A chi scenda il Reno da Mayenza a Colonia appare, non appena superato Bingen, ad un gomito brusco del fiume, lassù in alto, torreggiante sulle scure macchie del Niederwald e sulle vigne dorate del Rudescheim, la statua colossale della Germania, il monumento che or sono venticinque anni i tedeschi innalzarono alla patria unificata nei cuori e nelle vittorie.
L’avevano inaugurata il 28 settembre del 1883 ed a memoria di ogni buon tedesco nessuna solennità era stata celebrata mai per lo avanti con tanta pompa e tanto splendore.
Vi assistevano l’imperatore Guglielmo coi principi e la famiglia, il re di Sassonia colla famiglia reale, quasi tutti i principi, i granduchi, i grandi elettori della Confederazione, Bismark e Moltke, i taumaturghi delle ultime vittorie, tutti i grandi dignitari dello Stato ed una folla straordinaria di cittadini convenuti da ogni più remoto lembo della patria in festa.
Venticinque anni fa…
Ai giovani la data non dice nulla; ma i vecchi, coloro almeno che un quarto di secolo addietro erano già afferrati e travolti dal turbine delle idee nuove, tra le ceneri dell’ultima rivoluzione politica frugavano e cercavano una favilla per riaccendere la face di una più vasta e più profonda rivoluzione che alle plebi, eternamente tradite, annunziasse più alto e più umano diritto, il diritto al pane ed
alla libertà, i vecchi non ricalcano senza fremere, a ritroso di questi venticinque anni, il solco della memoria.
Imperversava allora in Germania, su tutta la Germania, quel ciclone di reazione furiosa e selvaggia che iniziatosi il 24 febbraio 1878, all’indomani quasi dell’attentato di Nobiling, non doveva chiudersi che il 20 febbraio 1890 colla
caduta di Bismark. Dodici anni di leggi eccezionali, dodici anni di piccoli e di grandi stati d’assedio periodici, dodici anni di regime statale, di dittatura della polizia la quale, nella sospensione di tutte le guarentigie costituzionali, faceva strame di ogni più elementare diritto dei cittadini.
La libertà di pensiero di parola di stampa, di riunione, di associazione, confiscata con un bando dei prefetti di polizia, mille trecento giornali furono soppressi, trecentotrentadue organizzazioni operaie disciolte, novecento cittadini cacciati in bando, millecinquecento condannati complessivamente a parecchie migliaia di anni di carcere duro.
I processi di crimenlese sollecitati dalle segrete circolari del Leonhart, ministro per la grazia e giustizia, ed impudentemente architettati dalla sbirraglia onnipotente, erano all’ordine del giorno: il tribunale di Berlino nella sola giornata dell’8 giugno 1878 condannò a ventidue anni di carcere per la lesa maestà sette lavoratori accusati di aver mormorato che «se l’imperatore era stato ferito aveva dopo tutto i mezzi di curarsi e di guarire». Per lo stesso reato una donna di Brandeburg su l’Avel aveva buscato, sempre per lesa maestà, un anno e mezzo di lavori forzati.
Era il regno della delazione, del sospetto, della paura.
E lo spettacolo era tanto più triste che la social-democrazia pur già vigorosa e
solidamente organizzata aveva ceduto al primo impeto ed aveva, malgrado le energiche proteste e l’indomito esempio di Johann Most, abbassato ed ripiegato subito la sua bandiera.
«Compagni! non lasciatevi provocare! Si vuol tirare su di voi. La reazione ha bisogno di disordini per vincer la partita» (1) scriveva il Vorwarts; «nessuna violenza, state nella legge per la difesa dei vostri diritti! State tranquilli, non abboccate alle provocazioni; è sotto la nostra legalità che soccomberanno i nostri nemici» raccomandava il Comitato Centrale del partito, mentre l’organo ufficiale della Social-democrazia prendeva sopra di sé «il grave ed amaro compito» di scrivere conformemente alle prescrizioni della legge (2).
Non tutti cedettero però alla paura, non tutti disarmarono in omaggio alle castrate sobbillazioni dei berrettoni social-democratici, dei quali taluno come il Geib e l’Hartmann si ritiravano vigliaccamente in faccia al nemico, mentre il famoso Comitato Centrale Elettorale di Amburgo si squagliava ora che, sotto la raffica, l’energia ed il coraggio dovevano tradursi in forme meno innocue e meno anodine che non quella del suffragio.
Attorno a Johann Most, appena uscito di carcere e cacciato in bando, intorno alla
sua Freiheit che flagellava per una parte ferocemente i manigoldi della reazione
e rampognava per l’altra senza riguardi ai suoi compagni social-democratici la loro sconcia e svergognata remissione, era un manipolo di gagliardi pronti ad ogni
sbaraglio.
Era di quel manipolo August Reinsdorf che aveva concepito — e tradotto in realtà fin dove le forze gli avevano consentito — il pensiero di far saltare in aria il 28 settembre 1883 l’Imperatore Guglielmo, il Re di Sassonia colle rispettive famiglie imperiali e reali, i principi, i granduchi, i grandi elettori della Confederazione, Bismack e Molthe e i grandi dignitari — gli artefici e gli araldi del regime d’eccezione che della Germania appena risorta avevano fatto in breve giro d’anni un sepolcro od una galera.
Ah, voleva quel pugno di parassiti abolire le conquiste dell’ultima rivoluzione politica, fermare il sole sul suo bieco disegno, e scompigliare, sgominate dal suo terrore, le minoranze ribelli a questa utopia di medievale restaurazione?
Ah, le leggi ed il regime d’eccezione inaugurato il 24 ottobre 1878 dovevano
persuadere alla vecchia Europa che sotto il pugno di ferro del gran cancelliere sarebbero nell’ultima colvulsione spirate le eresie selvaggie che fermentate nel grembo insolente dell’Internazionale minacciavano ora contendere ai Semidei il pane, la gloria ed il sole?
Ebbene egli, egli solo, troncherebbe di un colpo all’idra della reazione tutte le
sue teste.
E poiché dalla trama bieca degli agguati legislativi e dalla ferocia selvaggia della loro polizia criminale e dalla cannibalesca persecuzione — che negli strati più
umili del popolo abbrunava di lutti, di dolori, di lacrime, di sciagurati presagi i
tuguri, gli animi e l’avvenire — si ripromettevano i semidei la confusione, lo sbaraglio delle idee nuove e del movimento in cui si incarnavano, — egli, egli solo, avrebbe tra le scure macchie del Niederwald offerto alla Libertà vilipesa, così immane olocausto che di più grande, di più tragico non osò sognarne mai la druidica leggenda; mostrando ai fiacchi che non si propiziano tra le genuflessioni le aurore della riscossa; riaccendendo nello scompiglio universale l’audacia, il coraggio, la fede dei forti, sfidando tra gli schianti della sua terribile vendetta
l’olimpo dei semidei a spegnere la fiaccola della civiltà nelle mani di una minoranza temeraria che abbia la piena coscienza della propria forza e del proprio
destino.
Egli solo, il 28 settembre 1883…
Ed egli sarebbe bastato alla bisogna se questa si fosse potuta assolvere col suo
solo coraggio, la sua sola volontà, la sua sola fermezza.
Disgraziatamente egli era molto malato. La tubercolosi gli rodeva la laringe, gli insidiava tutto l’organismo. La vita era confinata nella volontà e nello sguardo. Pure in quello stato, sotto la pioggia che scrosciava nell’autunno precoce, pochi giorni prima che si facesse la solenne inaugurazione della statua della Germania, egli andò lassù solo, carico di oltre settanta cartucce di dinamite e di quanto poteva occorrere per preparare una buona mina.
Esplorò ogni più riposto angolo della spianata su cui si dovevano erigere le tribune imperiali e quelle del pubblico, ed un sogghigno infernale gli contrasse le labbra, gli accese le pupille quando s’accorse che al piede della scarpata su cui doveva erigersi, in faccia al monumento, la tribuna imperiale, sboccava la tubatura di un canale di scarico.
Riprese, fremente di gioia, la via del ritorno: «per di là inosservata, insospettata sarebbe passata la folgore vendicatrice!».
Non poteva mancare!
Mancò!
August Reinsdorf tornò a casa inzuppato fracido, febbricitante, con una tosse che gli rompeva il petto e per soprassello con una lussazione al piede destro. Dovette rimanere a letto tutto il domani, farsi trasportare il dopo domani all’ospedale…
Ma al suo proposito non aveva rinunciato anche se l’impossibilità di muoversi gli toglieva l’orgoglio di tradurlo in pratica da solo.
Mandò allora a cercare due compagni, Käckler e Rupsch, a cui confidò il suo piano, il deposito delle cartuccie di dinamite, la necessità e l’urgenza d’agire.
I due accettarono con entusiasmo e dopo un’altra intervista all’ospedale con Reinsdorf partirono per Rudesheim.
S’era alla vigilia dell’inaugurazione e non v’era tempo da perdere. Giunti infatti alla sommità del Niederwald poterono constatare che ogni cosa era pressoché
allestita, le tribune erette e decorate, ogni cosa in ordine.
Tornarono la notte, collocarono al piede della scarpata il carico di dinamite, lo
collegarono con una miccia che attraverso il tubo di scarico condussero, lontano,
sulla strada pubblica, fissandone il capo coperto di un buon pezzo di esca ad un
tronco d’albero.
La notte diluviò, ma il domani il sole quasi volesse unirsi al tripudio dei loro cuori e mandar loro l’auspicio invocato sfolgorava su le vigne del Rudeshein e la pineta fosca del Niedewald.
Alle dieci del mattino il corteo imperiale s’arrestò ai piedi della tribuna. Käckler appoggiò il sigaro acceso sull’esca che copriva l’estremità della miccia ed assicuratosi che l’esca s’era accesa riprese passo passo come un annoiato la via della città. Era fatto.
L’esplosione mancò. La pioggia che era caduta dirotta, insistente quanto la notte era lunga, aveva inzuppata la miccia rendendo vano così il terribile proposito di Reinsdorf, di Rupsch e di Käckler che furono più tardi arrestati e tradotti per rispondere di alto tradimento dinanzi alla Corte Suprema dell’Impero il 13 dicembre 1883.
Lo spazio ci manca a dare oggi un dettagliato resoconto del processo che per le
esplicite energiche dichiarazioni di principio fattevi dal Reinsdorf è forse tra i più suggestivi episodi di propaganda di quell’epoca.
Lo faremo un giorno a l’altro distesamente. Basti a complemento di queste note aggiungere che mentre Rupsh e Käckler e Backman e gli altri coimputati cercarono con ogni mezzo salvar la testa affermando che l’esplosione non era avvenuta perché all’ultimo momento, presi dal rimorso essi avevano tagliato in due punti la miccia (Rupsch fu infatti graziato e Backman se la cavò con dieci anni di lavori forzati, mentre Käckler fucondannato a morire) Reindsorf rivendicò piena ed intera la paternità e la responsabilità dell’attentato.
August Reinsdorf fu decapitato nel cortile delle carceri di Halle la mattina del 5 febbraio 1885 insieme con Käckler.
Käckler ebbe all’ultimo momento dinnanzi alla scure un brivido.
Non Reinsdorf che cantando allegramente una canzone dell’epoca
du muss sterben
Und du bist noch so jung, jung, jung!
(tu devi morire
e pur sei ancora sì giovane, sì giovane, sì giovane!)
chinò il capo sul ceppo gridando a squarciagola Viva l’Anarchia! Abbasso la barbarie!
1) F. Mehring. Dodici anni di leggi eccezionali, “Critica Sociale”, Milano 1901, pag. 18.
2) Ibidem pag. 33.
[Cronaca Sovversiva, anno VI, n. 41, 10/10/1908]