È uscito il terzo numero del giornale ecologista radicale «L’Urlo della Terra».
In questo numero:
– Una mappa per accedere al cervello
– Gli alberi geneticamente modificati e la bioeconomia
– Verso una stagione di consenso biotech?
– Il selvatico recintato nel panino di Expo
– Note a margine di un corteo ogm
– Francois Kepes, razionalizzatore delle macchine viventi
– Parole in movimento: dialogo con Luana, attivista per la liberazione animale sotto processo a Brescia per la liberazione dei beagle da Green Hill
– Dichiarazione al processo di Green Hill
– Sabotaggio antinucleare: dopo dieci anni si ritorna a processo
Editoriale:
Questi mesi sono stati intensi di iniziative che ci hanno visto come collettivo resistenze al nanomondo e redazione dell’Urlo della Terra in numerosi posti e situazioni per discussioni su temi come l’ecologismo radicale, scienze convergenti, liberazione animale. I nostri incontri pubblici seguono la stessa modalità con cui viene fatto e distribuito questo giornale: non esistono aree precise o interlocutori privilegiati a cui facciamo riferimento. Certo, ci piacerebbe dire che questo è un giornale per “chiunque”, che si potrebbe distribuire ovunque, accendendo animi sopiti. Sappiamo bene che non è così. Sicuramente facciamo riferimento ad ambienti e contesti più sensibili dove perlomeno esiste già una qualche forma di attenzione o preoccupazione per quello che ci succede intorno, dentro di noi, agli altri animali e al pianeta, dove alcuni pensieri possono portare a dei dubbi, a momenti di rottura.
Una rottura con questa normalità sempre più normalizzante che sempre più aliena e abitua a uno sfruttamento che si fa di giorno in giorno più insidioso, portandoci a pensare di trovarci di fronte a un monolite a cui non ci si può opporre, se non con pratiche permeate da una mera parvenza di conflittualità.
Molti dei temi che trattiamo in questo giornale, come gli sviluppi tecnologici, l’ecologismo e l’abbattimento di una visione antropocentrica non rappresentano una novità. Negli ultimi anni si è visto crescere un’attenzione senza precedenti: nei media, nella così detta opinione pubblica e di conseguenza in ogni settore economico. Il grande critico della tecnica Jacques Ellul impiegava spesso una formula che, si è “sempre rivelata esatta”:
“Quando in una società si parla esageratamente di un certo requisito umano è perchè questo non esiste più, se si parla esageratamente di libertà, è perchè la libertà è stata annullata”.
Questa attenzione da parte dello stato, dell’economia e di gran parte delle multinazionali è in continua crescita e si rafforza giorno dopo giorno. Questo processo non è qualcosa di separato dalla società, vengono create delle condizioni tecniche per cui questo mondo sia il più desiderabile possibile. Mai si è parlato tanto della difesa della natura come in questi tempi, non si smette di invocarla, di riferirsi ad essa e consacrarvi magniloquenti dibattiti e profondi discorsi. Tutto questo proprio in un periodo storico che vede una distruzione della natura così forte, un avvelenamento così totale di acqua, terra e cielo, una disumanizzazione così globale che i nostri stessi corpi sono a rischio di monocoltura.
Di fatto, nostro malgrado, ci si trova ad affrontare questioni così vitali dentro a un unico grande calderone dove imperversano associazioni ambientaliste, animaliste, organismi internazionali di protezione della natura, comitati etici…
La cosa si fa ovviamente molto più complessa, soprattutto per chi vuole ancora riconoscere e dare forza ai pensieri e significato alle parole. Il processo che vede il potere accaparratore di istanze “verdi” e “antisistema” non è ineluttabile, è sempre possibile creare momenti di rottura che possano disgregarne alcune parti. Queste fermate non previste possono dare il tempo (nuovo) per allargare lo sguardo e scoprire le interconnessioni e le relazioni che legano le catene dello sfruttamento.
L’ineluttabilità del dominio sembra essere entrata profondamente in noi, tanto che spesso i progetti, le situazioni di critica e opposizione, si presentano come una mera sopravvivenza, quasi una testimonianza. Anche ambienti critici verso l’esistente a volte rimangono intrappolati nel recinto, sembra vi sia una segreta fiducia in questo sistema, si mantiene con esso un legame indissolubile che è frutto della insicurezza e della paura. Si pensa, o probabilmente si vuole pensare, che una qualche soluzione arriverà anche da questo stato di cose. In fondo non siamo sotto una dittatura fascista, non viviamo in una democrazia? Ci si abitua sempre di più a questa vicinanza, a questa coesistenza con il potere. I vari progetti e idee pagano poi il prezzo di questa visione: restano, nella migliore delle ipotesi, parziali, o nella peggiore servono al consolidamento del potere stesso in Green, equo-solidale, animalista…
Anche in ambienti critici si sente parlare positivamente delle possibilità della società tecnica. Con le nanotecnologie, si può anche far progredire la medicina e ultimamente, come ricordano a Expo, con i nanoalimenti si potrà nutrire il pianeta. Sembra di sentire i vecchi discorsi su un uso civile del nucleare e quelli sugli ogm. Ancora una volta quello che si presenta di fronte è una riscrittura della realtà su un copione già noto, cambiano solo i materiali con cui è costruito, anche la manipolazione ritorna sempre, con innovazioni sempre più ricombinabili e inafferrabili nella loro essenza e dimensione.
In pochi, di questi tempi, pensano di impossessarsi degli sviluppi tecnologici per un uso “altro”. In tantissimi però, apparentemente pieni di buon senso, danno il loro contributo ad alleviare le fatiche dello schiavo, ormai abbandonata qualsiasi idea di liberarsi dalla schiavitù. Lo sviluppo tecnoscientifico è questo che porta: non solo nocività che ormai sono ampie quanto il mondo, ma un’obbedienza su base volontaria, un’accettazione senza condizioni, perchè è questo l’unico mondo possibile. Un mondo dove è anche prevista la contestazione, dove ci si può indignare e creare masse anonime di indignati in comunicazione via social network.
Anche molte situazioni di base, autogestite, informali, sono colpite da questi pericoli: il vuoto del non-senso in molti casi ha preso il sopravvento, ed ecco a sostenere pratiche di lotta o idee di cambiamento che sono meno radicali di quelle espresse dagli eco-guerrieri della Green Economy. Questi promettono di sovvertire il mondo per come l’abbiamo conosciuto fino adesso. Sappiamo che non stanno scherzando, ma che lo stanno pianificando passo dopo passo, con strumenti che neanche si riescono a cogliere e immaginarne la portata, e quando occorre c’è sempre la guerra, quella incomprensibile da lontano e terrificante da vicino.
Quando non è la fiducia al sistema a prevalere si vedono nascere progetti e si sentono idee di alternative avverse a questa realtà. A una economia ecocida si risponde con una conviviale e di condivisione. Spesso questi progetti, che partono da una riscoperta della natura e da un’altra convivenza con essa, sono dettati dalle migliori intenzioni. Ma si può pensare di cambiare qualcosa di questo esistente costruendo qualcosa al suo interno? Con i suoi materiali, le sue leggi, i suoi veleni e le sue imposizioni? Dal momento che si dice di coltivare biologico non si è forse già accettato una delle regole chiave della Green Economy, facendo propria la sua propaganda, dove quello che è naturale è già stato sostituito da qualcos’altro, un qualcosa di migliore, che sa di migliorato, in sintonia con la tecno-industria e i suoi supermercati del futuro?
È sicuramente importante, anzi fondamentale, pensare già da subito un mondo diverso e sarebbe importante che questo fosse già rappresentato nei nostri mezzi, nei nostri pensieri e nelle nostre azioni. Ma questo non potrà mai realizzarsi senza sbarazzarsi di quello presente. Il fine non dovrebbe essere solo il chiudere un laboratorio, proteggere una foresta o una valle, dovremmo sempre avere lo sguardo verso la distruzione di questo sistema di morte. Come arriviamo a questo sogno lontano fa la differenza, si possono creare già da subito momenti concreti di libertà in cui il nostro agire, non mediato da calcoli da politicante o dal linguaggio virtuale della macchina, porta a una concreta rottura. Questa ben presto verrà ripristinata, ma saremo sempre
lì a creare la prossima.
Dedichiamo questo numero del giornale a Elia Vatteroni, Baffardello anarchico,
che ci ha lasciato in questi giorni di fine estate…
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Intestato a Marta Cattaneo, specificare la causale «L’urlo della Terra».
Italy – L’Urlo della Terra [the Earth’s cry] no.3 is out
The third issue of radical eco paper L’Urlo della Terra is out
In this issue:
A map to access the brain
Genetically modified trees and the bio-economy
Towards a season of biotech consensus?
The wilderness in an Expo sandwich
Notes on the margin of a GM demo
Francois Kepes, the man who rationalizes living machines
Words on the move: talk with Luana, an animal liberation activist on trial in Brescia
following the liberation of beagles from Green Hill [breeding farm in Lombardy].
Declaration to the court at the Green Hill trial
Anti-nuclear power sabotage: back to court after ten years
Editorial:
Recent months have been intense with initiatives that we have been participating in as a collective of resistance to the nanotech world and as editors of L’Urlo della Terra; we have been in many places and situations discussing topics such as radical environmentalism, convergent sciences and animal liberation. We carry out our public interventions the same way as we make and distribute this paper: we don’t go to specific areas or have privileged interlocutors to address. Of course, we’d like to say that this paper is for ‘everybody’ and can be distributed anywhere to awaken dormant spirits. We know well that it’s not like that. Of course we’d rather go for more sensitive milieus and contexts, where there is already some form of attention and interest about what’s happening around us, inside us, to other animals and the planet, where ideas can raise doubts and moments of rupture. A rupture that is increasingly normalizing, always more alien and accustomed to an ever growing insidious exploitation, to the point that we end up thinking we are facing a monolith that can’t be opposed other than with practices with the mere appearance of conflictuality.
Most of the topics we explore in this paper, such as technological developments,
environmentalism and the destruction of an anthropocentric vision do not
represent anything new. In recent years we have been witnessing unprecedented
attention [towards these topics]: by the media, by so-called public opinion and
consequently by all sectors of the economy. The great critic of technology Jacques
Ellul often used a phrase that ‘has always proved to be so’: ‘When a certain
human requisite is excessively talked about in society, it is because it no
longer exists; if freedom is excessively talked about it is because freedom has
been erased.’
The attention shown by the State, the economy and a good number of multinationals
is constantly growing and getting stronger day by day. This process is not
something separate from society, as the technical conditions to make the world as
desirable as possible are being created. Never before has the defence of nature
been talked about as much as it is today, one never stops evoking it, referring to
it and dedicating magniloquent debates and in-depth talks to it. All this is happening
right at a time when nature is being massively destroyed, and water, the soil
and the sky are being totally poisoned, such global dehumanization that our very bodies are at risk of becoming single-crop cultivations.
Unwillingly, we now find ourselves discussing such important questions within one huge cauldron animated by environmentalist and animalist associations, international bodies set to protect nature, ethical committees, etc. The thing is obviously far more complex for those who still want to give strength to their ideas and meaning to their words. The process through which power becomes bearer of ‘green’ and ‘anti-system’ claims is not ineluctable, it is always possible to create moments of rupture that can break this process up in some of its parts. This kind of unexpected moment would offer (new) time for our gaze to expand and discover the interconnections and relations that keep the chains of exploitation linked together.
The ineluctability of dominion seems have penetrated us deeply, to such an extent that projects and situations of critique and opposition often appear as mere survival, a testimony almost. Even milieus that are critical of the existent
remain entrapped in the vicious circle; it seems there’s a secret trust in the system, an indissoluble link with it, a consequence of insecurity and fear. One thinks, or rather wants to think, that some solution will come, even from the status quo. After all we’re not under a fascist dictatorship; don’t we live in democracy? One gets more and more accustomed to the closeness, the coexistence with power. Various projects and ideas then pay the price of this situation: at best they remain paralysed and at worst they serve the consolidation of power as being Green, egalitarian and in solidarity, animalist… One can hear good things being said about the possibilities of technological society even in milieus of critique. Medicine can make
progresses with nano-technologies, while nanotech food will feed the planet, as recently stated at Expo. This sounds like the old talks about a civilian use of nuclear power and about GM. Once again this is yet another rewriting of reality in an
already-known script, only its content has changed; manipulation is also returning, always with innovations that are more and more interchangeable and elusive in their essences and sizes.
In these times few think about laying hold of technological developments in order to make a ‘different’ use of them. On the contrary far too many, apparently driven by common sense, are giving their contribution to alleviating the slave’s
fatigue, now that any idea of liberation from slavery has been abandoned. This is what technological and scientific development brings about: not only nocivity that is as wide as the world, but also voluntary obedience, unconditional acceptance, because this is the only possible world. A world where one can become indignant and create anonymous masses of indignant people through social networks.
Even many grass-root situations, self-managed and informal, are threatened by this
danger: senseless emptiness has gained the upper hand in many cases, hence
practices of struggle and ideas of change that are even less radical than those
expressed by the eco-fighters of the Green Economy. The latter are promising to
subvert the world as we’ve known it so far. We know they’re not joking, but
that they are planning it step by step with instruments whose power can’t be
understood or even imagined; and if need be there is always war, a war
incomprehensible from afar and terrifying close by.
When trust in the system doesn’t prevail, one sees projects being proposed and ideas being expressed about alternative choices to this kind of reality. One responds to the economy that is destroying the environment with a convivial economy based on sharing. Often this kind of project, which starts off from a discovery of nature and a different way to live with it, are animated by the best intentions. But can one think of changing anything of the existent by building something inside it? With its materials, laws, poisons and impositions? When one expresses one’s support to organic agriculture, hasn’t one already accepted one of the key rules of the Green Economy, taken on its propaganda, where what’s natural has already been substituted with something else, something better, which sounds better, which is in harmony with the techno-industry and its supermarkets of the future?
Certainly it is important, or rather fundamental, for us to start thinking about a different world right away, and it is also important for this different world to be present in our means, ideas and actions already. But a different world can never become real if we don’t get rid of the existing one. Our goal shouldn’t just be to close down a lab, protect a forest or a valley, but always to point towards the destruction of the system of death. The way we realize this distant dream will make the difference; real moments of freedom can be created right now, where our actions – unmediated by political calculation and by the virtual language of a machine – can provoke real rupture. The latter will be promptly mended, but we’ll be still there to create the next one.
We dedicate this issue to Elia Vatteroni, anarchist Baffardello who passed away in
the last days of this summer…
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