Io ribadisco e rivendico la mia appartenenza all’anarchismo individualistico aristocratico, e difenderò questa tendenza da tutti gli attacchi, gli assalti e le imboscate come fosse l’ultimo bastione della mia libertà.
Questa tendenza annovera tra i suoi esponenti, tra i suoi uomini d’azione più noti alcune delle figure più eroiche, tragiche e sublimi dell’intera storia dell’anarchismo ma aggiungerei dell’intero umano genere da che sventuratamente esso esiste, come Bruno Filippi e Renzo Novatore alias Abele Ricieri Ferrari; trova i suoi presupposti teorici soprattutto in Nietzsche e Palante, poi in Stirner, in Sorel, in Bergson, in tutte le avanguardie artistiche ed eversive del Novecento, buon ultimo il situazionismo, nella concezione della vita come opera d’arte così bene realizzata da D’Annunzio, nell’imperativo del “vivete pericolosamente” di ascendenza nietzschiana, nelle opere del giovane Giovanni Papini autore di “L’altra metà. Saggio di filosofia mefistofelica” (1911) e di “Un uomo finito” (1912) – e non nel Papini successivo autore tra l’altro della “Storia di Cristo” (1921), tanto conformista e banale da essere rigettata con disgusto dagli stessi fascisti tradizionalisti – ed infine si autocompiace in Mario Morasso autore di “Uomini e Idee del Domani. L’Egoarca” (1898).
L’aristocraticismo rivoluzionario o meglio più precisamente l’individualismo aristocratico non è aspirazione alla sopraffazione, al dominio, non è l’auspicio al mantenimento dello status quo della Gerarchia, non si propone la conquista del potere o l’accesso al governo, non è certo condizione acquisita politico-giuridica o di privilegio socio-economico da dover difendere dagli assalti dei reietti. E’ invece l’assalto stesso. E’ invece uno stato dell’animo, consolidato da uno sdegno morale, che conduce al disprezzo e al distacco verso tutto ciò che è, che ci circonda; esso è un ideale volontaristico e attivistico ma profondamente pessimistico, che profetizza il Caos e proferisce, sulla scia di Novatore, un NO! senza argomento. E’ contro la vita e la realtà, corrotta e impura. Non crede in riscatti e redenzioni. E’ amorale. L’individualismo aristocratico ci spinge a fidare solo in noi stessi. I suoi stilemi linguistici sono permeati da una costante, perseverante ed incorreggibile farneticazione, atta a suscitare a getto continuo scandali, fraintendimenti e provocazioni. E’ un orgiastico impazzire dei motivi più disparati e arbitrari, delle violenze verbali o immaginifiche più estreme esercitate sopra la realtà più usuale fino ad abolirla. Esso rifiuta la bontà d’animo degli anarchici “della malva e del thé” così definiti dall’individualista d’azione Paolo Schicchi, “potefici di un anarchismo rinunciatario e pantofolaio”(1). Ed inoltre e soprattutto, l’anarchismo individualista aristocratico non accetta di essere vincolato e rinchiuso nell’adorazione acritica e beota di un qualsiasi autore, di una qualsiasi opera, di un qualsiasi fatto. Accetta e condivide solo ciò che gli si attaglia, il resto lo accantona per momenti diversi o migliori. Non c’è nulla al mondo di più lontano dal potere e dal servilismo culturale, operanti nei secoli.
[…] “La mia opinione di oggi non è un vincolo per il domani, non voglio girare come un cadavere avvolto nel sudario delle mie antiche opinioni, cioè mi riservo il diritto di modificare opinione da un momento all’altro” […]
(Emile Armande, “Iniziazione individualista anarchica”, 1923)
Condannare la concezione aristocratica anarchica, superba forma di distacco e di separazione dall’individualista dal gregge umano sempre intento alle sue pratiche basse di automacellazione, la quale comporta il rifiuto più radicale ed assoluto della politica e di tutte le relazioni con la massa di perdizione, condannare questa come fascismo non è soltanto una mascalzonata e una viltà e una infamia, ma è indice di ignoranza quando non di stupidità o di imbecillità.
Anarchici delle altre tendenze, potete prendere le distanze da noi, demolirci o semplicemente enfatizzare le differenze tra voi e noi, tutto è lecito, nulla ha senso. Ma non vi permetteremo di liquidare l’anarchismo individualista aristocratico come cripto, pre, proto, neo, post, pseudo o addirittura filofascismo. Sarebbe un’onta da lavare con il suo sangue e noi Cavalieri del Nulla non ci tireremo certo indietro, giacchè il valore che attribuiamo alla vita umana, nostra e degli altri, non è molto.
Guai a chi non è capace di audacie teppistiche! Guai a chi, ogni notte, non si sente signore assoluto della città e gonfio di disprezzo per coloro che dormono!
Scrive Papini in “La’altra metà. Saggio di filosofia mefistofelica” (1911): “Credo che la mia missione abbia da essere quella medesima del diavolo nel grande universo del Signor Iddio. Negare, risvegliare, pungere e tentare. Ribellarsi, spingere al male, addittare gli abbissi, condurre per la mano, attraversare le tenebre, precipitare nell’inferno dell’insaziante particolare in odio al paradiso dell’unità e dell’ordine. C’é pur bisogno del nulla di Mefistofele, perchè un Faust possa trovarsi il suo tutto. Io mi sobbarco a far questa parte: sono una vittima, una specie di Cristo espiatorio. Sto nel no, nel cattivo no, perchè altri possa scoprire, salendomi addosso nuovi si. Sono il Giuda Iscariota del pensiero vero e accetto l’obbrobrio con simpatia – direi quasi, bassamente, con vanità. Il mio ufficio è di quelli che i retti pensanti non accettano ma essi sanno bene che per le spedizioni pericolose ci vogliono Rauber e bandoleros. Io sono adatto a far da cavallegero perduto: ho nel sangue la malattia del rischio e non ho paura di guarire. Tale è la mia natura. Spregevole? Forse. Ma di questi avventurieri della teoria, audaci, capricciosi, mutevoli, senza fede nè parte, errabondi o spregiudicati possono giovarsi anche i regolari e i capitani della buona causa.”
“Alla fin delle fini, io riuscirò a che nessuno mi riconosca più, per sempre. Sarà difficile cogliermi in fallo o seguire le mie peste. Sarà difficile trovarmi. Assumerò in ogni modo una mia spiccata personalità, intima, vera, autentica, e nessuno sarà capace di individuarla”.
(Marcello Gallian, “Vita di sconosciuto”, Roma, Tiber, 1929)