e si regga sulla forza materiale degli apparati repressivi di cui il potere dispone.
Questa visione del mondo, che a mio avviso rispecchia solo parzialmente la realtà ed ignora o sottovaluta il ruolo della manipolazione culturale e delle tecniche di accaparramento del consenso messe da sempre in atto dalle caste dominanti in ogni tipo di società gerarchica storicamente conosciuta, può spesso condurre alla convinzione della possibilità di guarire i mali di una società violenta attraverso una specie di terapia omeopatica. Ricorrendo, cioè, all’uso di una violenza temporanea da contrapporre a quella permanente dell’oppressione sociale.
Nel mio caso personale il tipo di ragionamento che ha costituito la base, per così dire “teorica”, da cui si è sviluppata la mia decisione di allora è stato, grosso modo, questo: “La società gerarchica si regge sull’imposizione totalitaria di norme comportamentali che subordinano ogni individuo obbligandolo alla sottomissione con la minaccia di sanzioni. L’unico modo valido, pertanto, di mettere in discussione il dominio esercitato dallo Stato e dalle classi dominanti non può venire individuato se non nella rottura violenta di queste regole, attraverso atti di trasgressione assoluta che non tengono alcun conto delle minacce di sanzioni, dei pregiudizi sociali consolidati e di una valutazione utilitaristica delle possibili ripercussioni”. In quest’ottica, ogni violazione premeditata delle leggi e della stessa morale comune appare configurarsi in una manifestazione di libertà e, anzi, il livello di libertà affermato verrebbe ad essere tanto più alto quanto più clamorosamente violento lo sia stato il gesto di ribellione portano a compimento. L’apparente correttezza formale di questo ragionamento viene, però, a rivelarsi fittizia, qualora esso venga portato avanti fino alle estreme conseguenze logiche.
Infatti, il preciso attimo in cui viene realizzato il gesto di rottura violenta verrebbe sì a coincidere con quello della conquista, anche se effimera, di una condizione di libertà assoluta, ma, per le sue stesse modalità di attuazione, quel momento si trova ad essere quello dell’esercizio di una violenza su altri individui e, quindi, dell’affermazione di un potere assoluto su di loro.
Ne consegue l’insorgere di una situazione paradossale, ove uno stesso gesto è, contemporaneamente, atto di rivolta contro il potere e atto di affermazione di un potere; manifestazione di una volontà di ricerca della libertà assoluta e forma compiuta di prevaricazione e di sopraffazione autoritaria.
Rinuncio in partenza a qualsiasi tentativo di risolvere questa vera e propria antinomia semantica (che sembra formulata “ad hoc” per corroborare la vecchia teoria della “coincidentia oppositorum” cara al Cusano e a Giordano Bruno), per limitarmi ad osservare come essa sembri suggerire che l’adozione di una prassi (quella della violenza) che appartiene alla logica del dominio, porti con sé il rischio ineludibile di trasformare anche un gesto che vuole essere libertario in un atto di dominazione sugli altri e di avvallo del principio di potere.
Considerazione questa che, secondo me, non vede ristretta la sua validità all’ambito circoscritto degli attentati individuali, ma pone sul tappeto il problema più grande della rimeditazione e forse di una parziale revisione di alcuni concetti implicati tradizionalmente da molti progetti di rinnovamento radicale della società, quali sono stati concepiti nel passato (nella misura in cui essi contengono la proposta di strategie rivoluzionarie di tipo “militare”) e l’esigenza della individuazione di percorsi rivoluzionari liberati dall’ipoteca della necessità di adottare mezzi intrinsecamente autoritari e, di per ciò stesso, contraddittori con i fini che si vogliono perseguire.* Questo scritto inedito costituisce l’essenza della riflessione autocritica di Bertoli rispetto al proprio gesto di 13 anni fa. Rappresenta a questo proposito l’approfondita continuazione logica di un discorso già toccato pubblicamente attraverso gli articoli “Il prezzo da pagare” e “Atti individuali e ‘terrorismo'”, pubblicati su “A rivista anarchica” e ora riproposti nelle seguenti pagine. Elaborato nel gennaio ’85 non fu pubblicato su “A rivista anarchica” per mancanza di spazio ed in seguito, per identici motivi, non poté comparire neppure su “Senzapatria”. Proponendolo oggi si è ritenuto opportuno collocarlo in veste introduttiva, rispecchiando fedelmente l’attuale pensiero dell’autore.
(Fonte: Gianfranco Bertoli, Prefazione dell’autore, in Attraversando l’arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986.)
Il prezzo da pagare*
Cari compagni (…) è ormai passato tanto tempo, quando si svolse il mio secondo processo a Milano, Luciano Lanza che assieme a voi volle essere presente (e non so dirvi cosa volle dire per me) mi fece avere tramite l’avvocato, due dei tre volumi (il primo e il terzo) degli scritti di Malatesta (sono tra i pochi libri che sono riuscito a salvare nelle mie «peripezie» carcerarie e che conservo ancora), ebbene, proprio nell’ultima pagina del terzo volume, sotto il titolo di «ultimi pensieri», vi è una frase, una considerazione tanto umana, tanto «modesta» e priva di retorica, da colpirmi profondamente e da spingermi a rimediare e rivedere un po’ tutto il mio universo mentale, questa: «Colui che tira una bomba ed uccide un passante dice che, vittima della società, si è rivoltato contro la società. Ma il povero morto potrebbe dire: “Ma che sono io la società?”».
Questa semplice, addirittura elementare, considerazione di Malatesta «vecchio» (del 1933, anno in cui io sono nato)** nel contempo dolorosa e pacata, mi ha colpito profondamente ed ha non poco contribuito ad incrinare la «torre d’avorio» delle mie certezze «assolute», del culto senza limiti di quel «dio» senza la «d» iniziale di cui parlava Bruno Filippi, del mio trastullarmi, patetico e impotente peraltro, con una specie di «superomismo» di sapore Nietzschiano.
Certo non è solo a causa di queste parole, vi sono state altre cose, non ultimi il dialogo che pur attraverso la difficile mediazione del linguaggio epistolare, ho ad un certo punto intrecciato con voi quando ero a Porto Azzurro, poi tante altre cose che sarebbe lungo elencare, ma mi sono trovato, pur senza, cercate di non fraintendermi, rinnegare il mio passato, a dover tutto rimeditare e riconsiderare, situazione questa non priva di dubbi, domande senza risposta, laceranti contraddizioni ed una «crisi» da cui non sono tutt’oggi riuscito ad uscire.
La realtà esistenziale, poi, cui mi trovo costretto è ben lungi dal poter essere considerata ottimale per il conseguimento di una certa serenità di giudizio e del relativo equilibrio, perciò, giacché non potrei non considerare come ogni atto umano ed il pensiero stesso vengono a risentire ed a venir, almeno in parte, condizionati dallo stato d’animo e dalle stesse condizioni ambientali, conto su una vostra benevola predisposizione ed una non necessaria severità nel giudicare e valutare le opinioni che sto per esporvi e la forma con cui lo farò: non è senza un certo «disagio», né senza prima aver dovuto superare notevoli esitazioni e qualche perplessità che mi azzardo ad intromettermi in una polemica, divenuta già aspra, tra dei compagni ben altrimenti colti, preparati e capaci più di quanto io, anche nelle migliori condizioni possibili, sarei mai potuto arrivare ad essere.
Ciò tanto più quando, come in questa occasione, se voglio essere sincero (e quello della sincerità è l’unico pregio che posso sperare di dare alle mie parole), non potrò limitarmi ad un allineamento in una delle due posizioni contrapposte, ma sarò costretto ad esprimere delle critiche sia alla tesi di fondo della recensione di A.M. Bonanno del volume «Colpo su colpo», sia a taluni argomenti cui fa ricorso Amedeo Bertolo nella sua risposta sulle pagine di «A».
Se mi sono risolto, nonostante tutto, ad arrischiarmi su di un terreno per me fin troppo difficile, è per due principali ragioni: in primo luogo perché sono stato, seppur marginalmente, «tirato in ballo» e ciò mi dà un piccolo diritto a «dire la mia» per quello che può valere. In secondo luogo perché, anche se in campo anarchico si fa un gran parlare di «autodecisione», «autogestione», «autoregolamentazione», e tanti altri «auto» quanti ne produce la Fiat, quando si tratta di esprimersi direttamente in prima persona e di dire la propria opinione su qualsiasi questione che ci riguarda tutti, quasi nessuno osa mai fare un piccolo sforzo e spiegare come la pensa; tutti là ad aspettare che qualcuno dica loro cosa pensare o cosa fare. Come è possibile proporsi di portare avanti un progetto rivoluzionario tendente alla realizzazione di una società senza gerarchie, senza la separazione tra lavoro manuale e quello intellettuale, ecc., se poi dobbiamo riconoscere di aver interiorizzato in noi stessi l’attitudine a lasciarsi guidare, ad accodarci ad un qualsiasi «leader», a lasciarsi pensare, decidere, agire qualcun altro senza mai sentire il bisogno di farsi sentire, di pensare con la nostra testa e comunicare ad altri individui pensanti questi nostri pensieri?
Dicevo più sopra di trovarmi, anche se in diversa misura, a dissentire con entrambi questi due compagni. Relativamente a quanto scrive Amedeo Bertolo nella sua «controrecensione», rinuncio a pronunciarmi sull’opportunità o meno di un tono tanto aspro, sferzante ed in certi punti quasi sprezzante come quello che in questa occasione rivolge al Bonanno. Certo il tono e il linguaggio sono tali da far prefigurare una rottura definitiva, tale da rendere quanto mai improbabile una conciliazione e che evidenziano la volontà di privilegiare lo «scontro» ad ogni ipotesi di «confronto-incontro» delle rispettive posizioni, questo non può non dispiacermi, ma debbo pur riconoscere che se il Bertolo, di cui ho avuto modo di conoscere altri scritti, la prosa sempre equilibrata, meditata profondamente e serena, ha scelto di adottare questo tono e tale linguaggio vi è stato, come si suol dire, «tirato per i capelli» da una annosa polemica fatta di attacchi, finora quasi tutti unilaterali, condotti con tono astioso e con linguaggio abbastanza «fiorito» per quanto concerne gli insulti e le truculente verbali.
Quello che, invece, vorrei mi fosse concesso di dire al compagno Amedeo Bertolo è che non posso condividere il suo modo di considerare l’anarchismo di Emile Henry come «quel tipo di anarchismo da spiegarsi (o forse solo da esorcizzarsi) con un particolare contesto… »: questo modo di considerare gli atti individuali di rivolta, e tali furono gli attentati di Henry, mi appare riduttivo e parzialmente sbagliato.
Certo Emile Henry fu, come ogni uomo, un «figlio del suo tempo», il suo modo di pensare e le conseguenze operative che ne discesero, sono stati influenzati o in parte determinati, dalla realtà sociale in cui era immerso, dalla «cultura del suo tempo», dal tipo, storicamente determinato, di oppressione e di repressione con le quali si è trovato a cozzare e contro le quali ha voluto lottare, ma, il gesto di Henry non si inquadra nel contesto di una scelta «strategica» di un «movimento» o di un «partito», è la conseguenza di una decisione individuale, un atto «unico ed irripetibile» come lo è ogni individuo. (Non sta a me, protagonista contemporaneo di un atto altrettanto tragico e grave, dare dei giudizi di merito, dire cioè se l’Henry abbia fatto «bene» o «male», per lui era giusto fare quello che ha fatto, per dirla con O. Wilde: «Il vizio supremo è la superficialità. Tutto ciò che viene vissuto fino in fondo è giusto»).
La rivolta violenta di Henry si inserisce, secondo me, nella storia eterna della rivolta umana e trascende, pertanto, i limiti della temporaneità storica in cui è stata vissuta. Per questo non credo possa venire etichettata come «ramo secco». Luis Mercier Vega scriveva, alla fine del suo libro pubblicato «postumo» in Italia corredato da una brillante ed interessante presentazione del Bertolo che: «Può darsi che il cammino del mondo, accelerato in campo economico da uno stato di guerra permanente, la concentrazione dei poteri ed una tecnologia riservata a pochi cervelli infrangano il sogno di una società operaia. Ciò che allora non si può scartare, come prospettiva evidente dei successi e delle realizzazioni scientifiche, è che le rivolte si facciano nichiliste».
Un altro punto su cui mi trovo in disaccordo col compagno Bertolo è quel suo accennare ad un «movimento anarchico maturo». Qui ci troviamo di fronte a due modi di concepire il «movimento anarchico» del tutto diversi. Per Amedeo Bertolo mi pare di poter capire che egli veda il movimento anarchico come un «tutto» omogeneo che si muove lungo una linea univoca ed attraverso diversificate comuni esperienze si sviluppa, progredisce e matura. Io, propendo, invece, per considerarlo come un insieme composito, sempre mutevole e mai definitivamente delimitabile, di individualità e di «gruppi di affinità» diversi, per indole, per esperienze esistenziali, per scelte operative, e che sono accomunati solo dalla negazione del «principio di autorità» nell’organizzazione sociale e dalla volontà di arrivare all’abolizione di tutte le costrizioni e le sofferenze che derivano dalle istituzioni fondate su questo «principio».
Il grado di maturità, quindi, del Movimento Anarchico nel suo complesso non può essere mai altro se non il risultato, ad un movimento dato, della somma addizionale del grado di maturità delle sue componenti. Paradossalmente, quanto maggiore viene ad essere, a livello di massa, la maturazione e la presa di coscienza individuale e le conseguente adesione all’ideale libertario, tanto meno «maturo viene a trovarsi ad essere, il livello qualitativo «collettivo» del movimento stesso.
Con ciò non voglio affatto dire (me ne guarderei bene perché sarebbe pazzesco), che quei compagni che hanno un grado di maturità maggiore debbano rinunciare a farne partecipi altri che questo grado non hanno raggiunto, e cercare anche di «immunizzare» dal pericolo di possibili scelte che considerano sbagliate. Credo proprio che nessun anarchico possa proporsi di «esorcizzare» la rivolta anche se può sconsigliarne o anche «condannare» certe forme. Personalmente ho salutato con piacere l’iniziativa editoriale che ha portato alla pubblicazione degli scritti di Emile Henry e delle sue dichiarazioni, ciò perché non ho mai potuto comprendere che da parte di anarchici si sia ricorsi all’espediente di far calare una cortina di silenzio su avvenimenti che, lo si voglia o meno, appartengono a pieno titolo alla storia dell’anarchismo.
Detto questo sarebbe giunto il momento di prendere in considerazione quella recensione di «Colpo su colpo» che ha dato origine all’articolo di Bertolo sulla rivista. Dico «sarebbe» perché credo che, a chiunque sia stato dato di leggere sia il volume della «Vulcano», sia la recensione apparsa su «Anarchismo» non possa non essere apparsa evidente la gratuità e la assoluta impossibilità della interpretazione di Emile Henry e del suo gesto che si è voluta dare.
Quella di voler far apparire l’Henry come un precursore di una specie di «soluzione finale del problema borghesia», o di una versione «libertaria» dell’eliminazione fisica dei «Kulaki» voluta dal fu Josef Vissirianovic, mi pare una «trovata» assai poco rispettosa per l’intelligenza dei lettori e soprattutto per la memoria stessa di Emile Henry. Si tratta, secondo me, di una tesi che è parsa all’autore «originale» e che ha voluto perciò proporre, prendendo poi in considerazione di tutta la vicenda solo quel poco che può servire a puntellarla. Una riprova, poi, della superficialità con cui A.M. Bonanno, in altre circostanze tanto meticoloso ed accurato (e indubbiamente intelligente e preparato), si è accostato alla storia del gesto di Henry e dello stesso protagonista, ci viene dall’equivoco stesso in cui l’autore incorre quando accenna allo scritto di Malatesta sull’«En Dehors» (pubblicato nel 1892), come di un commento dello stesso al gesto di Henry, gesto attuato, invece quasi due anni dopo.
Una sola cosa vorrei poter dire al compagno Bonanno, anche se so che l’accoglierebbe con scherno, anche se so bene quanto disprezzo egli abbia riservato alla mia persona e come, forse, si sentirebbe offeso solo a sentirsi dare da me del «compagno» (per lui si sa sono uno «sporco provocatore fascista»), vorrei solo dirgli che quando un individuo decide, a torto o a ragione, di reagire con la violenza alla violenza istituzionalizzata e permanente del potere, deve essere pronto a pagare di persona; dire agli altri che è «bello» e «giusto», parlare di «cervelli che schizzano» e di «sangue che scorre», fino che tutto rimane «teoria» può anche gratificarci, ma quando poi passa dal pensiero all’azione, le cose non sono più così facili.
Non parlo tanto del rischio di morire o di quello dell’ergastolo, ma di qualcosa di molto più brutto, di quando davanti ai corpi straziati e alle terribili grida dei feriti, uno si domanda che cosa egli stesso è diventato. Certo questo uno non lo riconoscerà mai davanti ai giudici ed al potere che lo condannano e che sono ben peggiori di lui. Ma, con se stesso e di fronte a dei compagni questi dubbi, questa sofferenza, è inutile nasconderli. Sarebbe inutile continuare perché potrebbe apparire ipocrita retorica. Soprattutto non intendo rinnegare nulla né dichiararmi pentito, volevo solo dire che ribellarsi può essere giusto e lecito ma bisogna essere coscienti del prezzo che si deve pagare e essere disposti anche a questo.
* Pubblicato nel maggio 1979 sul n° 74 di «A rivista anarchica», pp. 31-32, questo scritto entra in argomento nel dibattito sulla violenza, centrato sulle tematiche dell’attentato individuale in seguito all’uscita del libro «Colpo su colpo» della Vulcano Editrice. L’intervento nella sua prima parte analizza il fenomeno degli atti individuali di rivolta e la vicenda specifica di Emile Henry, mentre nella conclusione Bertoli riesamina criticamente il suo gesto, mettendo in guardia contro i facili miti della violenza ed esprimendosi, per la prima volta pubblicamente, in merito alla propria vicenda.
** Si tratta evidentemente di una distrazione dell’autore, poiché Malatesta morì nel 1932 [N.d.F.].
(Fonte: Gianfranco Bertoli, Il prezzo da pagare; in Attraversando l’arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986.)
Siamo tutti detenuti politici?*
Nella tua lettera ad Angelo** tu hai chiesto sia a lui che a me di farti conoscere le nostre opinioni sul documento, opera di compagni ristretti nel carcere militare di Peschiera (….).
Abbiamo, naturalmente, letto e anche discusso assieme (io e Angelo) quello scritto e sarebbe forse stato più consono all’attuale «moda» delle «dichiarazioni», «documenti», ecc. ecc. «collettivi», se avessimo riassunto una specie di «sintesi» delle nostre impressioni e «giudizi» per mandartelo in comune.
La cosa non avrebbe presentato grandi difficoltà, stante il fatto che fra me e il compagno Angelo si è instaurato un clima di reciproca comprensione e si è rivelata una buona affinità caratteriale ed «ideologica»; la mia componente «individualista», però, non manca mai di riaffiorare e così preferisco parlarne a mio nome esclusivo, lasciando poi ad Angelo di dirti, in piena autonomia, se e dove egli si trovi a dissentire da esso.
Venendo al dunque: mi pare che quei compagni arrivino a delle conclusioni e a dei suggerimenti ed ipotesi di lavoro sul carcere militare che sono in sé giuste e valide, introducendo però il discorso con una premessa-asserzione che mi pare discutibile.
Cercherò di spiegarmi meglio: è, secondo me, vero che dal punto di vista oggettivo TUTTI coloro che si trovano a dover subire la repressione del Potere sono vittime di un’oppressione, quali che siano le cause e le motivazioni o gli impulsi che li hanno portati a cozzare cercando di infrangerle contro le leggi, le norme, e le imposizioni dello stato, subendo pertanto la vendetta di questo. Sempre secondo me però è un po’ azzardato sostenere che non vi sia differenza alcuna tra chi si trova a dover subire le conseguenze di una precisa scelta «etica» quale può essere il rifiuto cosciente a divenire complice di un sistema sociale che si rifiuta, integrandosi, anche se coerciti a farlo, in una delle sue strutture più esplicitamente predisposte alla perpetuazione del Potere ed ogni forma di comportamento «illegale» comunque determinata.
Un individuo può diventare «ribelle» per mille ragioni, non esclusa quella di una reazione all’insoddisfazione di non aver avuto l’opportunità di esercitare egli stesso una parcella di «potere».
Certo, chiunque si trova a dover subire sulla propria pelle la violenza della società gerarchica è un interlocutore privilegiato per chi porta avanti un progetto rivoluzionario libertario, ma la posizione «soggettiva» di chi a causa della sua situazione «oggettiva» può essere facilitato ad una «presa di coscienza» in senso rivoluzionario e quella di chi è venuto a trovarsi nella stessa situazione «oggettiva» a causa proprio di comportamenti determinati dalla sua preventiva (ed a livelli anche elevati) presa di coscienza e dalla necessità di coerenza etica con le idee che professa, non sono per me classificabili come identiche.
Anni fa, ai tempi dei primi «interventi» della «sinistra» sul «carcerario» era venuto di moda una frase, una specie di «slogan», questo: «siamo tutti detenuti politici», volendo con questo attribuire a tutti ed ognuno degli ospiti delle «patrie galere» – ipso facto – una specie di «aureola» ed il ruolo inequivocabile di predestinato protagonista della rivoluzione sociale.
Ora, se è vero che chi si trova in carcere vi è perché – a torto o a ragione – è stato accusato di aver violato una «Legge» dello Stato e le «leggi» sono appunto frutto dell’«attività legislativa» e sono pertanto sempre un atto politico, vi sono mille ragioni e motivi diversi che possono portare un individuo a scontrarsi con queste stesse leggi e a subire la sanzione.
Quale differenza vi è, per esempio, nelle aspirazioni ed i fini che si propongono tra il capitalista che sfrutta il lavoro ed i suoi operai ed il «marchettaro» che manda la donna a «battere» per sfruttarne il «lavoro», se non la circostanza che l’uno è approvato, rispettato e protetto dalle leggi, mentre l’altro rischia il rigore delle stesse? E il cosiddetto «mafioso» non è forse il rappresentante di un «potere» anche se non legalizzato?
E che dire allora di quel detenuto che, pur vittima del potere di stato, sfrutta l’eventuale «prestigio malavitoso», la superiorità fisica o l’abilità ad usare il coltello, per imporre la sua supremazia su altri prigionieri magari «facendosi» con forza uno «sbarbato»? Nella condizione di carcerato possono poi finire (anche se raramente) veri e propri «uomini del potere» a causa delle lotte tra «uomini del potere», oppure – molto più frequentemente – aspiranti al potere che altro non sognano di mettere altri nelle stesse, se non peggiori, condizioni in cui sono caduti ora essi stessi.
Nelle «carceri speciali», tanto per fare un esempio, sono rinchiusi «rivoluzionari» dichiaratamente stalinisti e altri che si autodefiniscono «fascisti» o addirittura nostalgici del «nazismo»: ma, anche se è vero che oggi sono anche loro degli oppressi, cosa ci regalerebbero quando, per assurda ipotesi, fossero risultati vincitori, forse il Gulag sovietico o i Lager di Hitler?
Caro compagno, temo che ti parrà che io abbia divagato uscendo dal tema specifico della situazione nel «carcere militare» e della posizione degli «obiettori totali», in realtà l’ho fatto di proposito perché credo che ogni problematica parziale si inserisca in fondo in un contesto più ampio e globale e come tale vada considerata.
Per il resto, sulla necessità ed opportunità di un interessamento del movimento libertario per le condizioni di tutte le vittime dell’oppressione senza preclusioni e pregiudizi, non posso che condividere l’opinione espressa in quel documento da quei compagni.
Con un forte abbraccio, saluti libertari.
* Pubblicato su «Senzapatria» n° 5, settembre-ottobre 1979, la lettera di Gianfranco analizza un documento di alcuni obiettori non sottomessi detenuti nel carcere militare di Peschiera del Garda per rifiuto del servizio militare. Titolo originale: «L’opinione di un altro compagno detenuto», pagg. 15-16.
** Angelo Cinquegrani è stato per diversi anni compagno di cella di Gianfranco.
(Fonte: Gianfranco Bertoli, Siamo tutti detenuti politici?; in Attraversando l’arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986.)
Voi, signori della stampa*
Dott. Eugenio Scalfari Direttore de «La Repubblica»
Sono potuto venire a conoscenza solo ieri dei pesanti riferimenti alla mia persona contenuti in un’intervista dell’on. Rino Formica, apparsa su «La Repubblica» del 29 dicembre. Non mi interessa esprimere arbitrari giudizi sull’intelligenza e la buona fede di tanto autorevole personaggio che, evidentemente, (cosa comprensibile considerata la mole delle illazioni, delle insinuazioni e delle pseudorivelazioni che vennero diffuse al tempo della tragica vicenda di cui sono stato protagonista), è stato vittima di un abbaglio, frutto di personale disinformazione su quell’episodio specifico. Neppure voglio, qui, stare a ripetere le spiegazioni del mio gesto abbondantemente date in sede giudiziaria, a confutare le quali mai ebbe ad emergere (contrariamente a quanto avvenne per tutte le sensazionali «rivelazioni» che vennero ripetutamente diffuse con grande clamore) alcuna circostanza oggettiva. Quanto a quello che può essere il giudizio che do oggi al mio gesto di allora, preferisco, per non far mostra di volermi allineare alle scelte «dissociazioniste» (lecite a chi a qualche associazione ha appartenuto, ma prive di senso in un caso come il mio) rinunciare ad esprimere in questa sede, invitandovi, se ne avete la curiosità, a leggere quanto da me detto in proposito in unno scritto pubblicato, nel Maggio 1979, sul N° 74 di «A – Rivista Anarchica».
Vorrei solo precisare, circa l’asserzione secondo cui io sarei stato un collaboratore del «SIFAR», che quando, alla vigilia del mio processo di secondo grado, tale insinuazione venne divulgata dalla stampa, come una «scoperta» dell’allora capo del «SID», ammiraglio Casardi, suffragata, si diceva, dal rinvenimento di «fogli paga» e di mie ricevute firmate, non avendo altro mezzo per controbattere questa menzogna, arrivai alla denuncia formale per «falso ideologico» contro tale signore. Detta denuncia venne insabbiata senza che nessun magistrato si curasse neppure di interrogarmi in merito. Così come nessuno si preoccupò di procedere contro di me per «calunnia», quando feci pubblicamente il nome di questo ammiraglio, accusandolo di falso, davanti ai giudici della Corte di Assise di Milano, chiedendo che le «ricevute» di cui asseriva l’esistenza venissero esibite e sottoposte a perizia calligrafica.
Quanto alla qualifica di «sedicente anarchico» attribuitami dall’on. Formica, dirò solo che lo ritengo tanto poco qualificato a pontificare in merito di quanto non lo sia io a tacciarlo di «sedicente socialista». Un’ultima osservazione: da ogni parte non si fa che deprecare, e giustamente, le molteplici forme di manipolazione della verità e di depistaggio volontario verificatesi in questi anni. Ma voi, signori della stampa, avete mai pensato che vi possono essere forme di «depistaggio involontario» delle quali siete voi stessi i responsabili? La ottusa pervicacia con cui mi si vuole associare ad ogni costo con ogni evento drammatico che avvenga in Italia (è stato fatto persino in occasione dell’attentato a Wojtila), quasi come fossi stato prescelto come «capro espiatorio» buono per tutte le circostanze, non vi sembra che possa finire con il favorire proprio coloro che vogliono occultare le macchinazioni che vengono consumate?
Distinti saluti
* Questa lettera, scritta da Gianfranco Bertoli al quotidiano «La Repubblica», venne completamente ignorata nonostante i pesanti e infamanti riferimenti del socialista Formica in merito ai soliti ipotetici collegamenti tra Bertoli e i mandanti della strage del rapido Napoli-Milano (vedere a questo proposito «La Repubblica» del 29 dicembre 1984). Ma il giornale Scalfar/democratico, tra una «sveglia» e l’altra, preferì evitare la pubblicazione di altre lettere di protesta riferite all’argomento, avallando così le tesi di Formica ed allineandosi alle già sperimentate logiche del depistamento delle relative indagini. La lettera di Bertoli troverà invece spazio sul settimanale anarchico «Umanità Nova» del 27 gennaio 1985 e sul numero di febbraio di «A rivista anarchica».
(Fonte: Gianfranco Bertoli, Voi, signori della stampa; in Attraversando l’arcipelago, Edizioni Senzapatria, 1986.)