Nel paese delle democrazie

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«La questione — disse Alice — è sapere se hai il potere
di attribuire alle parole tanti significati diversi.
La questione — disse Humpty Dumpty —
è sapere chi comanda… tutto qui»

Alice, idealista un po’ ingenua, si sta chiedendo in questi giorni se è mai possibile che la parola «terrorismo» abbia un altro significato, dizionario storico-etimologico alla mano. Humpty Dumpty, materialista un po’ grezzo, le risponde che essendo lo Stato a comandare, ed essendo il linguaggio proprietà di chi comanda, allora «terrorismo» significa ciò che vuole lo Stato. Tutto qui.
Negli anni 70 lo Stato concedeva l’appellativo di «terrorista» a chiunque gli contendesse il monopolio dell’uso della violenza, ovvero utilizzasse armi da fuoco o esplosivi, soprattutto ai partecipanti di organizzazioni specifiche combattenti, soprattutto se quelle organizzazioni erano espressione di un più vasto movimento di contestazione, soprattutto se quella contestazione mirava a sfociare in una rivoluzione. Per lo Stato, «terrorista» era soprattutto chi lo attaccava a mano armata.
Oggi che le organizzazioni armate specifiche sono quasi del tutto scomparse, che gli arsenali sovversivi sono desolatamente vuoti, che raramente i movimenti di contestazione assumono dimensioni considerevoli, che (quasi) mai pongono la questione rivoluzionaria, Alice vorrebbe dedurne che lo Stato abbia rinunciato all’uso di questo termine, reputandolo incomprensibile se non in sporadici casi. Già le era insopportabile la definizione di «terrorista» rivolta a chi prendeva di mira gendarmi e magistrati, piuttosto che a chi faceva strage di pendolari e passanti, ma insomma… sapete com’è la gente, quando vede spargimento di sangue si impaurisce e si confonde. Bisogna supporre che per la propaganda non sia stato poi troppo difficile far cadere le persone nell’equivoco, demonizzare il regicida e non il tiranno. Ma ora, via, dopo che negli ultimi decenni si è assistito ad un così triste calo di funerali istituzionali, facciamola finita con lo spauracchio del «terrorismo»!
Invece no. In questa epoca così sprovvista di «nemici esterni» credibili, ma al tempo stesso carente di solidi consensi, quando attorno non è rimasto più nessuno ad applaudirlo, lo Stato ha pensato bene di giocare d’anticipo, di non attendere la comparsa di qualche minaccia sovversiva per poter dispiegare la macchina da guerra della retorica anti-terrorista: meglio prevenire che reprimere. Ma prevenire chi dal fare cosa? Come sosteneva un profondo conoscitore dell’arte di governare, «Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all’atonismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L’individuo tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi — che sacrificano il proprio io sull’altare dello Stato. Tutti gli altri sono in stato di rivolta potenziale contro lo Stato».
Sarà per questo che lo Stato si è preso la licenza di definire «terrorista» chiunque lo critica, lo avversa, lo contrasta, senza fare troppe distinzioni fra il significato delle parole e la natura dei fatti? Per il fatto che, a parte i santi da pregare e gli eroi da decorare, tutti gli altri sarebbero potenziali ribelli?
«Ma ciò non ha senso!». Certo che no, dolce Alice, però tieni sempre a mente chi comanda. Sta tutto lì.

Com’è cominciata
Il 2001 sarà un anno difficile da dimenticare, per la svolta che ha segnato. Non foss’altro perché gli eventi di quella estate, nell’arco di poche settimane, hanno contribuito a cambiare la vita quotidiana di milioni di persone. Dopo le torride giornate di fine luglio a Genova, quando le manifestazioni contro il periodico vertice dei Grandi della Terra sono state insanguinate da una mattanza generalizzata, si è avuto un secondo martedì di settembre che ha visto il più incredibile attentato contro luoghi del dominio economico e militare mai avvenuto sul suolo degli Stati Uniti. Criticati teoricamente e praticamente da movimenti sociali e radicali da una parte, attaccati militarmente da gruppi integralisti dall’altra, non è sorprendente che i governi occidentali nel loro insieme abbiano deciso di mettere mano ai loro formalismi legali, modificandoli per poter neutralizzare più facilmente i loro contestatori.
Dalla fine del 2001 ad oggi abbiamo assistito in molti paesi ad un incremento delle leggi repressive, ad una vera e propria ristrutturazione dell’ambito del diritto in grado di garantire, se non la pace nei mercati, almeno la quiete nelle strade. Se la minaccia del «terrorismo» rimane lo spauracchio prediletto con cui giustificare un controllo sempre più pervasivo della vita sociale, nonché una incessante limitazione della libertà individuale, non costituisce comunque il solo strumento. Quale che sia la motivazione adottata per la loro attuazione, appare chiaro che i vari provvedimenti legislativi tendono non solo a conformarsi ad un’unica direttiva generale, ma anche a venire applicati in ogni campo ritenuto sensibile. Il blocco amministrativo dei siti, ad esempio, è iniziato con la battaglia contro la «pedopornografia», ma verrà presto esteso dappertutto a quella «anti-terrorismo». A loro volta, le specifiche misure di sicurezza prese non si limitano a prevenire un genere di reati (il recente acquisto da parte delle ferrovie francesi di numerosi droni da dislocare lungo i binari sarà pure mirato a scongiurare eventuali furti di cavi di rame, come ufficialmente dichiarato, ma tornerà senz’altro utile anche nella prevenzione dei sabotaggi). E così via di seguito.
Ora, per quanto interessante, non ha qui molto senso fare un inventario delle varie misure prese in Europa nell’ambito della lotta contro il terrorismo. Anche perché, dall’incriminazione di alcuni sindacalisti di base italiani rei di non aver tentato di fermare i black bloc nel 2001, passando per la messa sotto accusa di un paio di adolescenti inglesi trovati in possesso di libri di ricette anarchiche nel 2007, fino ad arrivare alla condanna a 7 anni di detenzione di un islamico francese rientrato da un breve soggiorno in Siria nel 2014 — tanto per fare solo alcuni esempi — rischieremmo di perderci in un labirinto il cui scopo sarebbe quello di spingerci tutti verso un’unica uscita: un’ineluttabile obbedienza cieca e passiva. Ci sembra più interessante sforzarci di comprendere cosa frulla nella testa dei difensori dell’ordine sociale, di leggerne in controluce le preoccupazioni maggiori.

Lo Stato si attrezza
Innanzitutto, bisognerebbe riuscire a togliersi dalla testa una idea tanto facile quanto comoda. Che quanto sta accadendo in termini di privazione di libertà sia senza precedenti, che siamo di fronte ad una inaudita criminalizzazione esplicitamente indirizzata ai movimenti di lotta. Non è vero. Siamo di fronte alla comune prassi di qualsiasi governo, rivolta contro chiunque, e mirante alla normalizzazione forzata della vita, alla sua codificazione istituzionale, alla sua standardizzazione tecnologica. Il libertario non può e non deve essere più libero di protestare, così come il libertino non può e non deve essere più libero di eccitarsi: protesta ed eccitazione devono essere controllate, non devono uscire da schemi prestabiliti. Sono i moderni strumenti tecnologici di cui dispone oggi lo Stato a rendere questa imposizione possibile, e quindi pensabile, e perciò perseguibile, ed infine capillare. Ed è solo la nostra memoria a corto raggio a renderla stupefacente ed impressionante. Niente di più, niente di meno.
Il “Patriot Act” e le varie Guantanamo in giro per il mondo non possono meravigliare se si pensa che quando gli Stati Uniti scesero in guerra contro la Germania, nel lontano aprile del 1917, si aprì uno dei periodi più bui della storia statunitense, dove chiunque non mostrasse un incondizionato fervore patriottico veniva braccato e perseguitato. Allora si scatenò una vera caccia alle streghe che ebbe il suo apice fra il novembre 1919 ed il febbraio 1920, un periodo in cui la polizia invadeva le abitazioni di migliaia di persone, arrestando chiunque vi si trovasse all’interno. Le retate erano condotte senza seguire minimamente i termini di legge. Uomini e donne venivano arrestati senza mandato, picchiati con brutalità per le strade, trascinati e rinchiusi in centri detentivi per settimane e mesi senza avere la possibilità di avvisare parenti o avvocati. Talvolta pure chi si recava a visitare i prigionieri veniva messo dietro alle sbarre, in base alla nota teoria che solo un sovversivo possa preoccuparsi della sorte di un sovversivo. In quei quattro mesi si aprirono le procedure per la deportazione di tremila immigrati. Di questi circa 800, parecchi dei quali anarchici, furono alla fine effettivamente espulsi, sebbene quasi nessuno di loro fosse stato condannato per aver commesso un qualsivoglia reato. Un noto docente di diritto dell’epoca spiegava: «quando stai cercando di proteggere la comunità contro ratti morali, a volte devi pensare più all’efficacia della trappola che alla sua costruzione rispettosa della legge».
Ad un secolo di distanza, dove sta la differenza sostanziale? I ratti morali statunitensi si incrociano con la racaille francese, o con le zecche italiane, in una esecrazione perbenista che accomuna in un sol fascio tutti coloro che non s’inginocchiano davanti a questo mondo in cui l’unica libertà permessa è quella del consumo sfrenato di merci. Contro di loro lo Stato è in guerra, non da oggi, ma da sempre. E l’«anti-terrorismo» è indubbiamente una delle sue armi principali, da usare come meglio crede senza porsi troppi problemi di coerenza storica. Per comprendere ciò possiamo anche rimanere qui nella vecchia Europa.
Lo Stato spagnolo, ad esempio, non ha dovuto affatto attendere l’11 settembre 2001 per espandere il concetto più comune di «terrorismo» — quello che richiede la presenza di una organizzazione armata specifica — ad una serie di atti che avvengono durante i disordini sociali. L’articolo 577 del codice penale vigente nel paese delle incarcerazioni «incommunicados», li colpiva già nel 1995. Si va dalle lesioni personali alle minacce, dall’incendio al danneggiamento, e tutto ciò senza dover più appartenere ad una vera e propria banda armata. Basta avere «l’intenzione di sovvertire l’ordine costituzionale o di disturbare seriamente l’ordine pubblico», o di perseguire questi fini spaventando non solo gli abitanti di una comunità urbana, ma persino «i membri di gruppi sociali, politici o professionali». Allo stesso modo la legislatura iberica prevedeva già la punizione della «esaltazione del terrorismo» attraverso una qualsiasi forma di espressione pubblica, ovvero ogni incitazione o «giustificazione» a compiere atti considerati terroristici, nonché ogni applauso a chi se ne renda responsabile. Perseguibili, oltre alle minacce, sono da tempo anche «gli insulti e i seri disturbi del funzionamento delle assemblee locali», provocati da chi manifesta il proprio sostegno a gruppi di «terroristi». Come si vede, si tratta di definizioni talmente elastiche da poter essere applicate a qualsiasi movimento minimamente combattivo. Basterebbe fare irruzione in un consiglio comunale a insultare i politici che stanno votando a favore di un progetto nocivo, o fare dei blocchi stradali per fermarne i lavori, per potervi ricadere dentro. Stiamo parlando dello stesso Stato che nel corso degli anni 80, sotto un regime socialista, quindi di sinistra, ha creato un squadrone della morte che ha commesso 28 omicidi ai danni di presunti militanti dell’ETA. Non si sta parlando di un piccolo e lontano paese dell’America Latina, ma della grande e vicina Spagna europea, la quale ha da poco varato una «legge sulla sicurezza cittadina» che privilegia una facile sanzione amministrativa rispetto ad una spesso complicata repressione giudiziaria. Le multe saranno divise in tre scaglioni e pioveranno addosso a chiunque “disturbi” la quiete pubblica.
Veniamo ad oggi e diamo pure uno sguardo alla terra dei diritti dell’uomo, alla patria della rivoluzione, alla culla dell’illuminismo: la Francia. Qui il governo sta varando nuove leggi anti-terrorismo che prevedono novità significative. Ad esempio si farà piazza pulita di un ostacolo su cui spesso inciampavano le inchieste, la necessaria presenza di una associazione. Attraverso l’istituzione giuridica della «impresa individuale terrorista», anche i lupi solitari potranno essere rinchiusi in gabbia senza difficoltà (fino a 10 anni di carcere, oltre al pagamento di ammende pari a 150.000 euro). Non dovranno nemmeno essere colti in flagranza di chissà quale reato, giacché basterà che singoli individui possiedano o cerchino potenziali mezzi (come le sostanze per accendere camini o lo zucchero?), cerchino e controllino possibili obiettivi (come passare davanti a banche o a caserme?), leggano siti web sospetti (come quelli di contro-informazione?) per potersi vedere incriminati. I legislatori francesi la chiamano «neutralizzazione giudiziaria preventiva». Quanto agli atti perseguiti, un lupo solitario non dovrà arrivare a sbranare nessuno perché gli basterà causare semplici «degradazioni» per trovarsi braccato come «terrorista». La nuova legislazione francese in materia prevede anche di inasprire le pene contro l’«apologia di terrorismo», sia che questa rimanga circoscritta in spazi privati (3 anni di detenzione e 45.000 euro di multa) sia che avvenga in spazi pubblici (5 anni di detenzione e 75.000 euro di multa). In quest’ultimo caso l’uso di Internet sarà considerato un’aggravante (fino a 7 anni di detenzione e 100.000 euro di multa). Ovviamente è previsto il «blocco amministrativo» dei siti che saluteranno le azioni dirette o sosterranno certe lotte, in quanto colpevoli di «apologia di terrorismo».
Misure queste che erano già in discussione prima del massacro della redazione di Charlie Hebdo, dopo il quale non potranno che peggiorare. Sull’onda dell’indignazione per l’eccidio, non solo le strade di Parigi si sono riempite di uomini in uniforme a caccia di sospetti, ma si è assistito fra l’indifferenza e l’imbarazzo (con qualche debole protesta) ad una repressione che colpisce la libertà di pensiero e di parola. Non sono pochi coloro che sono stati inquisiti e qualcuno già condannato a pene detentive solo per aver espresso il proprio parere non esattamente di cordoglio per le vittime.
A questo proposito, ricordiamo che lo scorso maggio 32 paesi hanno ratificato il protocollo europeo in materia, quel CECPT il cui articolo 5 definisce l’«apologia di terrorismo» come la diffusione volontaria di «un messaggio al pubblico con l’intento di istigare a commettere un “reato terroristico”, qualora tale comportamento, anche non sostenendo direttamente reati di terrorismo, dia luogo al rischio che uno o più reati terroristici possano essere commessi». Da reprimere è quindi qualsiasi messaggio che, anche senza sostenere direttamente la perpetrazione di reati, dia luogo al rischio che qualcuno possa passare alle vie di fatto contro il potere. Fuori della propaganda più servile, il silenzio o la galera.
Per quanto riguarda invece la pirateria informatica — ovvero l’«accesso fraudolento in un sistema di trattamento automatizzato dati, ostacolo al suo funzionamento e introduzione, soppressione o modificazione fraudolenta dei dati» — nella nuova legislazione francese sarà prevista l’aggravante di «banda organizzata». Ciò significa che, ad esempio, gli attivisti di Anonymous andranno incontro ad una condanna a 10 anni di carcere e a 1.000.000 di euro di multa. Inoltre, progettato per ostacolare la circolazione oltre il confine di aspiranti martiri della guerra santa, ma applicabile anche ai sostenitori della guerra sociale, verrà istituito un divieto amministrativo di uscita dal paese per tutte le teste calde già schedate, con ritiro di passaporto e carta di identità, per un periodo di 6 mesi rinnovabile all’infinito.
E poiché le norme in materia tendono a venir omologate a livello europeo, è facile supporre che non ci vorrà molto prima di sentirci un po’ tutti come a casa di Marianne. Il governo italiano ha da pochi giorni approvato un decreto legge che prevede non solo l’oscuramento dei siti che sostengono la guerra (santa o sociale? una mera questione di sfumature) contro questo mondo, ma anche la detenzione per chi andrà a combattere all’estero (come fanno nel presente alcuni islamisti o come facevano soprattutto in passato molti rivoluzionari?). Forse potremmo trasferirci nella civile e neutrale Svizzera, bizzarro paese dove la polizia preleva il Dna dei sovversivi direttamente dai manifesti affissi o dai volantini distribuiti.
Prevenire, prevenire, ancora prevenire.

Consenso ed obbedienza
Esiste una profonda differenza nella maniera in cui democrazia e totalitarismo, sinistra e destra, guardano alla questione di come mantenere il potere. La sinistra cerca il consenso, e per questo predilige le buone maniere. La destra esige obbedienza, e per questo ricorre alla forza. La prima è cordiale, ama ispirare fiducia, è ipocrita. La seconda è rozza, spesso odiosa, ma più sincera. Essendo sorelle siamesi, due facce dello stesso organismo, per conoscerne la vera natura la cosa migliore è rivolgersi a chi non ha peli sulla lingua. È sufficientemente noto che non esistono amici sinceri, sinceri sono solo i nemici.
Ecco perché è inutile prestare troppa attenzione ai discorsi delle anime belle che vorrebbero salvare lo stato di diritto dal baratro delle sue eccezioni. Le loro diffuse lamentele, così prevedibili, le conosciamo ormai a memoria. Ma per capire dove vogliono andare a parare gli attuali padroni del mondo, meglio trattenere il respiro e porgere l’orecchio alla bocca dei loro mastini. Uno di questi è il giurista tedesco Günther Jakobs, il quale ha fatto inorridire i suoi colleghi umanitari sostenendo e motivando apertamente le ragioni per cui «i terroristi non hanno diritti». Secondo Jakobs la rottura del patto sociale, la trasgressione della legge, può far perdere all’individuo il suo status di cittadino. In passato una simile tesi era stata già sostenuta nei casi di alto tradimento (da Hobbes), o nei casi di minaccia costante alla sicurezza (da Kant).
Il diritto penale procede sempre su due binari distinti, quello dialogante ed includente da una parte, e quello neutralizzante ed escludente dall’altra. Se chi infrange la legge viene ritenuto recuperabile, lo Stato lo considera un semplice delinquente a cui spettano comunque tutti i diritti di cittadino. Anche qualora avesse violato una norma, egli non nega la legge radicalmente. Ma al trasgressore della legge per convinzione, a colui che si pone al di fuori dell’ordine sociale minacciandolo costantemente, diventando così non un mero sporadico disobbediente ma un vero e proprio avversario dello Stato, non si può applicare il medesimo trattamento. Questo perché, a detta del giurista teutonico, costui non mostra una sufficiente «garanzia cognitiva», cioè la capacità e la disponibilità di riconoscere l’ordinamento istituzionale. Non è un delinquente da punire, è un nemico da eliminare. In questo senso non va considerato nemmeno una «persona», cioè un soggetto rispetto al quale sia ancora possibile un dialogo da parte dello Stato, e perciò contro di lui va mossa una guerra. Esattamente come contro un nemico (o contro torme di ratti morali, o di zecche).
Con impeccabile coerenza logica Jakobs precisa che, qualora un individuo non offra la garanzia di un possibile ravvedimento, «lo Stato non deve trattarlo come persona, giacché in caso contrario lederebbe il diritto alla sicurezza delle altre persone». Nei confronti degli individui che non riconoscano l’ordinamento giuridico, lo Stato deve applicare il diritto penale del nemico: un diritto che guarda al futuro (per neutralizzare pericoli) e non al passato (per riaffermare la validità di una norma).
Herr Jakobs parla chiaro e spiega perché stiamo assistendo, nell’ambito del diritto, ad un progressivo sganciamento tra fatto in sé giudicato e pena sanzionata. Dopo che alcuni partecipanti a scontri di strada contro la polizia nel 2001 sono stati condannati a oltre 10 anni di galera, non c’è da stupirsi se oggi corre il rischio di finire in prigione anche chi, nel chiuso della sua camera, comunica attraverso un computer connesso in rete il suo dissenso nei confronti dello Stato. Lungo questa china, diventa allora quasi una conseguenza inevitabile il fatto che nel 2014 un manifestante venga ammazzato da una granata. Non nel pericoloso deserto siriano, ma in una placida campagna francese.
Perché se lo Stato guarda al futuro, cosa vede? Crack economici, disoccupazione di massa, esaurimento delle risorse, conflitti bellici internazionali, guerre civili, catastrofi ambientali, esodi, sovraffollamento… Vede insomma un mondo sempre più piccolo, sempre più povero, trasudante disperazione, che si sta trasformando in una polveriera enorme, pregna di tensioni di ogni genere (sociali, etniche, religiose). Un mondo in cui non va tollerata l’accensione della minima scintilla, quale che sia. Se vuole mantenere l’ordine, se vuole proteggere la propria sicurezza, allo Stato non rimane che una strada: chiudere ogni spazio di movimento, sorvegliare ogni forma di libertà, schedare ogni singolo individuo. Anche se non è minacciato da una forza avversaria, lo Stato non può che farsi totalitario. Necessità resa facile da soddisfare dalla tecnologia moderna, che gli permette di non aver più bisogno di riempire le strade col rimbombo degli stivali. Milioni di persone marceranno al passo in punta di piedi, nel silenzio delle pantofole, lasciandogli mantenere le apparenze più democratiche. Anche perché lo Stato può sempre fare affidamento su quella soggezione interiore che impone agli individui di accettare di proprio gradimento, quasi con sollievo, ogni procedimento poliziesco (come avviene in qualche caso di stupro, dove intere comunità si sottopongono volontariamente al prelievo del Dna per evitare di destare sospetti).
Se è vero che il diritto non determina i rapporti sociali ma li riflette, allora c’è da interrogarsi su cosa sia diventato l’essere umano, su cosa siamo diventati tutti noi. Ed iniziare a trarne le conseguenze, senza rifugiarsi nella tradizione o nella mitopoiesi.

Quali conseguenze
Alla fine dell’Ottocento vennero varate in Francia una serie di leggi volte a stroncare un movimento anarchico da cui erano appena usciti Ravachol e Auguste Vaillant, Emile Henry e Sante Caserio. Provvedimenti punitivi, talmente duri da passare alla storia come «leggi scellerate». Un termine facile da ricordare soprattutto perché facile da comprendere. Scellerate sono le leggi brutte, cattive, esagerate. Quelle che non vanno confuse con le leggi belle, buone, giustificate. Con le leggi normali, insomma. Si potrebbe quasi dire con le leggi giuste.
Eccoci qua, ci siamo. Se una volta tanto fossimo sinceri, magari da soli, davanti ad uno specchio, senza nessuno a cui rendere conto, potremmo ammettere che, per quanto critichiamo lo Stato, per quanto urliamo il nostro odio per la sua ferocia e la sua violenza, noi non crediamo fino in fondo a queste nostre parole. Noi siamo i primi a non credere alle nostre idee. Sì, in teoria, a grandi linee, in generale… ma poi, nella pratica, suvvia… spesso si tratta di esagerazioni!
Nella teoria, siamo bravi a sostenere come non esistano sostanziali differenze fra totalitarismo e democrazia, che sono due forme alterne di potere che un regime può assumere a seconda delle circostanze. Siamo abili nell’osservare come la riduzione dell’essere umano a mero numero si concretizzi sia nel tatuaggio sul braccio dei prigionieri del nazismo sia nei codici sulle pratiche dei prigionieri della burocrazia. Siamo capaci di discettare sulla similitudine e continuità fra i vecchi posti di blocco e le moderne telecamere di videosorveglianza. Siamo pronti a notare come la biometria o le banche-dati del Dna avrebbero fatto la gioia delle SS. Ma, nella pratica, quanto ci crediamo e siamo conseguenti? Vediamo i nostri frigoriferi pieni (ancora per quanto?), guardiamo in poltrona la partita di calcio, indossiamo i nostri abiti privi di macchie di sangue, e mentre ci accingiamo ad andare al bar ci diciamo: no, non è la stessa cosa.
Così, se vediamo uno Stato inasprire la sua legislazione per proteggersi da chi non gli obbedisce, tutta la nostra consapevolezza teorica radicale scompare e si ricade dritti nell’indignazione pratica democratica. Allora si va a scavare dentro il diritto, a quel diritto di cui fino al giorno prima si metteva in luce la pura menzogna, alla ricerca di fantomatiche verità tradite o sospese. Si denunciano stati di eccezione al fine di pretendere il ripristino di stati di diritto.
Pensiamo, su un altro livello, al gran parlare che da qualche tempo si fa di un rapporto della NATO risalente al 2003, rapporto che prenderebbe in considerazione l’impiego dell’esercito in operazioni urbane entro il 2020. C’è chi lo ha peritosamente letto, analizzato, studiato, vivisezionato, per poi proclamarne gli strabilianti risultati: l’esercito verrà usato anche nelle nostre strade! Non solo nel passato e nel presente, ma pure nel futuro. E la novità, in cosa consisterebbe? Non certo nel suo utilizzo in situazioni con possibili sbocchi insurrezionali. Tralasciando i carri armati inglesi a Belfast, pur sempre truppe di occupazione, che dire dei cingolati a Bologna nel 1977 (o nella assai più tranquilla Voghera nel 1983, nel corso di una manifestazione repressa anche dalle teste di cuoio)? E i militari che pattugliano da anni, mitra spianato, i luoghi “sensibili” di alcune metropoli?
Può darsi che si tratti solo di una questione di approccio informativo. Può darsi che si dia per scontato che il modo migliore per comunicare con gli altri — questi altri che sovversivi non sono — sia quello di condividerne il linguaggio legalitario, lo stupore umanitario, le rivendicazioni riformiste, le pastoie democratiche. Come se, allo scopo di trascinare le masse, si cercasse prima di arpionarle, conficcarsi al loro interno per poterle agganciare saldamente. Ma, così facendo, non si fa che cullarne le illusioni, ribadire le loro allucinazioni, confermare i loro fantasmi.
Per i moderni sonnambuli dormienti, è tempo di bruschi risvegli, non di suadenti bisbigli o di guide illuminate all’interno dei loro luoghi comuni. Se è rimasto ancora qualcosa da comunicare, se non si vuole tacere per non apportare il proprio stridio al frastuono contemporaneo, allora non rimane che urlare a squarciagola la nostra scomoda verità.
Che non esiste nessuna deriva totalitaria, ma solo una doppia marcia di velocità in quella che lo Stato — qualsiasi Stato — considera la retta via dell’esercizio del potere.

I punti sensibili
La scorsa estate Anthony Glees, docente di sicurezza ed intelligence alla Buckingham University, ha rilasciato una dichiarazione: «Abbiamo cercato di rendere l’estremismo qualcosa per cui non vale la pena correre rischi, ma nonostante tutto ciò evidentemente continuiamo ancora a generare jihadisti. Sono giunto alla conclusione che siamo stati troppo sensibili alla lobby delle libertà civili — gente che afferma che siamo una società multiculturale e che due insiemi di valori fondamentali possano stare felicemente seduti fianco a fianco nel Regno Unito. Abbiamo permesso che delle persone andassero in giro per il paese a predicare l’estremismo e la violenza con la scusa della religione e della libertà di parola».
Il poco simpatico docente inglese non ha tutti i torti. È vero, nonostante la minaccia della repressione, questo mondo miserabile continua a produrre insoddisfatti, arrabbiati, ribelli, pronti ad insorgere per le ragioni più svariate. È vero, due diversi insiemi di valori fondamentali (come quelli legati all’autorità o alla libertà) non possono stare felicemente fianco a fianco. È vero, non si può più permettere che ci sia chi va in giro a predicare la violenza (del capitalismo) con la scusa della libertà di parola. Bisognerà cominciare a porvi rimedio.
Nel linguaggio burocratico udibile nei palazzi di vetro di Bruxelles, dietro alla sigla EPCIP si nasconde il «programma europeo di protezione delle infrastrutture critiche». Attivo già da anni, «Il piano d’azione EPCIP è organizzato intorno a tre assi di intervento: il primo verte sugli aspetti strategici dell’EPCIP e sull’elaborazione di misure applicabili orizzontalmente a tutti i lavori in ambito PIC (Protezione Infrastrutture Critiche); il secondo riguarda la protezione delle infrastrutture critiche e mira a ridurne la vulnerabilità; il terzo concerne l’ambito nazionale e si propone di aiutare gli Stati membri a proteggere le loro ICN (Infrastrutture Critiche Nazionali). Il piano d’azione implica un processo continuo e deve essere riesaminato periodicamente».
Il motivo di questa consultazione permanente fra governi europei è presto detto: «Tutte le parti in causa devono scambiare le informazioni relative alla protezione delle infrastrutture critiche, segnatamente le informazioni riguardanti questioni come la sicurezza delle infrastrutture critiche e dei sistemi protetti, gli studi sulle interdipendenze, i punti vulnerabili, la valutazione delle minacce e dei rischi. Al contempo, occorre fare in modo che le informazioni esclusive, sensibili o di carattere personale scambiate non siano rese pubbliche e che chiunque tratti informazioni riservate o sensibili sia soggetto a un’appropriata verifica di sicurezza da parte dello Stato membro di cui è cittadino». Questo perché «Considerato il livello di interconnessione ed interdipendenza delle economie moderne, la perturbazione o la distruzione di un’infrastruttura critica europea potrebbe comportare delle conseguenze per i paesi esterni all’Unione europea e viceversa. Pertanto, è indispensabile consolidare la cooperazione internazionale nel settore mediante protocolli d’intesa settoriali».
Resta quindi da capire cosa si intenda per «infrastrutture critiche». Esse sono: «le risorse materiali, i servizi di tecnologia dell’informazione, le reti e i beni infrastrutturali che, se danneggiati o distrutti, causerebbero gravi ripercussioni sulla salute, la sicurezza e il benessere economico dei cittadini o sul funzionamento dei governi». Stabilita l’importanza di proteggere simili infrastrutture, i burocrati europei si sono subito messi al lavoro ed hanno diffuso una prima direttiva che, nella sua prima fase, «si riferisce esplicitamente ai settori dell’energia e dei trasporti».
Energia e trasporti: ecco i punti sensibili del dominio. Perché sono questi a consentire tecnicamente la riproduzione dell’esistente, fra cui spicca la produzione, la circolazione ed il consumo di dati e di merci, nonché il funzionamento di ogni genere di macchina. Senza energia e senza trasporti, la vita quotidiana così come la conosciamo — quella al servizio dello Stato — si incepperebbe, rallenterebbe, si fermerebbe. Un’interruzione di quei flussi, soprattutto se prolungata ed estesa, potrebbe provocare un effetto domino dagli esiti imprevedibili, come sostengono quei rapporti.
Nel momento in cui nulla fosse più come prima, tutto diverrebbe possibile. Che terribile prospettiva!

[4/1/15]

Schede
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Alcune novità in Spagna

Con la riforma della «Legge Mordaza»:

Infrazioni molto gravi (da 30 000 a 600 000 euro):
– Manifestazioni non-autorizzate o vietate contro il funzionamento di infrastrutture critiche come centrali nucleari, aeroporti,…
– Fabbricazione o detenzione illegale di armi regolamentari e uso non-conforme di esplosivi catalogati (ad esempio, i fuochi d’artificio)

Infrazioni gravi (da 1000 a 30 000 euro):
– Disturbo dell’ordine pubblico nel corso di eventi pubblici, sportivi, culturali, religiosi o altri raggruppamenti di massa
– Manifestazioni davanti a sedi del Congresso dei Deputati, del Senato e dei parlamenti delle comunità autonome.
– Scontri e incendi dolosi sulla pubblica via (di cassonetti, ecc.)
– Intralcio ai poteri pubblici nell’esercizio delle loro funzioni, ad esempio nel corso di espulsioni da parte di ufficiali giudiziari
– Non ottemperare all’ordine di dispersione nei concentramenti su richiesta della polizia
– Non collaborare con le forze dell’ordine per prevenire un reato
– Consumo ed uso di droghe
– Uso o pubblicazione non autorizzata di immagini o di video delle forze dell’ordine o delle autorità

Infrazioni leggere (da 100 a 1000 euro):
– Manifestazioni o presidi non-autorizzati
– Esibire oggetti pericolosi con l’intenzione d’intimidire
– Insultare o minacciare agenti di polizia, anche nei cortei
– Occupazione di spazi comuni, pubblici o privati
– Graffiti, vandalismo contro l’arredo urbano, etc.
– Scalare edifici o monumenti

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Alcune novità in Grecia

Ristrutturazione delle carceri, ora divise in tre categorie: A, B e C.
La prigione di tipo C è riservata ai condannati per terrorismo, organizzazione criminale e ai detenuti ribelli e portatori di tumulti.
I condannati per terrorismo a più di 12 anni, vanno direttamente nel Tipo C. In altri casi, sarà un procuratore a decidere circa il regime da applicare in funzione della pericolosità del detenuto, etc.
La durata: 2 anni di Tipo C per i più recalcitranti; 4 anni per i condannati per terrorismo e organizzazione criminale. Possibilità di proroga.
Il regime di tipo C: ore di visita limitate (alcune ore al mese), nessuna attività, né permessi, un’ora d’aria al giorno, censura della posta.
Aumento dei poteri dei secondini all’interno e dei poliziotti che sorvegliano l’esterno delle carceri. Per il tipo C, la sorveglianza verrà affidata ad unità speciali di polizia.
Introduzione del braccialetto elettronico per chi usufruisce della condizionale e di un permesso, introduzione dei domiciliari.
La nuova legge prevede il prelievo del DNA nel caso di reati che prevedono una condanna dai 3 mesi in su. (In caso d’innocenza il DNA sarebbe eliminato, vorrebbero farci credere).
Il tipo C, è una prigione all’interno della prigione. La legge interviene adesso in un particolare contesto: isolamento e annientamento delle esperienze di «guerriglia urbana», minaccia del movimento rivoluzionario nel suo complesso.
Lo Stato ha svuotato una sezione della prigione d’alta sicurezza di Domokos, per installarvi la prima sezione C.
Dalla fine del 2014 sono già avvenuti i primi trasferimenti.

Più in generale, le «novità» repressive in Grecia, sono:
Perquisizioni di massa (come dopo il non rientro da un permesso di Xiros, ex “17 Novembre”, circa 100 perquisizioni in tutta la Grecia).
Accusa di terrorismo e appartenenza alle “CCF” per qualsiasi attacco incendiario o esplosivo.
Uso del DNA come prova assoluta, in grado di far imprigionare un buon numero di compagni, accusati di rapina unicamente sulla base delle tracce di DNA.

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Ultime nel mondo, ma in continua evoluzione

ITALIA
La nuova legge prevede alcune modifiche al codice penale introducendo una pena da tre a sei anni di reclusione per chi va a combattere il jihad nei teatri di guerra o sostiene i combattenti organizzando, finanziando e facendo propaganda, anche via web.
Misure più severe, fino a 10 anni di carcere, per i lupi solitari, che si autoaddestrano all’uso delle armi.
Sarà inoltre istituita una black list dei siti internet che sostengono il terrorismo e sarà possibile oscurarli su disposizione dell’autorità giudiziaria. Tramontata l’idea di una Procura nazionale antiterrorismo viene istituito un coordinamento centrale presso la Procura nazionale antimafia per le inchieste che riguardano il terrorismo. Inoltre, il decreto rafforza l’intelligence, favorendo le operazioni sotto copertura ed allargando le garanzie funzionali per gli infiltrati.

CANADA
Col progetto di legge C-51, presentato a fine gennaio dal governo, vengono aumentati notevolmente i poteri delle varie agenzie nazionali di sicurezza. Dalla semplice raccolta di informazioni (da passare poi alla Gendarmeria reale del Canada), ora potranno intervenire direttamente.
Viene istituito il reato di «istigazione» che prevede una pena massima di cinque anni di prigione per chiunque inciti «a condurre attacchi contro il Canada».
Sarà più facile procedere con arresti. La detenzione preventiva passa da tre a sette giorni.
Il progetto di legge mira anche ad allargare le misure che vietano gli spostamenti per chi è sospettato di costituire una minaccia.

BELGIO
Anche il parlamento belga a metà febbraio dovrà esaminare le nuove proposte di legge anti-terrorismo presentate dal governo.
Si tratta di dodici misure che prevedono fra l’altro l’estensione delle «infrazioni terroriste» e quindi dei mezzi per contrastarle, il ritiro della nazionalità in quanto sanzione facoltativa, il ritiro temporaneo di carta d’identità e passaporto, il blocco dei conti correnti, la differenziazione all’interno delle carceri, il ricorso all’esercito per missioni specifiche di sorveglianza.

SPAGNA
All’inizio di febbraio le due principali forze politiche — il Partito Popolare al potere, e quello Socialista all’opposizione — hanno presentato una nuova proposta di legge in base alla quale è prevista l’introduzione della pena dell’ergastolo per chi è giudicato colpevole di aver commesso un attentato che ha provocato la morte di qualcuno. In Spagna la pena massima prevista fino ad oggi era di 40 anni di detenzione, essendo stato abolito l’ergastolo nel 1975 dopo la fine del regime del generale Franco. Norme anche per ostacolare la diffusione di messaggi via internet ed i viaggi all’estero verso zone di guerra. Le risorse di giustizia e polizia verranno rafforzate per contrastare ogni tipo di «terroristi», compresi i «lupi solitari» al di fuori da ogni organizzazione.

INGHILTERRA
Il primo ministro David Cameron è al lavoro per rafforzare ulteriormente l’arsenale legislativo contro la minaccia sovversiva. Fra le misure in discussione c’è il ritiro della cittadinanza per i sospetti jihadisti in rientro da zone di guerra come la Siria o l’Iraq, con la conseguente messa al bando dal territorio britannico per un periodo fino a due anni. Ciò li renderebbe apolidi, impossibilitati ad avere alcun riconoscimento legale. Verrà proibito alle assicurazioni di pagare qualsivoglia riscatto ad islamisti. Inoltre verrà assegnato alle istituzioni educative, dagli asili fino alle università, il compito di identificare e segnalare le possibili teste calde. Previsto anche un giro di vite su internet.

CAMERUN
Intanto in questo paese africano a metà gennaio due leader sindacali sono stati arrestati dopo aver firmato un preavviso di sciopero, con l’accusa di «apologia di crimine, sedizione e attività terrorista». Si tratterebbe di una «detenzione amministrativa» della durata di 15 giorni, ma rinnovabile una volta.

NUOVA ZELANDA
Nuove leggi varate dal parlamento consentono una sorveglianza video 24 ore su 24 senza mandato e il ritiro del passaporto per tre anni per le persone sospettate di essere coinvolte nel terrorismo.

opuscolodemofini.pdf

http://finimondo.org/sites/default/files/opuscolodemofini.pdf
opuscolodemofinistampa.pdf

http://finimondo.org/sites/default/files/opuscolodemofinistampa.pdf

 

Au pays des démocraties

« La question –dit Alice– est de savoir si vous avez le pouvoir
de donner tant de significations différentes aux mots.
La question –dit Humpty Dumpty– est de savoir
qui commande, voilà tout. »

Alice, idéaliste un peu ingénue, est en train de se demander ces jours-ci s’il est possible que le mot «terroriste» ait un autre sens, dictionnaire historico-éthique en main. Humpty Dumpty, matérialiste un peu mal dégrossi, lui répond que vu que c’est l’Etat qui commande, et vu que le langage appartient à celui qui commande, alors «terrorisme» signifie ce que veut l’Etat. Voilà tout.
Dans les années 70, l’Etat accordait l’appellatif de «terroriste» à quiconque lui contestait le monopole de l’utilisation de la violence, c’est-à-dire employait des armes à feu ou des explosifs, surtout contre les participants d’organisations combattantes particulières, surtout si ces organisations étaient l’expression d’un plus vaste mouvement de contestation, surtout si cette contestation visait à déclencher une révolution. Pour l’Etat, c’étaient surtout ceux qui l’attaquaient les armes à la main qui étaient des «terroristes».
A présent que les organisations armées particulières ont presque entièrement disparu, que les arsenaux subversifs sont désespérément vides, que les mouvements de contestation empruntent rarement des dimensions considérables, qu’ils ne posent (presque) jamais la question révolutionnaire, Alice voudrait pouvoir en déduire que l’Etat a renoncé à l’utilisation de ce terme, le considérant incompréhensible à quelques exceptions sporadiques près. La définition de «terroriste» appliquée à celui qui prenait gendarmes et magistrats pour cible plutôt qu’adressée à celui qui massacrait travailleurs pendulaires et passants lui était déjà insupportable, mais en somme… vous savez comment sont les gens, lorsqu’ils voient du sang couler ils prennent peur et deviennent confus. On peut alors supposer qu’il n’a pas été trop difficile pour la propagande de jouer sur cette méprise, de démoniser le régicide et pas le tyran. Mais aujourd’hui, basta, après avoir assisté au cours de ces dernières décennies à une aussi triste baisse de funérailles institutionnelles, finissons-en avec l’épouvantail du «terrorisme» !
Eh bien non. En cette époque si dépourvue d’ «ennemis extérieurs» crédibles mais en même temps en manque de consensus solides, lorsqu’il n’est plus resté personne pour l’applaudir, l’Etat a décidé de prendre de l’avance, de ne pas attendre l’apparition de quelque menace subversive pour déployer la machine de guerre de la rhétorique anti-terroriste : mieux vaut prévenir que réprimer. Mais prévenir qui de faire quoi ? Comme l’affirmait un fin connaisseur de l’art de gouverner, « tandis que les individus tendent, poussés par leur égoïsme à l’atonie sociale, l’Etat représente une organisation et une limitation. L’individu tend continuellement à s’évader. Il tend à désobéir aux lois, à ne pas payer les impôts, à ne pas faire la guerre. Peu nombreux sont ceux — héros ou saints — qui sacrifient leur propre moi sur l’autel de l’Etat. Tous les autres sont en état de révolte potentielle contre l’Etat.»
C’est peut-être pour cela que l’Etat s’est permis de définir «terroriste» quiconque le critique, le contrecarre, s’oppose à lui, sans trop faire de distinction entre la signification des mots et la nature des faits ? Parce que, à part les saints à prier et les héros à décorer, tous les autres seraient de potentiels rebelles ?
« Mais cela n’a pas de sens ! ». Bien sûr que non, douce Alice, mais garde toujours en tête qui est-ce qui commande. Voilà tout.

Comment cela a commencé

2001 sera une année difficile à oublier, pour le tournant qu’elle a marqué. Ne serait-ce que parce que les événements de cet été-là, en l’espace de quelques semaines, ont contribué à changer la vie quotidienne de millions de personnes. Après les torrides journées de fin juillet à Gênes, où les manifestations contre le sommet habituel des Grands de la Terre ont été ensanglantées par un massacre généralisé, est arrivé un second mardi de septembre qui a vu se produire le plus incroyable attentat contre des lieux du pouvoir économique et militaire jamais advenu sur le sol des Etats-Unis. Critiqués théoriquement et pratiquement par des mouvements sociaux et radicaux d’un côté, attaqués militairement par des groupes intégristes de l’autre, il n’est pas surprenant que les gouvernements occidentaux dans leur ensemble aient décidé de dépouiller leurs formalismes légaux en les modifiant afin de pouvoir plus facilement neutraliser leurs contestataires.
De fin 2001 à aujourd’hui, on a assisté dans de nombreux pays à une augmentation des lois répressives, à une véritable restructuration du droit en mesure de garantir, sinon la paix des marchés, au moins la tranquillité des rues. Si la menace du «terrorisme» reste l’épouvantail de prédilection grâce auquel justifier un contrôle toujours plus envahissant de la vie sociale, mais aussi une limitation incessante de la liberté individuelle, ça n’est toutefois pas leur seul instrument. Quel que soit le prétexte adopté pour les mettre à jour, il semble clair que les différentes mesures législatives tendent non seulement à se conformer à une directive générale unique, mais également à être appliquées à tout terrain jugé sensible. Le blocage administratif des sites internet par exemple, a commencé avec la bataille contre la «pédopornographie», mais sera bientôt étendu à celui de l’ «anti-terrorisme». Et à leur tour, même les mesures de sécurité particulières ne se limitent pas non plus à prévenir un seul genre de délit (l’acquisition par la SNCF de nombreux drones à disséminer de long des voies viseront certainement à contrecarrer d’éventuels vols de câbles en cuivre, comme cela a été officiellement annoncé, mais sera sans aucun doute aussi utile dans la prévention des sabotages). Et ainsi de suite.
Pour l’instant, bien que cela puisse être intéressant, cela n’a pas beaucoup de sens de faire ici un inventaire des différentes mesures prises en Europe dans le cadre de la lutte contre le terrorisme. Notamment parce que, de l’incrimination de certains syndicalistes de base italiens coupables de n’avoir pas tenté d’arrêter les black bloc en 2001, en passant par la mise en accusation de plusieurs adolescents anglais attrapés en possession de livres de recettes anarchistes en 2007, jusqu’à arriver à la condamnation à 7 ans de prison d’un islamiste français rentré d’un bref séjour en Syrie en 2014 —pour ne donner que quelques exemples— on risquerait de se perdre dans un labyrinthe dont l’objectif serait de nous pousser tous vers une seule sortie possible : une inéluctable obéissance aveugle et passive. Il nous semble plus intéressant de nous efforcer de comprendre ce qui trotte dans la tête des défenseurs de l’ordre social, et d’en lire en contrepoint les principales préoccupations.

L’Etat s’équipe

Il faudrait avant tout réussir à s’enlever de la tête une idée autant facile que confortable. Que ce qui est en train d’arriver en termes de privation de liberté est sans précédent, que nous sommes face à une criminalisation inouïe explicitement dirigée contre des mouvements de lutte. Ce n’est pas vrai. Nous sommes face à la praxis de base de n’importe quel gouvernement, dirigée contre tout le monde, et visant à la normalisation forcée de la vie, à sa codification institutionnelle, à sa standardisation technologique. Le libertaire ne peut et ne doit plus être libre de protester, tout comme le libertin ne peut et ne doit plus être libre de s’exciter : protestation et excitation doivent être contrôlées, elles ne doivent pas sortir des schémas pré-établis. Les instruments technologiques modernes dont dispose l’Etat a rendu cette imposition possible, et donc pensable, et en cela faisable, et enfin capillaire. Ce n’est que notre mémoire à portée limitée qui rend cette imposition incroyable et impressionnante. Ni plus, ni moins.
Le “Patriot Act” et les Guantanamo en tout genre à travers le monde ne peuvent nous choquer si on pense que lorsque les Etats-Unis entrèrent en guerre contre l’Allemagne en ce lointain avril 1917, s’ouvrit une des périodes les plus noires de l’histoire nord-américaine, où tous ceux qui ne démontraient pas leur ferveur patriotique inconditionnelle étaient traqués et emprisonnés. Il se déclencha alors une véritable chasse aux sorcières dont le sommet fut atteint entre novembre 1919 et février 1920, une période lors de laquelle la police envahissait les domiciles de milliers de personnes, arrêtant tous ceux qui s’y trouvaient. Les rafles étaient menées sans suivre le moins du monde les termes de la loi. Les hommes et les femmes étaient arrêtés sans mandat, tabassés brutalement dans les rues, traînés et enfermés dans des centres de détention pendant des semaines et des mois sans avoir la possibilité de prévenir famille ou avocat. Parfois, jusque ceux qui s’avisaient de visiter les prisonniers passaient à leur tour derrière les barreaux, sur la base de la fameuse théorie que seul un subversif peut se préoccuper du sort d’un subversif. Au cours de ces quatre mois-là s’ouvrirent des procédures pour déporter 3000 immigrés. Sur ce total, 800 (dont pas mal d’anarchistes) furent au final réellement expulsés, bien que quasi aucun d’entre eux n’avait auparavant été condamné pour avoir commis le moindre délit. Un célèbre professeur de droit de l’époque expliquait : « quand tu es en train de chercher à protéger la communauté contre des rats moraux, parfois tu dois plus penser à l’efficacité du piège qu’à sa construction respectueuse de la loi.»
A un siècle de distance, où est la différence de fond ? Les rats moraux américains se croisent avec la racaille française, ou avec les tiques italiennes, dans une exécration commune par les gens biens, qui rassemblent dans un même sac tous ceux qui ne s’agenouillent pas devant ce monde, dont l’unique liberté autorisée est la consommation effrénée de marchandises. L’Etat est en guerre contre eux, non pas depuis aujourd’hui, mais depuis toujours. Et l’ «anti-terrorisme» est sans aucun doute une de ses armes principales, à utiliser au mieux sans trop se poser de questions de cohérence historique. Pour le comprendre, on pourrait aussi rester ici, dans la vieille Europe.
L’Etat espagnol, par exemple, n’a pas eu besoin d’attendre le 11 septembre 2001 pour étendre la conception la plus banale de «terrorisme» —celle qui requiert la présence d’une organisation armée particulière— à toute une série d’actes qui se produisent lors de désordres sociaux. L’article 577 du code pénal en vigueur au pays des incarcérations «incommunicadas» les a frappés dès 1995. Cela va des blessures contre des personnes aux menaces, de l’incendie à la dégradation, et tout cela sans plus devoir appartenir à une véritable bande armée. Il suffit d’avoir «l’intention de subvertir l’ordre constitutionnel ou de perturber sérieusement l’ordre public», ou de poursuivre ces fins en effrayant non seulement les habitants d’une communauté urbaine, mais aussi les «membres de groupes sociaux, politiques ou professionnels». De la même manière, la législation ibérique prévoyait déjà la punition de l’ «exaltation du terrorisme» à travers toute forme d’expression publique, c’est-à-dire toute incitation ou «justification» d’accomplir des actes considérés comme terroristes, mais aussi toute approbation de ceux qui s’en rendent responsables. Sont également condamnables depuis longtemps, en plus des menaces, «les insultes et perturbations sérieuses du fonctionnement des assemblées locales», provoquées par qui manifeste son soutien à des groupes de «terroristes». On le voit, il s’agit de définitions tellement élastiques qu’elles peuvent être appliquées à n’importe quel mouvement minimalement combatif. Il suffirait de faire irruption dans un conseil municipal pour insulter les politiciens qui sont en train de voter en faveur d’un projet nuisible, ou de faire des barrages routiers pour en arrêter les travaux. Nous sommes en train de parler du même Etat qui au cours des années 80, sous un régime socialiste, donc de gôche, a créé un escadron de la mort qui a commis 28 assassinats contre de présumés militants d’ETA. On n’est pas en train de parler d’un petit et lointain pays d’Amérique Latine, mais de la grande et proche Espagne européenne, qui a il y a peu sorti une «loi sur la sécurité citoyenne» privilégiant la facile sanction administrative plutôt qu’une répression judiciaire souvent plus compliquée. Les amendes seront divisées en trois classes et pleuvront contre quiconque “perturbe” la paix publique.
Venons-en à aujourd’hui et lançons donc un coup d’oeil du côté de la terre des droits de l’homme, de la patrie de la révolution, du berceau des Lumières : la France. Ici, le gouvernement a fait passer de nouvelles lois anti-terroristes qui introduisent des nouveautés significatives. Elles font par exemple place nette à un obstacle qui entravait souvent les enquêtes, la nécessaire présence d’une association de malfaiteurs. A travers l’instauration juridique de l’ «entreprise terroriste individuelle», même les loups solitaires pourront être enfermés en cage sans trop de difficulté (jusqu’à 10 ans de prison, plus des amendes jusqu’à 150 000 euros). Ils ne devront même pas être surpris en flagrance de qui sait quel délit, vu qu’il suffira qu’un individu singulier possède ou recherche de potentiels moyens (comme des produits pour allumer des cheminées ou du sucre ?), cherche et surveille de possibles objectifs (comme passer devant des banques ou des casernes ?), lise des sites web suspects (comme ceux de contre-information ?) pour être condamnable. Les législateurs français nomment cela la «neutralisation judiciaire préventive». Quant aux actes en question, un loup solitaire n’aura besoin de dévorer personne, il lui suffira de causer de simples «dégradations» pour être traqué comme «terroriste». La nouvelle législation française en la matière prévoit aussi d’augmenter les peines contre l’ «apologie de terrorisme», qu’elle soit circonscrite à des espaces privés (3 ans de prison et 45 000 euros d’amende) ou se déroule dans des espaces publics (5 ans de prison et 75 000 euros d’amende). Dans ce cas, l’usage d’internet sera considéré comme une circonstance aggravante (jusqu’à 7 ans de prison et 100 000 euros d’amende). Bien sûr, il est aussi prévu le «blocage administratif» des sites qui salueront les actions directes ou défendront certaines luttes, en tant que coupables d’ «apologie de terrorisme».
Ces mesures étaient déjà en discussion avant le massacre de la rédaction de Charlie Hebdo, après lequel elles ne pourront qu’empirer. Sur la vague d’indignation suite au massacre, non seulement les rues de Paris se sont remplies d’hommes en uniforme en chasse aux suspects, mais on assisté entre indifférence et embarras (avec quelques faibles protestations) à une répression frappant liberté de pensée et de parole. Plusieurs personnes ont été poursuivies et certaines déjà condamnées à de la prison ferme juste pour avoir exprimé leur avis pas vraiment de condoléances envers les victimes.
A ce propos, rappelons qu’en mai dernier, 32 pays ont ratifié le protocole européen en la matière, le CECPT (Council of Europe Convention on the Prevention of Terrorism) dont l’article 5 définit l’ «apologie de terrorisme» comme «la diffusion ou toute autre forme de mise à disposition du public d’un message, avec l’intention d’inciter à la commission d’une “infraction terroriste”, lorsqu’un tel comportement, qu’il préconise directement ou non la commission d’infractions terroristes, crée un danger qu’une ou plusieurs de ces infractions puissent être commises.» C’est donc n’importe quel message qu’il s’agit de réprimer, et qui, même sans soutenir directement la perpétuation de délits, crée le risque que quelqu’un puisse passer à des voies de fait contre le pouvoir. En dehors de la propagande la plus servile, silence ou c’est la prison !
En ce qui concerne plutôt le piratage informatique — c’est-à-dire «l’accès frauduleux à un système de traitement automatisé de données, l’entrave à son fonctionnement ou l’introduction, suppression ou modification frauduleuse de données» —, il est prévu dans la nouvelle législation française la circonstance aggravante de «bande organisée». Cela signifie que, par exemple, les activistes d’Anonymous risqueront une condamnation à 10 ans de prison et 1 000 000 d’euros d’amende. De plus, en vue d’empêcher la circulation au-delà des frontières des aspirants martyrs de la guerre sainte, mais applicable également aux défenseurs de la guerre sociale, a été institué une interdiction administrative de sortie du territoire pour les impulsifs déjà fichés, avec retrait du passeport et de la carte d’identité pour une période de 6 mois renouvelables à l’infini.
Et puisque les normes en la matière tendent à devenir communes au niveau européen, il est facile de supposer qu’on attendra pas longtemps avant de se sentir un peu tous comme chez Marianne. Le gouvernement italien a depuis quelques jours approuvé un décret-loi qui prévoit non seulement la fermeture des sites qui soutiennent la guerre (sainte ou sociale ? simple question de détail) contre ce monde, mais aussi l’incarcération de ceux qui iront combattre à l’étranger (comme le font à présent certains islamistes ou comme le faisaient surtout dans le passé de nombreux révolutionnaires ?). Peut-être pourrait-on se transférer dans la Suisse neutre et civilisée, ce pays bizarre où la police prélève l’ADN des subversifs directement sur les affiches collées ou les tracts distribués.
Prévenir, prévenir, encore prévenir.

Consensus et obéissance

Il existe une profonde différence dans la manière abordent la question de comment maintenir le pouvoir. La gauche recherche le consensus, et pour ce faire privilégie les bonnes manières. La droite exige obéissance, et pour ce faire recourt à la force. La première est cordiale, elle aime inspirer confiance, elle est hypocrite. La seconde est rosse, souvent odieuse, mais plus sincère. Etant des sœurs siamoises, deux faces du même organisme, pour connaître la vraie nature de la chose, mieux vaut s’adresser à ceux qui ne passent pas par quatre chemins. Il est suffisamment connu qu’il n’existe pas d’amis sincères, il n’y a que des ennemis sincères.
Voilà pourquoi il est inutile de prêter trop attention aux discours des beaux esprits qui voudraient préserver l’état de droit du gouffre de ses exceptions. Leurs pleurnicheries habituelles, si prévisibles, on les connaît désormais par cœur. Pour comprendre où veulent aller les maîtres du monde actuels, mieux dont démocratie et totalitarisme, gauche et droite vaut retenir son souffle et poser l’oreille contre la bouche de leurs bulldogs. L’un d’entre eux est le juriste allemand Günther Jakobs, qui a horrifié ses collègues humanistes en défendant et motivant ouvertement les raisons selon lesquelles «les terroristes n’ont pas de droits». Selon Jakobs, la rupture du pacte social, la transgression de la loi peut faire perdre à l’individu son statut de citoyen. Par le passé, cette thèse avait déjà été défendue dans les cas de haute trahison (par Hobbes) ou dans les cas de menace permanente contre la sécurité (par Kant).
Le droit pénal court toujours sur deux rails distincts, celui qui dialogue et inclut d’un côté, et celui qui neutralise et exclut de l’autre. Si celui qui enfreint la loi est considéré comme récupérable, l’Etat le considérera comme un simple délinquant qui préserve toutefois ses droits de citoyen. Bien que celui-ci ait violé une norme, il ne nie pas radicalement la loi. Mais quant au transgresseur de la loi par conviction, quant à celui qui se pose en dehors de l’ordre social en le menaçant constamment, devenant ainsi non plus un simple désobéissant sporadique mais un véritable adversaire de l’Etat, le même traitement ne peut s’appliquer. Et cela, selon le juriste teuton, parce que ce dernier n’offre pas de «garantie cognitive» suffisante, c’est-à-dire une capacité et une disponibilité à reconnaître les règles institutionnelles. Ce n’est pas un délinquant à punir, c’est un ennemi à éliminer. Il ne doit pas non plus être considéré comme une «personne», c’est-à-dire un sujet avec lequel il est encore possible pour l’Etat de dialoguer, et c’est donc une guerre qui doit être menée contre lui. Exactement comme contre un ennemi (ou contre des groupes de rats moraux ou de tiques).
Avec une impeccable cohérence logique, Jakobs précise que si un individu n’offre pas la garantie d’une repentance possible, «l’Etat ne doit pas le traiter comme une personne, parce que dans le cas contraire il léserait le droit à la sécurité des autres personnes». Face à des individus qui ne reconnaissent pas l’ordre juridique, l’Etat doit appliquer le droit pénal en vigueur contre l’ennemi : un droit qui concerne le futur (pour neutraliser des dangers) et pas le passé (pour réaffirmer la validité d’une norme).
Herr Jakobs parle clairement et explique pourquoi nous sommes en train d’assister, dans le cadre du droit, à un décrochage entre le fait jugé en soi et la peine appliquée. Après que quelques participants aux affrontements de rue contre la police à Gênes en 2001 aient été condamnés à plus de 10 ans de taule, on ne peut pas être étonnés si, aujourd’hui, même celui qui de l’intérieur de sa chambre communique son dissensus contre l’Etat à travers un ordinateur connecté à internet court le risque d’aller en prison. En suivant cette pente, le fait qu’un manifestant soit tué par une grenade en 2014 est presque une conséquence inévitable. Non pas dans le dangereux désert syrien, mais dans une placide campagne française.
Parce que si l’Etat regarde le futur, que voit-il ? Des cracks économiques, un chômage de masse, un épuisement des ressources, des conflits militaires internationaux, des guerres civiles, des catastrophes écologiques, des exodes, de la surpopulation… Il voit en somme un monde toujours plus dangereux, toujours plus pauvre, suintant de désespoir, qui se transforme en énorme poudrière, en proie à des tensions en tous genres (sociales, ethniques, religieuses). Un monde où l’allumage de la moindre étincelle, quelle qu’elle soit, ne doit pas être tolérée. Si l’Etat veut préserver l’ordre, s’il veut protéger sa propre sécurité, il ne lui reste qu’une voie : fermer tout espace de mouvement, surveiller toute forme de liberté, ficher tout individu. Même s’il n’est pas menacé par une forme adverse, l’Etat ne peut que se faire totalitaire. Une nécessité rendue facile à satisfaire par la technologie moderne, qui lui permet de ne plus avoir à remplir les rues du bruit des bottes. Des millions de personnes marcheront au pas, mais sur la pointe des pieds et dans le silence des pantoufles, lui permettant de préserver des apparences plus démocratiques. Et notamment parce que l’Etat peut toujours compter sur cette sujétion intérieure qui impose aux individus d’accepter de leur propre gré, quasi avec soulagement, toute procédure policière (comme cela arrive dans certains cas de viol, où des villages et quartiers entiers se soumettent volontairement au prélèvement ADN pour éviter d’être suspectés).
S’il est vrai que le droit ne détermine pas les rapports sociaux mais les reflète, alors on peut s’interroger sur ce qu’est en train de devenir l’être humain, sur ce que nous sommes tous devenus. Et de commencer à en tirer les conséquences, sans se réfugier dans la tradition ou dans la mitopoièsi [création de mythes].

Quelles conséquences

A la fin du 19e siècle passèrent en France une série de lois destinées à éradiquer un mouvement anarchiste dont étaient issus Ravachol et Auguste Vaillant, Emile Henry et Sante Caserio. Des mesures si dures qu’elles sont passées à l’histoire comme les «lois scélérates». Un terme facile à retenir, parce que facile à comprendre. Sont scélérates les lois brutales, mauvaises, exagérées. Celles qui ne doivent pas être confondues avec les lois belles, bonnes, justifiées. Avec les lois normales, en somme. On pourrait presque dire avec les lois justes.
Et voilà, nous y sommes. Si pour une fois on était sincère, peut-être en étant seul, devant une glace, sans personne à qui rendre de comptes, on pourrait admettre que, bien qu’on critique l’Etat, bien qu’on hurle notre haine contre sa férocité et sa violence, on ne croit pas jusqu’au bout à nos propres mots. Nous sommes les premiers à ne pas croire à nos idées. Oui, dans les grandes lignes, en général… puis, en pratique, allez… il s’agit souvent d’exagérations !
En théorie, nous sommes doués pour démontrer comment il n’existe pas de différence de fond entre totalitarisme et démocratie, que ce sont deux formes alternatives du pouvoir qu’un régime peut emprunter selon les circonstances. Nous sommes habiles pour observer comment la réduction de l’être humain à un simple numéro se concrétise dans le tatouage sur le bras des prisonniers du nazisme comme dans les codes pénaux sur les pratiques des prisonniers de la bureaucratie. Nous sommes capables de disserter sur la similitude et la continuité entre les anciens barrages routiers de la police et les modernes caméras de vidéosurveillance. Nous sommes disposés à noter combien la biométrie ou les bases de données ADN auraient fait la joie des SS. Mais, en pratique, à quel point y croyons-nous et sommes-nous conséquents ? Nous regardons nos frigos pleins (pour combien de temps encore ?), nous regardons dans le canapé le match de football, nous mettons nos habits sans tâches de sang, et pendant que nous nous apprêtons à aller au bar, on se dit : non, ce n’est pas la même chose.
Ainsi, lorsqu’on voit un Etat durcir sa législation pour se protéger contre ceux qui n’obéissent pas, toute notre théorie radicale consciente disparaît et on retombe droit dans l’indignation pratique démocratique. Alors on va creuser dans le droit, ce droit qu’on pointait la veille encore comme un pur mensonge, en quête de fantomatiques vérités trahies ou suspendues. On dénonce des états d’exception afin de prétendre au rétablissement d’états de droit.
Pensons, à un autre niveau, aux grandes discussions faites depuis quelque temps sur un rapport de l’OTAN qui remonte à 2003, un rapport qui prendrait en compte l’emploi de l’armée dans des opérations urbaines avant 2020. Certains l’ont lu attentivement, analysé, étudié, vivisectionné, pour ensuite en sortir des résultats épatants : l’armée sera aussi utilisée dans nos rues ! Pas seulement dans le passé et le présent, mais aussi dans le futur. Et la nouveauté, en quoi consisterait-elle ? Certainement pas dans son utilisation lors de possibles explosions insurrectionnelles. Si on laisse tomber les tanks anglais à Belfast, vus comme troupes d’occupation, que dire des blindés à chenilles à Bologne en 1977 (ou dans la bien plus tranquille Voghera en 1983 au cours d’une manifestation réprimée y compris par les unités spéciales) ? Et les militaires qui patrouillent depuis des années, mitraillette en bandoulière, dans les lieux “sensibles” de certaines métropoles ?
Peut-être s’agit-il uniquement d’une question d’approche informative. Peut-être l’évidence est-elle que la meilleure manière de communiquer avec les autres —ces autres qui ne sont pas subversifs— est d’en partager le langage légaliste, l’étonnement humanitaire, les revendications réformistes, les entraves démocratiques. Comme si, afin d’entraîner les masses, on tentait d’abord de les harponner, de s’immiscer à l’intérieur pour les arrimer solidement. Mais, ce faisant, on ne fait que bercer ses illusions, répéter ses hallucinations, confirmer ses fantasmes.
Pour les somnambules dormants modernes, est venu le temps des réveils brutaux, non pas des suaves murmures ou des guides illuminés à l’intérieur de leurs lieux communs. S’il reste encore quelque chose à communiquer, si on ne veut pas se taire pour ne pas apporter son propre grincement au brouhaha contemporain, alors il ne reste qu’à hurler notre vérité inconfortable.
Celle qu’il n’existe aucune dérive totalitaire, mais seulement un passage à la seconde vitesse dans ce que l’Etat —n’importe quel Etat— considère comme le droit chemin de l’exercice du pouvoir.

Les points sensibles

L’été dernier, Anthony Glees, enseignant en sécurité et renseignement à la Buckingham University, a déclaré : « Nous avons tenté de faire de l’extrémisme quelque chose pour lequel il ne vaille pas la peine de courir des risques, mais malgré tout cela, nous continuons encore d’évidence à générer des djihadistes. Je suis arrivé à la conclusion que nous avons été trop sensibles au lobby des libertés civiles —des gens qui affirment que nous sommes une société multiculturelle et que deux ensembles de valeurs fondamentales peuvent rester avec bonheur assises côte à côte au Royaume-Uni. Nous avons permis que des personnes aillent en vadrouille un peu partout pour prêcher l’extrémisme et la violence avec l’excuse de la religion et de la liberté de parole.»
Le fort peu sympathique professeur anglais n’a pas tous les torts. C’est vrai, malgré la menace de la répression, ce monde misérable continue de produire des insatisfaits, des enragés, des rebelles, prêts à s’insurger pour des raisons les plus variées. C’est vrai, deux ensembles différents de valeurs fondamentales (comme celles liées à l’autorité et celles liées à la liberté) ne peuvent rester de façon heureuse côte à côte. C’est vrai, on ne peut plus permettre qu’il y ait des personnes allant en vadrouille pour prêcher la violence (du capitalisme) avec l’excuse de la liberté de parole. Il faudrait commencer à y remédier.
Dans le langage bureaucratique qu’on peut entendre dans les palais de verre de Bruxelles, derrière le sigle EPCIP se cache le « Programme européen de protection des infrastructures critiques ». Actif depuis des années, « le plan d’action pour l’EPCIP est organisé autour de trois volets principaux : le premier porte sur les aspects stratégiques et l’élaboration de mesures applicables horizontalement à tous les travaux en matière de protection des infrastructures critiques (PIC) ; le deuxième concerne la protection des infrastructures critiques et vise à réduire leurs vulnérabilités ; le troisième s’inscrit dans un cadre national et a pour vocation d’aider les États membres à protéger leurs ICN (Infrastructures Critiques Nationales). Ce plan d’action est évolutif et doit être examiné régulièrement. »
La raison de cette consultation permanente entre gouvernements est vite dite : « Les acteurs concernés doivent partager les informations concernant la protection des infrastructures critiques, notamment les questions relatives à la sûreté des infrastructures critiques et les systèmes protégés, aux études sur les liens de dépendance, à la vulnérabilité liée à la PIC et à l’évaluation des menaces et des risques. Dans le même temps, il faut veiller à ce que les informations partagées, qu’elles soient exclusives, sensibles ou à caractère personnel, ne soient pas divulguées et que toute personne traitant des informations confidentielles ou sensibles soit soumise à une procédure d’habilitation adéquate par son État.» Et pourquoi ? Parce que « étant donné le degré d’interconnexion et d’interdépendance des économies modernes, l’arrêt ou la destruction d’une infrastructure européenne pourrait entraîner des conséquences pour les pays à l’extérieur de l’Union et vice versa. Il est indispensable donc de renforcer la coopération internationale en ce domaine, par le biais de protocoles d’accord sectoriels.»
Il reste donc à comprendre ce qu’on entend par «infrastructures critiques». Ce sont : « les installations physiques et des technologies de l’information, les réseaux, les services et les actifs qui, en cas d’arrêt ou de destruction, peuvent avoir de graves incidences sur la santé, la sécurité ou le bien-être économique des citoyens ou encore le travail des gouvernements des États membres. » Vu l’importance de protéger de telles infrastructures, les bureaucrates européens se sont tout de suite mis au travail et ont diffusé une première directive qui, dans sa première phase, « se réfère explicitement aux secteurs de l’énergie et des transports. »
Energie et transports : voilà les points sensibles de la domination. Parce que ce sont eux qui permettent techniquement la reproduction de l’existant, dans lequel on peut distinguer la production, la circulation et la consommation de données et de marchandises, mais aussi le fonctionnement de tout genre de machines. Sans énergie et sans transports, la vie quotidienne telle que nous la connaissons —celle au service de l’Etat— s’enrayerait, ralentirait, s’arrêterait. Une interruption de ces flux, surtout de façon prolongée et étendue, pourrait provoquer un effet domino aux résultats imprévisibles, comme le disent ces rapports.
A partir du moment où rien ne serait plus comme avant, tout deviendrait possible. Quelle terrible perspective !

[février 2015, traduit de l’italien par cettesemaine]
http://cettesemaine.info/breves/spip.php?article755&lang=fr

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